Quando il 12 Gennaio del 1995 fu messo in Injured List dai San Antonio Spurs per non fare mai più ritorno sul terreno di gioco, Moses Malone era unanimemente considerato il quarto miglior centro di tutti i tempi dopo l’ineguagliato trio delle meraviglie, Russell, Chamberlain, Jabbar.

Al suo attivo aveva una ventennale carriera fra i professionisti. Un titolo NBA, un MVP delle finali, tre MVP di Regular Season, quattro primi quintetti, altrettanti secondi quintetti, dodici presenze alla partite delle stelle e svariati record.

Ancora oggi, ventuno anni dopo, a guardare i numeri di Moses Malone ci sarebbe da togliersi il cappello. È tuttora fra i primi dieci players di sempre in ben quattro categorie: secondo nei tiri liberi realizzati, alle spalle del suo omonimo Karl; quarto nei tiri liberi tentati davanti a gente come Jabbar, Jordan, Bryant; ottavo per punti messi a segno, quinto per rimbalzi catturati. Tutto ovviamente senza considerare l’ABA dove il nostro ha giocato per un paio di stagioni a inizio carriera.

Sono solo numeri, vero. Ma per quanto freddi e riduttivi possano apparire, risultano ampiamente indicativi del solco profondo che Moses Malone ha scavato nella storia della NBA.

Un solco difficilmente colmabile, tracciato da un giocatore magari non bello da vedere, non dalla tecnica sopraffina, ma in possesso di una forza fisica spaventosa, di una notevole tenacia caratteriale e di un velocità di piedi sorprendente. Piedi da ballerino sotto un fisico da lottatore, si diceva di lui. Piedi che rendevano Moses dotato di un’agilità e una velocità insospettabili.

Vederlo correre con la testa china, incastonata fra le spalle larghe e spesso curve, il collo taurino proteso in avanti, portava alla mente la nitida immagine di un bisonte lanciato alla carica. Stessa forza, stessa velocità, stessa grazia.
Paradossalmente le sue braccia erano corte e le sue mani piccolissime ma la sua ferocia a rimbalzo leggendaria.

Con i suoi due metri e zero otto, generosamente riportati dagli almanacchi, Moses pagava in termini di centimetri rispetto ai rivali dell’epoca, ma suppliva a questa carenza con un senso della posizione ed un tempismo perfetti che lo portavano ad avere una naturale propensione al rimbalzo, soprattutto offensivo, consacrandosi fra i migliori di sempre nella categoria.

Se consideriamo anche i due anni nell’ABA, infatti, solo Chamberlain e Russell hanno preso più rimbalzi di lui nella storia della pallacanestro americana. Lo stesso Red Auerbach, uno che con i due di sopra ha avuto parecchio a che fare, ha definito Moses Malone il migliore di tutti i tempi nella singola specialità più difficile del gioco, il rimbalzo offensivo.

L’eccellente uso del piede perno poi, la maestria nel post basso, gli ottimi movimenti sotto canestro, lo rendevano difficilmente marcabile e quindi realizzatore di livello assoluto. Malone riceveva il pallone, si girava, attaccava il ferro e segnava. E se non segnava, subiva fallo. E se non segnava e non subiva fallo, recuperava il rimbalzo offensivo e ricominciava da capo.

Da qui i sei titoli di miglior rimbalzista della lega e le sedici stagioni consecutive in doppia cifra nella specialità. Da qui le undici stagione consecutive sopra i 20 punti di media. E tutto questo in un’epoca in cui gli avversari si chiamavano Artis Gilmore e Kareem Abdul Jabbar, Bill Walton e Bob Lanier, Robert Parish e Bill Laimbeer e per finire Hakeem Olajuwon e Patrick Ewing.

Moses Eugene Malone, per tutti semplicemente Big Mo, nacque a Petersburg, in Virginia, il 23 marzo del 1955.
Un’infanzia difficile, contrassegnata dall’estrema povertà e dalla totale assenza di una figura paterna, non aiutò il carattere del ragazzo, molto chiuso, lontano da qualsiasi forma di apertura verso l’esterno, verso chi non facesse parte della sua ristretta cerchia.

Moses conobbe la pallacanestro fra i playground della sua città, dove ben presto si fece un nome. Il problema è che aveva serie difficoltà a trovare avversari al suo livello o comunque ragazzi disposti a rivaleggiare con lui. Pur di poter partecipare alle agguerrite sfide di strada arrivò ad accettare una regola che gli venne imposta da compagni ed avversari. Avrebbe potuto giocare solo se durante le partite non avesse mai superato la linea del tiro libero.

Poi arrivò l’età per iscriversi alla High School. E il nome di Moses Malone varcò i modesti confini di Petersburg.
Il suo impatto con la scuola locale fu devastante. Negli ultimi due anni condusse la squadra a un bilancio di 50 vittorie, nessuna sconfitta e due titoli dello stato, con una media di quasi 38 punti a partita.

Il dominio sui coetanei risultò così evidente che Moses fu il primo giocatore nella storia recente del basket pro a prendere in considerazione la possibilità di saltare il college. Fu una scelta valutata attentamente dal giocatore. Sembrò sul punto di rinunciare quando firmò una lettera di intenti con Maryland, ma la situazione economica della famiglia continuava ad essere tragica, ai limiti della sopravvivenza.

stars-74-75-road-moses-malone-4Così il ragazzo fece la scelta più ovvia. Una scelta clamorosa per l’epoca.
Il 17 aprile, uno storico 17 aprile per tutto il basket a stelle e strisce, gli Utah Stars dell’ABA lo chiamarono al terzo giro del draft del 1974.

Pochi giorni dopo Malone firmò con la sua nuova squadra un contratto da oltre mezzo milione di dollari. Era diventato improvvisamente ricco.

Moses aveva 19 anni e nessuno sapeva ancora quanto un ragazzo così giovane, che oltretutto non aveva giocato un singolo minuto al college, potesse dare alla causa del basket professionistico.

La risposta è nei numeri di quel primo anno.
Ottantatré partite giocate, 18.8 punti e 14.6 rimbalzi di media. Convocazione all’All Star Game e infine primo quintetto rookie.

Numeri maturati tra l’altro in un contesto difficile. Moses, ragazzo nero dalla scarsissima cultura, cresciuto fra la miseria e la disperazione di Petersburg, non si ambientò mai a Salt Lake City, città bianca e mormone. E del resto la stessa capitale dello Utah non accettò mai pienamente il giovane centro dalle grandi potenzialità .

Un Disk Jockey locale lo soprannominò “Mumble” per via del suo carattere chiuso, ombroso, per le difficoltà a relazionarsi con la stampa e con i tifosi. Per le sue risposte a qualsiasi intervista che spesso erano più che altro mugugni o borbottii incomprensibili, per il suo inglese rozzo e infarcito d’errori.

La stessa NBA, diversi anni dopo, quando Moses sarà di gran lunga il miglior giocatore della lega, proverà a farne un’icona, a renderlo un prodotto appetibile per i media, il marketing e le pubblicità, salvo poi arrendersi all’evidenza. A parlare per Moses Malone, l’antidivo per eccellenza, sarà sempre e solo il campo.

Dopo un anno nello Utah, ad ogni modo, il giovanissimo centro fu ceduto a St. Louis. Giocò appena una quarantina di partite con gli Spirits, poi un infortunio troncò bruscamente la sua stagione.

Era l’ultimo anno di vita dell’ABA.
Quell’estate la NBA assorbì le quattro più importanti franchigie della ormai disciolta lega (Nets, Spurs, Pacers e Nuggets), mentre i restanti giocatori furono selezionati tramite un dispersal draft che avrebbe potuto rivoluzionare lo scenario della National Basketball Association.

Il 5 agosto del 1976 al Madison Square Garden di New York, Moses Malone venne così scelto con la quinta chiamata assoluta dai Portland Trail-Blazers.

Meno di dieci anni dopo, tutte le grandi stelle che avevano partecipato a quella speciale edizione del draft, avrebbero già appeso le loro scarpe al chiodo. Malone invece avrebbe continuato la sua carriera, riuscendo ad attraversare da vincente i gloriosi anni ’80, a scollinare nel decennio successivo e confrontarsi con i nuovi giovani leoni che stavano popolando la lega.

Assisterà personalmente al primo dominio di Jordan, sfiderà sotto canestro un giovanissimo O’Neal, risultando nel pieno degli anni ’90 l’ultimo grande veterano proveniente dall’ormai storica e leggendaria American Basketball Association.

Frattanto i Trail-Blazers che si apprestavano a vincere il primo ed unico titolo della loro storia, erano ottimamente coperti sotto canestro dal terzo anno Bill Walton, colui che si pensava avrebbe ridisegnato i confini per il ruolo di centro.

Così Malone fu spedito ai Buffalo Braves, quelli che un paio d’anni dopo diventeranno San Diego Clippers prima del definitivo trasferimento a Los Angeles, in cambio di una prima scelta futura. La storia narra di un Walton stupito ed arrabbiato con la propria dirigenza per quella trade.

Moses disputò appena due partite con i Braves, poi fu nuovamente ceduto. A Houston. E fu in Texas che iniziò a prendere corpo la sua straordinaria carriera.

Al primo anno in NBA fu terzo nella classifica dei rimbalzisti dopo Jabbar e Walton, ma stabilì un nuovo record nella lega per numero di rimbalzi d’attacco, record che lui stesso migliorerà tre anni dopo.

Malone condusse i Rockets alla finale di Conference contro i Sixers guidati dal più grande dei suoi ex colleghi in ABA, quel Julius Erving all’apice della carriera. Houston perse in sei gare, ma il bottino personale di Moses parlava di 19 punti e quasi 17 rimbalzi in 12 partite di post season.

In gara due della semifinale della Eastern Conference contro i Bullets, aveva catturato 15 rimbalzi offensivi. Uno score che è tuttora record per una partita di playoffs da quando i rimbalzi in attacco sono conteggiati, vale a dire dal 1973.

La stagione successiva, mentre i suoi pari-età esordivano nella lega e si contendevano il titolo di matricola dell’anno, Malone chiuse con 19.5 punti a partita e 15 rimbalzi. Un infortunio ridusse il suo apporto a sole 59 gare e Houston mancò l’accesso alla post-season, ma gli anni migliori per la squadra del Texas erano prossimi ad arrivare.

Nel 1978-79, un Moses in piena salute realizzò 24.8 punti e vinse per la prima volta la classifica dei rimbalzi con la stratosferica cifra di 17.6 a partita. Cifra che acquista ancor più valore se paragonata a quelle degli altri grandi specialisti nel settore, quali Jabbar (12.8 rimbalzi), Hayes (12.1), Unseld (10.8).

Quell’anno stabilì un nuovo record NBA, tuttora ineguagliato, per numero di rimbalzi offensivi in stagione e il 9 Febbraio, contro New Orleans, siglò il suo career high di rimbalzi con 37, di cui 19 offensivi.
Finì nel primo quintetto NBA e vinse il suo primo titolo di MVP di Regular Season.

L’anno successivo i numeri furono ancora una volta di livello eccelso, ma i playoffs rimanevano un muro invalicabile. All’epoca Houston giocava nella Eastern Conference, dove la concorrenza era spietata. Soprattutto la nuova Boston del rookie Larry Bird e l’esperta Philadelphia di Doctor J. non lasciavano alcun margine di speranza alle altre contendenti.

Il destino di Moses si stava rivelando quello di combattere con i pugni e con i denti per portare i suoi Rockets oltre il primo turno di post-season, salvo poi venir schiantati in semifinale di Conference da una delle due grandi favorite al titolo.

Così, quando al termine di quella stagione conclusasi con la superba prova del rookie Magic Johnson in gara 6 di finale contro i Sixers, ci fu un rimescolamento fra le due Conference e i Rockets si ritrovarono nella Midwest Dvision, a Houston in molti tirarono un sospiro di sollievo. Al di là del Grande Fiume, Lakers a parte, la concorrenza era decisamente più blanda.

Correva la Regular Season 1980-81 e Moses fu di nuovo miglior rebounder della lega, mentre la sua media realizzativa aumentò ulteriormente fino a sfiorare i 28 punti a partita. Ma fu in Post Season che cominciarono i veri fuochi d’artificio.

Al primo turno Houston eliminò fra lo stupore generale proprio i Lakers, campioni in carica. Malone chiuse la serie con 31.3 punti e 18 rimbalzi di media, mentre dall’altra parte fecero a loro modo storia gli air ball di un giovanissimo Magic nella decisiva gara 3. Fu quella la prima versione del famoso Tragic Johnson.

Al turno successivo Houston superò dopo sette combattutissime partite gli Spurs di un Gervin da oltre 27 punti di media. Nell’ultimo atto della Western Conference arrivò una facile vittoria in cinque gare contro i Kings di Kansas City, futuri Sacramento.

E fu così che arrivò sorprendentemente la finale. La prima per Houston e per Malone. Avversari, i terribili Boston Celtics.
Quella serie da un lato coronò il sogno di anello del secondo anno Larry Bird, dall’alto consacrò definitivamente l’immenso strapotere sotto canestro di Moses Malone, che da solo affrontò la temibile front line di Boston, da molti considerata fra le più forti di sempre.

La lotta fra le due squadre sembrava impari. L’intera serie appariva dall’esito scontato. Eppure ci fu un momento in cui il pronostico sembrò sovvertito e il clamoroso, incredibile upset dietro l’angolo.

I Celtics venivano da una durissima battaglia fisica e psicologica conclusasi solo alla settima gara contro i Sixers nella finale della Eastern Conference. Una battaglia in cui più volte si erano ritrovati sull’orlo dell’abisso, salvo poi puntualmente riprendersi, riuscendo infine a raggiungere in rimonta agli ultimi secondi di gara 7 l’insperata vittoria nella serie.

Boston si presentò dunque all’atto finale con il fiato corto e le gambe molli. Il resto lo fece Malone. E così la sfida si mantenne estremamente equilibrata fino a gara 4, partita in cui Moses trascinò i suoi alla vittoria e ad impattare la serie sul 2 a 2.

I Celtics sembravano fisicamente ed emotivamente a terra. I Rockets al contrario avevano via via acquistato sempre più fiducia nei propri mezzi. Forse anche troppa, visto che un gasatissimo Malone si ritrovò a pronunciare la storica frase: “Potrei prendere 4 ragazzi dalle strade di Petersburg e battere comunque i Celtics.”

Per la serie, non parlava mai e quando lo faceva, avrebbe fatto meglio a tacere.
Come andò a finire lo sappiamo tutti. Houston non vinse più e Boston si impose in sei gare. Ma a dispetto della sconfitta furono gloria ed onori per il centro in maglia Rockets che quasi da solo aveva retto il confronto contro una squadra decisamente di un altro livello.

E il meglio doveva ancora arrivare.
La stagione successiva fu, numericamente parlando, la migliore della sua carriera. Big Mo mise a segno 31.1 punti a partita (secondo in NBA), cui aggiunse 14.7 rimbalzi (primo).

Il due febbraio realizzò 53 punti contro i Clippers. Nove giorni dopo catturò 32 rimbalzi contro i SuperSonics, di cui 21 in attacco, migliorando il suo stesso precedente record.
Vinse il secondo titolo di MVP.

A fine anno divenne Restricted Free Agent.
Harold Katz, proprietario dei Sixers, una squadra stellare con una grossa lacuna sotto canestro che spesso era costata la vittoria nei momenti cruciali contro i Celtics e contro i Lakers, decise che era giunto il momento di portare colui che ormai era ritenuto il miglior centro della NBA a Philadelphia. Decise che era giunto il momento per lui, per i Sixers, per Julius Erving e per lo stesso Moses di vincere un titolo NBA.

L’offerta che Katz fece a Malone fu faraonica, ma Houston la pareggiò per non perdere il giocatore senza nulla in cambio, per poi decidere comunque di imbastire una trade con i Sixers. Il glorioso numero 2 di Moses approdò dunque a Philadelphia in cambio di Caldweel Jones e della prima scelta al draft dell’anno successivo.

moses-malone-dr-j-julius-ervingC’era molta curiosità attorno alla nuova accoppiata Erving/Malone. Due giocatori per certi versi opposti. Julius è stato forse il miglior comunicatore fra tutti i giocatori che abbiano mai calcato un parquet americano. La sua disponibilità nei confronti della stampa era leggendaria, la fila dei giornalisti davanti al suo armadietto chilometrica.

Moses era l’esatto opposto. Musone, se mai c’è stato un giocatore che abbia meritato questo appellativo.
Eppure Malone nella conferenza stampa di presentazione fu bravo a guadagnarsi subito il rispetto e la simpatia di compagni, giornalisti e tifosi, quando con poche parole e estrema umiltà tenne a precisare che Philadelphia era e rimaneva la squadra del Doc. Lui era lì solo per dare un contributo alla vittoria dell’anello.
E il contributo ovviamente arrivò.

L’impatto di Malone coi Sixers fu impressionante. Philly vinse 65 partite, nove in più dei Celtics, sette più dei Lakers.
Malone mise assieme 24.5 punti e 15.3 rimbalzi. Vinse per il secondo anno consecutivo il trofeo di MVP della lega, il suo terzo totale.

In post season travolse qualsiasi cosa potesse essere d’ostacolo fra lui e la vittoria dell’anello.
Prima dei playoffs pronosticò un azzardato quanto memorabile “Fo, Fo, Fo” prima di salire sul tetto del mondo, dove “Fo” stava nel suo linguaggio estremamente basico per “Four”. Il che equivaleva a dire tre sweep per arrivare al titolo.
Sbagliò davvero di poco.

I Sixers rifilarono un secco 4 a 0 ai Knicks al primo turno, in una serie in cui Malone abusò letteralmente della coppia Webster-Cartwright di New York, segnando 125 punti contro i 60 dei rivali e prendendo 62 rimbalzi contro 36.
In finale di Conference i Sixers vinsero 4-1 contro i Bucks. Bob Lanier, quotato centro di Milwaukee, uno da 20 più 10 in carriera, fu letteralmente spazzato via.

Al termine di questa serie Malone, sorridendo, corresse in “Fo, Fi, Fo” il percorso della squadra prima del titolo. Non avrebbe più sbagliato.

In finale a contendere l’anello a Philly c’erano i soliti Lakers dello showtime, campioni in carica. Vista la caratura degli avversari poteva venir fuori una serie bella, interessante, equilibrata, combattuta. Poteva.

In realtà, non ci fu confronto. Quella dei Sixers fu un’autentica dimostrazione di forza. I Lakers, disorientati e rimaneggiati dagli infortuni, furono travolti per 4 partite a 0.

Nell’arco di tutta la serie Malone abusò, soprattutto a rimbalzo, del suo diretto rivale, Kareem Abdul Jabbar. Nelle 4 partite di finale il centro dei Sixers segnò 103 punti e catturò 72 rimbalzi, per una media di 18 a partita, contro i 94 punti e gli appena 30 rimbalzi di Jabbar.

La lega che avrebbe gradito premiare l’icona Julius Erving al suo primo, meritatissimo anello in NBA, non poté far altro che assegnare il sacrosanto titolo di MVP delle finali a Malone.

Quella serie, quel titolo rappresentarono il culmine della sua carriera, di un quinquennio in cui il giocatore si era issato sul tetto del mondo dopo due finali, un anello, tre titoli di MVP di stagione, un titolo di MVP delle finali, svariati record alla voce rimbalzi.

Da quel momento Moses iniziò però ad essere vittima di infortuni più o meno gravi che ne minarono in parte il rendimento.

L’anno successivo una caviglia malconcia limitò il player nella parte finale di stagione. Arrivò comunque ancora una volta il primo posto nella classifica dei rebounder.

Malone continuò a dominare ancora per un paio d’anni sotto i tabelloni e con i 13.1 rimbalzi della stagione 1984-85, divenne il primo giocatore a vincere per cinque volte consecutive il titolo di miglior rimbalzista di stagione. Chamberlain c’era riuscito in due occasioni per 4 volte di seguito.

La stagione 1985-86 fu l’ultima di Malone coi Sixers. Non fu una stagione fortunata. Un nuovo infortunio lo obbligò a guardare la parte finale della Regular Season e i playoffs dalla panchina.

Bill Laimbeer dei Pistons gli tolse lo scettro di miglior rimbalzista di lega, mentre anche un suo compagno di squadra, il giovanissimo Charles Barkley, che a Malone dovrà praticamente tutto e da lui stava imparando quanto c’era da imparare nella difficile arte del rimbalzo offensivo, lo sopravanzò nelle gerarchie.

Philadelphia decise di ricostruire attorno al ventitreenne Charles, così ne approfittò per cedere Moses ai Washington Bullets, dove il nostro giocò due stagioni numericamente di alto livello. Poi ci fu un nuovo trasferimento. Agli Hawks di Dominique Wilkins.

Anche il primo anno ad Atlanta (20.2 punti e 11.8 rimbalzi a partita) fu molto positivo, ma a quello seguirono due stagioni con la maglia dei Falchi in cui Moses dapprima scese per la prima volta dopo 11 anni sotto i 20 punti di media, in seguito scese per la prima volta dopo 16 lunghissimi anni sotto la doppia cifra alla voce rimbalzi.

Al termine delle tre stagioni agli Hawks, nell’estate del 1991, Moses divenne Free Agent. Firmò per i Bucks. Aveva 36 anni e mise assieme 15.6 punti e 9.1 rimbalzi, cifre di tutto rispetto in un’epoca in cui nel ruolo di centro evoluivano ed erano nel pieno della loro maturità, giocatori del calibro di Pat Ewing, di David Robinson e soprattutto di Hakeem Olajuwon, un altro che agli insegnamenti di Moses, ai tempi in cui frequentava il college a Houston, doveva tantissimo e anche di più.

L’anno successivo gli infortuni tornarono però ancora una volta a bussare a casa Malone. Moses disputò appena 11 gare con Milwaukee, poi fu Injured List fino alla fine della stagione. Sembrava che il ritiro dovesse essere ormai imminente, ma i Sixers lo convinsero a tornare in Pennsylvania e giocare un altro anno per fare da chioccia al giovane Shawn Bradley.

Terminato l’anno a Philadelphia, Moses era di nuovo pronto ad annunciare il ritiro.
Michael Jordan era a giocare a baseball. Houston aveva appena vinto il suo primo titolo e Olajuwon era il suo grande profeta. Gli Spurs cercavano un centro che desse supporto sotto canestro a Robinson nelle dure battaglie di post-season contro i Rockets e contro Hakeem.

Big Mo vide così arrivare sulla scrivania del suo agente una nuova offerta. La accettò. Ma dopo 17 partite si infortunò nuovamente.

Il 12 gennaio gli Spurs misero il giocatore ormai quarantenne in Injured List. La carriera di Moses Malone stavolta era definitivamente giunta al capolinea.

In punta di piedi, senza troppe parole, al massimo con qualche mugugno e qualche borbottio, Big Mo, lo schivo e scorbutico ragazzo di Petersburg, diede addio al basket giocato.

Due anni dopo partecipò alla premiazione di Cleveland dei 50 migliori giocatori della storia.
Sei anni dopo, nel 2001, il suo nome, forse ingiustamente troppo spesso dimenticato quando si parla dei più grandi di sempre, varcò la soglia della Hall of Fame di Springfield, splendido e naturale omaggio ad uno dei maggiori interpreti nella storia del gioco.

Poi il silenzio, fino alla notizia che nessuno avrebbe mai voluto leggere.
Il 13 settembre del 2015, esattamente un anno fa, in una stanza d’hotel a Norfolk, in Virginia, Moses Eugene Malone, all’età di sessant’anni, trovava una serena quanto prematura morte nel sonno. Problemi al cuore, riportava il referto medico.

Nel momento in cui la terribile notizia attraversò l’etere, un commosso Charles Barkley gli rese l’omaggio e il ringraziamento più bello. Ed è con le sue parole che vogliamo chiudere questo piccolo tributo al grande Mo.
“The man I called ‘Dad’ passed today. Words can’t explain my sadness. I will never know why a Hall of Famer took a fat, lazy kid from Auburn and treated him like a son and got him in shape and made him a player. I hope he knew how much I appreciated and loved him.”

“Oggi è morto l’uomo che chiamavo papà. Le parole non possono esprimere la mia tristezza. Non saprò mai il motivo per cui un Hall of Famer ha preso un ragazzino grasso e pigro da Auburn e lo ha trattato come un figlio, mettendolo in forma e rendendolo un giocatore. Questo è ciò che lui ha fatto con me. Spero che sapesse quanto l’ho apprezzato e gli ho voluto bene.”

Moses Malone è sepolto a Houston, in Texas, la città in cui la sua splendida carriera ebbe inizio.

 

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