Dalla partenza di James Harden datata 13 gennaio 2021 e ancora prima dall’addio di Daryl Morey di pochi mesi prima (novembre 2020) è iniziata la ricostruzione per gli Houston Rockets. Una prassi che ormai conosciamo a menadito: via tutti i pezzi pregiati in cambio di scelte e contratti in scadenza, qualche stagione a tankare per lasciar crescere i giovani presi con le suddette scelte e attesa per i free agent più ambiti a cui dare la caccia forti dello spazio salariale ottenuto.

La stagione 2023-24 per i razzi del Texas avrebbe dovuto essere la prima in cui tornare competitivi dopo il percorso riassunto sopra. Houston ha infatti avuto sempre record estremamente negativi nelle tre annate precedenti: 17-55 nel 2020-21 (delle 17 vittorie solo 6 avvenute dopo la cessione di Harden) 20-62 l’anno dopo, 22-60 nel 2022-23.

Questo prima che al giovane nucleo della squadra, composto soprattutto da Jalen Green, Alperen Sengun e Jabari Smith Jr., fossero aggiunti i pezzi grossi, o presunti tali: Fred VanVleet dai Raptors che invece hanno iniziato il rebuilding da quest’anno, Dillon Brooks dai Grizzlies (che ne hanno approfittato per scaricare ai Rockets il contratto dell’infortunato Steven Adams, mai in campo quest’anno) e coach Ime Udoka a sostituire Stephen Silas che in questo modo ha avuto l’ingrato compito di allenare la Houston perdente per poi non avere la possibilità di mettere mano a quella costruita per vincere.

I due acquisti di punta dei Rockets, VanVleet e Brooks, con le vecchie maglie

I due acquisti di punta dei Rockets, VanVleet e Brooks, con le vecchie maglie

Un investimento da 128 milioni e mezzo per VanVleet (fino al 2026) 86 per Brooks (fino al 2027) e 28 e mezzo per coach Udoka a cui aggiungere i 25 abbondanti per Adams. Certo, tutti soldi risparmiati dagli scorsi anni, ma aggiungendoci anche altri free agent firmati (come Jock Landale, titolare di un quadriennale per 24 milioni, o il biennale firmato dal 37enne Jeff Green a 19) sforiamo comunque i 300 milioni di dollari, a cui andranno aggiunte altre spese per trattenere i pluricitati giovani prospetti che attualmente percepiscono ancora cifre da rookies e che comprendono anche il centro Amen Thompson scelto alla numero 4 al draft 2023.

Ebbene, il risultato di questo investimento per la stagione corrente è che Houston è fuori anche dal play-in tournament (per raggiungere il decimo posto dovrebbe vincere tutte le gare rimanenti, compreso il derby texano a Dallas del 7 aprile, e contemporaneamente sperare che i Golden State Warriors non vincano più) dopo un anno intero, tolto forse il primo mese, senza mai essere davvero competitiva e che ha avuto come unica gioia il filotto da 11 vittorie consecutive tra il 3 e il 29 marzo che aveva riportato gli uomini di Udoka a sperare nella decima piazza prima di finire massacrati in casa da Luka Doncic e perdere tutte le 4 gare successive (lo scontro diretto coi Warriors in particolare ha visto un impietoso -23)

Non il miglior modo per cominciare un nuovo ciclo vincente dopo la conclusione dell’epopea Harden-Morey col record attuale che dice 38-39 con 17 vittorie divise tra la suddetta striscia di 11 a marzo e quella di 6 consecutive arrivata a inizio novembre.

Chiaro che la Western Conference è sempre un osso duro e riuscire a portare a casa risultati concreti alla prima stagione dopo due anni e mezzo di tanking non è sempre facile ma parliamo comunque di una stagione assolutamente fallimentare per gli Houston Rockets con una squadra che alla luce dei risultati in campo non solo ha palesato evidenti errori di costruzione ma che sembra non aver conservato niente di positivo dalle stagioni precedenti che in teoria dovevano servire a sviluppare il futuro core del roster.

Siccome da grandi poteri derivano grandi responsabilità iniziamo l’analisi della sconfitta da quella che ad oggi è ancora la stella della squadra: Jalen Green.

Jalen Green in schiacciata, cosa che fa con molta frequenza

Jalen Green in schiacciata, cosa che fa con molta frequenza

Scelto alla seconda assoluta nel 2021 dietro solo a Cade Cunningham, altro attuale condottiero della nave in gran tempesta Detroit Pistons, il filippino-californiano ha messo subito in mostra i suoi pregi e difetti in maniera molto chiara: grande atleta e ottimo potenziale slasher, carente nella selezione dei tiri e sinistramente propenso a mettersi in partita continuando a tirare nei periodi di secca offensiva.

Peraltro Jalen non esplora ancora a dovere le suddette doti di slashing tirando quest’anno 4.4 liberi a partita, non tantissimi e in calo rispetto ai 6.1 dello scorso anno, preferendo affidarsi a un tiro da fuori ancora alterno (33.8% in carriera su più di 7 tentativi a gara) Questo profilo si addice a un giocatore ancora da costruire e che ha tempo per farlo dato che ha solo 21 anni; il problema è che quest’anno, in cui si doveva giocare per vincere, si è invece visto esattamente lo stesso Jalen Green delle due stagioni precedenti.

Non si può fare del tutto una colpa a Green per essere ancora un prospetto con margini di miglioramento anche ampi e che ha dato prova delle sue potenzialità durante la streak vincente di marzo in cui ha ricoperto alla grande il suo ruolo di leader offensivo con 30.1 punti in 11 gare a fronte dei 19.9 in stagione. La sua squadra lo ha però trattato come un giocatore già completo quando non lo è ancora affiancandogli peraltro Fred VanVleet che non si è finora rivelato il fit giusto nè per la crescita nè per la valorizzazione di Green.

Nei suoi anni ai Toronto Raptors VanVleet è emerso fino a diventare prima uno degli uomini di punta del primo (e finora unico) anello arrivato in Canada nel 2019 e poi il leader con Pascal Siakam della squadra abbandonata da Kawhi Leonard. Il VanVleet degli ultimi anni però era, ed è, un giocatore nettamente diverso da quello che affiancava l’ex Spurs come dimostra il fatto che i tiri presi dal play sono passati dai 9.4 (4.6 da tre) dell’annata titolata ai 16.9 (quasi 10 da tre) del 2021-22 in cui ha guadagnato l’unica convocazione per l’All Star Game.

Col suo passaggio a Houston VanVleet ha diviso nuovamente la leadership del backcourt della squadra con un altro realizzatore importante come Green ma questo non ha giovato nè ai due, entrambi calati in media punti (16.7 per VanVleet, la più bassa dal 2019, e come detto 19.9 per Green che lo scorso anno ne segnava più di 22 a gara) nè alle sorti della franchigia con Ime Udoka costretto a dare spesso molto spazio ad Aaron Holiday firmato in estate con un parzialmente garantito.

A completare il guaio nella costruzione del pacchetto esterni abbiamo Dillon Brooks che ha mostrato quanto l’etichetta di giocatore duro-e-sporco si sia finora mostrata più mediatica che suffragata dai fatti, non tanto per il fatturato offensivo piuttosto mediocre (il suo 35.4% da tre in stagione è addirittura career high dal 2020) quanto per un defensive rating di 113, il 304esimo della lega per un giocatore che ha firmato un contrattone da presunto top defender.

Spostandoci sui lunghi le note sono meno dolenti ma comunque ben poco rassicuranti. Qui manca del tutto un giocatore esperto stante l’assenza di Steven Adams che verosimilmente sarà usato più come uomo mercato l’anno prossimo dato il suo contratto in scadenza e così i giocatori d’area dei Rockets sono rimasti Jabari Smith Jr. e Alperen Sengun affiancati da Amen Thompson. 22 anni il primo, 21 gli ultimi due.

L’infortunio di Sengun che ha chiuso anzitempo la sua stagione da 21.1 punti e 6.4 rimbalzi di media (unico giocatore in netta crescita rispetto agli scorsi anni) è stato senz’altro una tegola molto pesante per Udoka ma non tale da giustificare da sola la stagione della sua squadra che peraltro ha vinto 9 gare di fila anche senza il turco. Il problema piuttosto è che oltre a mancare l’esperienza, ad occuparsi del lavoro sporco a fronte delle ottime doti balistiche di Sengun e di Smith (13.8 a gara col 36.5% da tre) è il solo Amen Thompson.

Amen Thompson, ottimo rookie ma ancora in maturazione

Amen Thompson, ottimo rookie ma ancora in maturazione

Il gemello di Ausar soffre per certi versi la stessa condizione di Jalen Green: ottimo potenziale, rimbalzista a tratti spettacolare ma fondamentalmente un grande prospetto a cui viene richiesto invece di comportarsi come un giocatore già formato.

Come nel caso di Green è comunque ingiusto addossare a Thompson le colpe di una stagione ondivaga da 9.2 punti e 6.4 rimbalzi con un non esaltante 52.3% dal campo su 7 tentativi (la maggioranza dei quali al ferro) in quanto le ingenti spese dei Rockets per migliorare il roster non hanno previsto un backup nel ruolo di centro che potesse aiutare Amen a crescere in serenità e affinare le proprie doti, a meno di considerare tale l’onesto mestierante Jock Landale.

Gli Houston Rockets targati 2023-24 si sono rivelati un poco esaltante mix di prospetti non sbocciati e non messi in condizione di rendere al meglio e di leader che non si sono mostrati tali in questa stagione. Guardando al futuro prossimo peraltro non c’è troppo da puntare sul mercato a parte utilizzare come accennato Adams come pedina di scambio per prendere un giocatore interno; la speranza per i tifosi texani è che quest’annata negativa abbia comunque portato quella crescita non avvenuta gli scorsi anni per i propri giovani.

Qualora ciò non accadesse ci sarà da interrogarsi sul rinnovo dei vari contratti da rookie, Green in testa; un’operazione che si prospetta non facile in nessun senso. Il momento di iniziare a vincere per i Rockets sembra in sostanza ancora piuttosto lontano, paradossalmente anche per la troppa voglia di farlo subito.

One thought on “Houston Rockets: rebuilding sull’ottovolante

  1. Ma in quale universo i Rockets avrebbero dovuto fare qualcosa quest’anno. Ne hanno vinte anche troppe.

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