Li ho considerati tutti. Tutti coloro che potevano aspirare a un posto fra i più grandi giocatori nella storia del basket.

Dopo molto tribolare ho scelto i miei personalissimi migliori trenta. Non solo, li ho messi in fila, uno dopo l’altro, come tanti bravi scolaretti.

Ne ho considerato il talento, le cifre, i record, le tanto adorate statistiche, i risultati di squadra (eh già, Pete, anche quelli!), le vittorie, il contesto storico, la capacità di migliorare i compagni, quella di elevare il proprio rendimento proporzionalmente all’importanza delle partite.

Ho studiato storie, carriere, singoli episodi. Ho valutato anche le più piccole differenze, ho consultato tante classifiche, persino più autorevoli della mia. E alla fine eccoci qui. Al termine della corsa.

È stata un’avventura lunga, difficile, faticosa, ma sicuramente soddisfacente, almeno per me. E fa nulla se negli ultimi tempi ce la siam presa piuttosto comoda. Si sa, gli impegni… e poi… e poi era difficile scrivere la parola fine. Chiudere un capitolo della mia vita che è iniziato la bellezza di dieci, forse anche dodici anni fa. Non ricordo bene quando, non voglio neanche saperlo.

Pensate solo… quando ho iniziato questa rubrica, Bryant non aveva ancora vinto un titolo senza Shaq, LeBron veniva considerato un magnifico perdente, l’unico Curry famoso era Dell e Durant era uno sbarbatello impegnato nel Maryland o giù di lì.

Michael Jordan invece… beh lui aveva da poco appeso per la terza volta le scarpe al chiodo dopo l’esperienza a Washington, una parentesi di cui personalmente avrei volentieri fatto a meno. Ma sono opinioni.
Di certo, però, la sua leggenda era già stata scritta. A caratteri cubitali, in quel di Chicago.

Chiariamo subito. Non sono qui per parlare di ciò che ha fatto o non ha fatto Michael Jeffrey Jordan durante le sue quindici stagioni in NBA. I record, le statistiche, le vittorie, le sfide, c’è un intero web a disposizione per quei pochi che non conoscono, per chi ha ancora sete di sapere.

Io sono qui, dopo 29 articoli e 30 giocatori analizzati, per spiegare il perché di una scelta che poteva sembrare estremamente scontata, ma che invece – almeno a parere di chi vi scrive – non lo è mai stata. A dispetto delle normali credenze popolari.

Inutile negarlo, Jordan viene infatti universalmente considerato il miglior giocatore di basket di tutti i tempi. Pare essere quasi un assioma. Indimostrabile per definizione. Lo si prende per buono e lo si tramanda di bocca in bocca, di padre in figlio, di generazione in generazione.

Lo dicono e lo ripetono tutti a mo’ di ritornello, anche chi non l’ha mai visto giocare, anche chi l’unica partita di basket cui ha assistito è stata Italia Vs. Argentina, finale delle Olimpiadi del 2004, che già la semifinale contro la Lituania non valeva mica la pena.

Lo riporta, a scanso di ogni equivoco, persino il sito ufficiale della National Basketball Association. Testuali parole: “By acclamation, Michael Jordan is the greatest basketball player of all time.”

Il più grande di tutti per acclamazione. Il che non significa lo sia stato veramente. Per carità. I paragoni son difficili e spesso scomodi. Troppi fattori intervengono. Generazioni diverse a confronto, ruoli diversi. Soprattutto regole diverse. Un modo di intendere e praticare il gioco più bello del mondo in maniera non solo differente ma spesso diametralmente opposta.

Basti pensare che quando c’era Mikan non esisteva l’orologio dei 24 secondi.
Quando c’erano Russell e Chamberlain non esisteva il tiro da 3.
Quando c’erano Bird e Magic dapprima non esisteva il salary cap, in seguito non esistevano eccezioni al salary cap, infine si tirava dalla distanza mediamente due o tre volte a partita.

Persino quando c’era Jordan si giocava un altro tipo di basket rispetto ad esempio a quello odierno. Che poi, a ben guardare, sembra trascorso poco più di un battito di ciglia del suo secondo ritiro, in realtà son già passati ben 19 anni. Un’eternità in un mondo che evolve alla velocità della luce. Per fare un paragone, quando MJ approdò nella NBA, ne erano passati appena undici dal ritiro di Chamberlain.

Non stiamo affatto parlando, a ogni modo, di sport diversi, anche se talvolta verrebbe da pensarlo, semplicemente le differenze maturate nel corso degli anni sono tali che non può esistere una risposta oggettiva all’annoso quesito sul più grande di sempre. È tutto aleatorio, imperfetto, soggettivo.

La NBA stessa si guarda bene infatti dal dare una parvenza di oggettività alla scelta di MJ. Acclamazione è il termine usato. Per la serie, l’ha deciso il popolo, noi ci adeguiamo e non ci assumiamo responsabilità. Del resto si sa… vox populi, vox Dei.

Ma quello che spesso non si considera è che nel giudizio popolare inevitabilmente influiscono tanti fattori. E non tutti sono squisitamente tecnici. Non è un caso infatti che nell’ascesa di Jordan al primo posto di quasi ogni classifica (fa evidentemente eccezione Elliott Kalb) abbia influito in larga parte il fatto che sia stato il primo giocatore a sfruttare appieno la grande espansione della NBA nel mondo.

Julius, Larry e Magic hanno aperto la strada. Il Dream Team l’ha spalancata. Jordan ne ha raccolto i saporiti frutti.

No, non insorgete. Non è stato un mero raccoglitore, sia chiaro. Le basi erano state già gettate, il campo ben preparato, ma lui ha partecipato prepotentemente alla semina. Ci ha messo del suo, contribuendo in buona parte a rendere la NBA la lega sportiva più famosa al mondo, quel fenomeno mediatico che oggi tutto conosciamo.

Di pari passo il suo volto, il suo sorriso, la sua lingua, i suoi voli a canestro, il suo arioso soprannome sono entrati con prepotenza nella case di tutto il mondo. Hanno creato quello che ben presto diverrà molto più di un’icona sportiva.

Michael Jordan è stato come mai nessun altro il simbolo di una squadra, di una città, di una lega, di un intero sport. La sua maglia numero 23 era ovunque. C’è stato un tempo, nella prima metà degli anni ’90, in cui un sondaggio condotto in Cina portò alla sorprendente constatazione che MJ fosse il personaggio americano più conosciuto da quelle parti. A debita distanza, al secondo posto, c’era un certo Bill Clinton, all’epoca presidente degli Stati Uniti.

Jordan è stato un’onda anomala. Dentro e fuori dal campo. Ha abbattuto qualsiasi barriera, è stato un Big Bang i cui effetti si sono ripercossi con sommo fragore in tutto il mondo, tracciando nuovi confini per un atleta, ampliandone i limiti. E ancora una volta non stiamo facendo un discorso puramente tecnico.

Sono in pochi nella storia dello sport ad essere stati in grado di fare altrettanto. Forse Muhammad Alì, il cui carattere e le cui scelte politico-religiose son state però parte integrante della sua fama. Forse Pelé, probabilmente il primo atleta nella storia a essere conosciuto in qualsiasi angolo della terra, capace di fermare una guerra civile in Nigeria quando le due fazioni coinvolte nel conflitto siglarono una tregua di 48 ore solo per poterlo vedere giocare.

Eppure nulla, almeno in ambito sportivo, è paragonabile al fenomeno Jordan. Sia per quello che ha fatto in campo, basti pensare che nel 2000 ESPN lo ha collocato al primo posto fra i più grandi atleti del ventesimo secolo, davanti a Babe Ruth e Muhammad Alì in un classifica che vedeva al tredicesimo posto il nostro Wilt Chamberlain, sia per ciò che ha rappresentato fuori dal parquet.

Se da un lato, infatti, ad ogni nuova stagione, ogni nuova finale, quasi ogni nuova partita, MJ aggiungeva un nuovo mattoncino a quel muro insormontabile che stava frapponendo fra lui e il resto del mondo cestistico, dall’altro il suo fenomeno mediatico diventava difficilmente spiegabile e superava persino il reale valore delle sue gesta sul parquet. Il che è tutto dire.

Perché Jordan è stato un cestista eccezionale, forse davvero il più grande di tutti anche se non ci sentiamo di fare i Muzio Scevola della situazione, ma sicuramente è stato il più grande fenomeno mediatico che lo sport abbia mai conosciuto, tanto più considerando un’epoca in cui i social network e la globalizzazione comunicativa erano ancora ben lontani da venire.

Come già detto non siamo qui per raccontare le vita e le opere del 23 da Chicago, le sue imprese dentro e fuori dal campo. Per eventuali approfondimenti potrei rimandarvi alla rubrica NBA Legendary Games, curata dal sottoscritto su questi stessi schermi.
Diamo per scontato di sapere ogni cosa di lui. Nel minimo dettaglio.

La nascita a Brooklyn, New York, il 17 febbraio 1963.
Il trasferimento a Wilmington, North Carolina.
I primi contatti con il mondo del basket.

La Laney High School. L’esclusione dalla prima squadra per una mera questione di centimetri, episodio storico e controverso che segnerà profondamente sia la carriera di coach Clifton “Pop” Herring, sia quella di Jordan che, da squalo quale è sempre stato, sfrutterà quell’esclusione come stimolo a non cedere mai. Ma su questo punto torneremo in seguito.

Arriveranno poi agli anni del college, a North Carolina. Il canestro decisivo nel 1982 contro Georgetown e contro Patrick Ewing. Quello che valse il titolo NCAA e che lo pose sulla mappa geografica del basket.

La chiamata al draft NBA del 1984 dopo Olajuwon e dopo Sam Bowe, un novello Sihugo Green, destinato suo malgrado a passare alla storia.

Le Olimpiadi di Los Angeles. La medaglia d’oro.
I primi anni in NBA, anni di voli a canestro senza eguali, di record realizzativi e di statistiche personali incredibili. Gli anni del “Quando tutti tornano a terra, lui è ancora là in alto…”.

L’infortunio della seconda stagione, il recupero a tempo di record, l’inaspettato aggancio alla post-season. Da sottolineare come con Michael Jordan in campo i Bulls abbiano sempre conquistato i playoffs.

I 63 punti al Garden, record tuttora ineguagliato per una partita di playoffs. “Dio travestito da Jordan”, dirà in quell’occasione Larry Bird.

Non solo voli a canestro e punti però. Che diamine!
La differenza anche nella propria metà campo. Poco alla volta, migliorando giorno dopo giorno. Il titolo di difensore dell’anno, le prime vittorie, soprattutto i primi canestri decisivi. Cleveland e Craig Ehlo le vittime preferite.

The Shot, proprio contro la bionda guardia dei Cavs in gara 5 dei playoffs del 1989. L’esultanza sfrenata immortalata in un famoso spot. Gli albori di una fama che ben presto non conoscerà confini.

I titoli di miglior realizzatore a ripetizione. Ma anche le prime delusioni. Le sconfitte contro i Pistons, i mal di testa di Scottie, la frustrazione di quegli anni.

Il 1991. La liberazione. Il primo titolo. Contro Magic. Il passaggio di consegne fra i due migliori giocatori del pianeta. Era dai tempi di Lew Alcindor, vent’anni prima, che il top scorer della lega non vinceva l’anello NBA. L’inizio della dinastia.

Le battaglie contro i Knicks. Il “Take over” di James Jordan. Il faccia a faccia contro il duro McDaniel.
Il secondo anello, contro Drexler giudicato inferiore come giocatore, ma miglior tiratore dalla distanza. E il 6 su 6 da 3 nel primo tempo di gara 1. Un gesto, quell’allargare le braccia alla telecamere, che ha fatto storia.

Le Olimpiadi di Barcellona. Il Dream Team. La seconda medaglia d’oro. Con Magic e con Bird.

Il three-peat, il primo dai tempi dei Celtics di Russell. Il record, tuttora imbattuto, di media-punti in una serie finale, ben 41 in sei gare.
È l’apoteosi. In quel momento Michael Jordan è molto, molto di più di un giocatore di basket.

Ma per la prima volta non sono solo gloria e onori. Le fughe al casinò di Atlantic City, i problemi col gioco d’azzardo, il libro scandalo dell’ex amico Richard Esquinas, i panni sporchi lavati in pubblico, i debiti accumulati sui campi da golf, le critiche della stampa cui non sembra vero avere qualcosa di ghiotto da addentare e poter finalmente scalfire la patina di perfezione che circondava la vita di Michael Jordan. La situazione che si fa rovente e pare un po’ sfuggire di mano a tutti proprio durante le finali contro i Suns.

E poi la tragedia che si abbatte sulla sua vita. La tragica morte del padre, le altrettanto tragiche speculazioni. La decisione di dire basta. Il ritiro.
Il baseball. Space Jam.

La nostalgia per il gioco più bello del mondo, per l’adrenalina che solo il campo sa dare. Vivere per giocare certe partite, quelle in cui la palla scotta davvero, in cui il suono della sirena è imminente e ogni singolo possesso può volere dire vincere o perdere. Vivere o morire.

L’inevitabile ritorno. I’m back. La gente incollata davanti alle TV.

Rodman. Il quarto titolo, il giorno della festa del papà. Quattro MVP delle finali su quattro. Le lacrime.
Il quinto anello, stavolta contro Utah. Contro Stockton e Malone.
La famosa “Flu-Game”: 38 punti, 7 rimbalzi, 5 assist, la tripla decisiva, il volto che è una maschera sofferente, Pippen che lo sorregge per portarlo in panchina. Un altro tassello nella leggenda, il muro di cui sopra che si fa sempre più spesso.

Infine l’ultima cavalcata. “The Last Dance”, come venne ribattezzata negli Stati Uniti.
L’ultimo All-Star Game, al Madison Square Garden New York, l’arena più famosa al mondo, spesso il palcoscenico delle sue migliori prestazioni.
Il quinto titolo di MVP di Regular Season. La sesta finale. Ancora Utah. Ancora Stockton. Ancora Malone. Ancora una gara 6.

Gli ultimi due minuti di partita giocati quasi in solitudine. La palla rubata, gli ultimi secondi scolpiti nella leggenda.

L’ultimo canestro. La mano alzata. Il sesto titolo. Il sesto MVP su sei finali. Un record che difficilmente potrà mai essere eguagliato in futuro.

L’addio. Non quello definitivo, ma per noi va bene così. Non c’è modo migliore per dire basta.
Sipario.

E ora, al termine di tutto ciò, rimane solo da porsi la fatidica domanda. Che poi è il motivo per cui siamo qui.

Lasciamo stare per un attimo l’immensa popolarità, la fama, l’acclamazione popolare, i soldi che muoveva, le masse che spostava, il fatto che a Chicago il giorno il cui uscivano le sue scarpe erano costretti a chiudere le scuole perché tanto i ragazzi preferivano far la fila davanti a un negozio piuttosto che sgobbare sui banchi… alla fine di tutto, resta da capire perché Michael Jeffrey Jordan sia stato davvero il più grande di tutti.

Ebbene, prima di rispondere, innanzitutto proviamo a dare al concetto di “più grande” una definizione adeguata. Perché anche qui – ancor prima che nella scelta del nome – siamo di fronte a una nozione che si presta a molteplici interpretazioni.
Vediamo un po’…

Il più grande è per caso colui che ha saputo toccare i picchi più elevati anche nel corso di un brevissimo arco di tempo? O piuttosto colui che ha giocato ad altissimo livello per il più ampio arco di tempo possibile e che dunque si è espresso con maggiore continuità?

Nel primo caso, giocatori come O’Neal (tre anni da Most Dominant Ever), Walton (un paio d’anni da Dio sceso in terra e messo a giocare sotto canestro), Baylor (prima parte di carriera folgorante) e persino Barry (un paio di stagioni fenomenali, una finale vinta praticamente quasi da solo) potrebbero dire la loro.

Nel secondo, immaginiamo che Abdul-Jabbar avrebbe pochi rivali nell’accasarsi sul gradino più alto del podio e Duncan gli sarebbe subito dietro.

Ma andiamo avanti.
Possiamo utilizzare le vittorie come discriminante maggiore per la scelta del più grande, visto che nello sport, come nella vita, vincere è l’unica cosa che conta?
O magari, considerando che stiamo per effettuare una scelta su base prettamente individuale, sarebbe più opportuno prendere in considerazione chi nel corso degli anni ha avuto i numeri migliori e ha dato l’impressione di essere individualmente più forte, indipendentemente dai propri compagni e di conseguenza dalle tanto agognate vittorie?

Anche in questi casi, a ben vedere, ci orienteremmo verso nomi diversi da quello di Jordan. Nel primo caso un tale di nome Bill Russell metterebbe in fila tutti quanti, mentre nel secondo Wilt Chamberlain avrebbe ben pochi rivali.

E se anche ci basassimo sul puro talento andando a premiare chi ha dimostrato in carriera di esserne dotato in maggiore quantità o al più di averlo affinato nel tempo in modo da produrre il massimo rendimento possibile, non punteremmo comunque sul nome di Jordan, preferendogli talenti naturali come Bird o Magic o – seppur di poco – Robertson, Abdul-Jabbar, Erving.

E allora?
Allora, a differenza di quanto possa sembrare da queste poche righe, un primo punto a favore di Jordan è proprio qui.

Se infatti decidessimo di non privilegiare sugli altri alcuno di questi aspetti, ma scegliessimo di tenerli tutti in egual considerazione facendone una media ponderata e non dimenticando inoltre di dare giusta importanza anche al contesto storico, non si scampa all’inevitabile destino che alla fine vuole trionfante MJ e di conseguenza l’infallibile giudizio popolare.

Perché Michael Jordan, più di ogni altro giocatore nella storia di questo sport, può essere annoverato se non in prima posizione, sicuramente fra i primi in ogni singolo aspetto del gioco.

Certo, non ha mai segnato quanto Chamberlain e possiamo dare al verbo segnare qualsivoglia significato. Non ha mai realizzato 50.4 punti per gara in una stagione, né ha mai minimamente avvicinato gli exploit realizzativi di Wilt nelle singole partite. I 69 punti di MJ, record individuale maturato dopo due tempi supplementari, Chamberlain li ha superati ben sei volte. Per la cronaca li hanno superati anche Bryant, Sky-walker Thompson, Baylor, l’ammiraglio Robinson, recentemente Devin Booker.

Non ha vinto quanto Russell che ha disputato meno stagioni e ha quasi doppiato il numero dei suoi anelli.

Non ha giocato a lungo come Abdul-Jabbar o Malone o Duncan o Bryant, solo per citare alcuni fra i migliori.
Non aveva l’istinto naturale per il gioco di un Bird o di un Magic, né l’eleganza o il talento naturale di Erving.
Non è mai stato un predestinato, non ha mai avuto le stimmate del prescelto, non ha dominato il basket a qualsiasi livello (NBA, college, High-School e playground) come ad esempio hanno fatto Robertson e Abdul-Jabbar.

Eppure MJ è lì. Ad ogni singola voce presa in considerazione, subito dopo i nomi enunciati, il suo compare sempre.

Chi ha vinto più di lui fra coloro che possono essere ritenuti degni di rientrare in una classifica come questa? Russell e Havlicek, nessun altro.

Chi ha toccato picchi di rendimento più alto? Forse solo Chamberlain negli anni dei record, forse Shaq a cavallo del nuovo millennio, ma se ne può parlare contestualizzando il particolare momento storico. Nessun altro. Barry e Baylor hanno avuto picchi eccezionali, ma non superiori a quelli di MJ. Walton idem.

Chi ha avuto capacità realizzative migliori? Ancora una volta solo Chamberlain negli anni dei record. Ma escludendo Wilt, Jordan va considerato senza alcun dubbio la miglior arma offensiva nella storia del basket per capacità, continuità e soprattutto varietà di soluzioni.

Chi fra i grandissimi è stato più spettacolare, saltava più in alto o affondava a canestro con maggior precisione ed eleganza? Qui non si scampa, i nomi da fare son quelli di Erving, Jordan e Bryant. E dunque nella peggiore delle ipotesi, siamo in top three.

Inoltre chi è stato capace di dominare il gioco su entrambi i lati del campo? E qui la risposta è semplice. Nessuno.

Russell è stato difensore straordinario, ma attaccante limitato. Lo stesso potrebbe valere per Duncan e anche se offensivamente il caraibico aveva un arsenale di tutto rispetto, siamo lontanissimi dagli standard jordaniani. Per non parlare di Garnett. Pippen è stato difensore di pari livello se non superiore a MJ, offensivamente anche estremamente dotato, ma complessivamente il paragone con Jordan neanche comincia.

Magic non aveva lo stesso talento atletico e le stesse capacità realizzative. È stato un buon difensore, nulla di più.
Bird e West son stati superbi realizzatori e ottimi difensori, ma non valevano assolutamente Jordan nella propria metà campo.

Robertson e soprattutto Bryant sono stati quanto di più vicino a MJ sui due lati del campo, ma entrambi non avevano la sua stessa tenuta difensiva, soprattutto in termini di costanza e continuità di rendimento.

Poi c’era Wilt Chamberlain. Attaccante formidabile e completo considerando anche le sue doti di passatore, inoltre difensore eccezionale. Ma Wilt non è mai stato contemporaneamente entrambe le cose. Nella sua prima parte di carriera – come abbiamo visto – è stato un difensore rivedibile, sicuramente svogliato, poco interessato a questo aspetto del gioco. Nella seconda parte, ha invece ridotto notevolmente il suo apporto offensivo dedicandosi con passione alla difesa.

Dunque, tornando a noi, la completezza in ogni aspetto del gioco è il primo punto a favore di MJ, il primo fattore che spinge verso la vetta il suo nome. Ma sarebbe troppo banale se fosse tutto qui.

Secondo punto. Parliamo di contesto storico e di dominio sui contemporanei.

Partiamo dal presupposto che nella storia della NBA il talento medio dei migliori giocatori della lega è sempre stato davvero molto elevato. In ogni epoca, in ogni decade, c’è sempre stato un gruppetto di quattro, cinque o più giocatori che tendenzialmente si equivalevano e si staccavano dal resto del mondo per disputare quasi un campionato a sé.

Questo ha fatto sì che nessun giocatore in oltre settant’anni di NBA sia mai riuscito a esercitare una superiorità davvero netta e decisa su tutti i propri contemporanei. Con sole due eccezioni. George Mikan negli anni ’50, in un’epoca in cui comunque i giocatori di colore erano inesistenti o molto pochi, e Michael Jordan negli anni ‘90.

Se gurdiamo alle restanti epoche, abbiamo sempre avuto come minimo grandi dualismi.
Robertson aveva West, West aveva Robertson ed entrambi avevano un maturo Cousy.
Russell aveva Chamberlain. Chamberlain aveva Russell prima e Abdul-Jabbar dopo.
Abdul-Jabbar aveva Chamberlain, Reed, Cowens, Walton, Moses Malone.
Bird aveva Magic e Erving. Magic aveva Bird e per certi versi Thomas.
In epoca più recente, Shaq aveva prima Olajuwon, poi Duncan, lo stesso Bryant, James.
Al giorno d’oggi sempre James ha Curry, Durant, Westbrook a contendergli anche solo in parte lo scettro di più grande.

Jordan è sempre stato invece nettamente più forte della concorrenza. Drexler, Ewing, Malone, Olajuwon, Barkley, nessuno di loro ha mai dato l’impressione di poter davvero competere con lui, anzi son stati tutti spazzati via nel momento della verità. Per non parlare dei vari Miller, Richmond e pari ruolo.

Alcuni storici hanno mosso l’obiezione della mancanza di un avversario realmente credibile, alla Magic o alla Bird per dire. Ma sinceramente è un’obiezione che non regge. Una NBA senza MJ non sarebbe stata diversa da quella degli anni ’80, con tre, massimo quattro squadre a spartirsi gli anelli e quei quattro o cinque giocatori a dividersi i titoli individuali.

L’impressione comune è che non sia mancato realmente un avversario credibile, ma sia stato proprio Jordan a far saltare completamente il banco, a porsi in una posizione tale di forza da distruggere ogni forma di concorrenza. In un contesto storico, poi, fra i più ricchi di talento nella storia della NBA.

Ma ancora una volta non è tutto qui. C’è un terzo punto da analizzare. A parere di chi scrive il più importante.
Seguitemi solo per poche righe. Ci arriviamo insieme e poi purtroppo dovremo salutarci.

È il primo Novembre del 1986. Jordan è alla sua terza stagione nella lega.
Al Madison Square Garden, Chicago Bulls e New York Knicks scendono in campo per la loro prima partita di Regular Season.
A metà dell’ultimo quarto i Bulls sono sotto di 6 punti, quando l’allora ventitreenne MJ si avvicina al neo allenatore di Chicago, Doug Collins, e gli bisbiglia ad un orecchio: “Coach non ti lascerò perdere la tua prima partita in NBA!”

Detto, fatto. Segna tutti gli ultimi 18 punti dei Bulls e porta la sua squadra alla vittoria, diventando il primo giocatore nella storia a superare i 50 punti al Madison Square Garden da avversario dei Knicks.

Qualche anno dopo, il 29 Aprile del 1992, i Chicago Bulls, nel pieno della loro corsa al secondo titolo NBA, si ritrovano davanti, al primo turno di Playoffs, i Miami Heat, alla loro prima apparizione di sempre in post-season.
In gara 3, in Florida, Miami prende un buon vantaggio e Jordan chiude il primo quarto a secco. È in quel momento che l’ala degli Heat, Willie Burton, sussurra qualcosa di poco carino alle orecchie di MJ. Il risultato dice cinquantadue punti nei successivi tre quarti per il numero 23 e Miami sweeppata.

Quella stessa estate atterra in Florida, sponda Orlando, il colossale Shaquille O’Neal. Shaq era arrivato nella NBA con la nomea di futuro dominatore della lega.
“Se Jordan è il Re, O’Neal sarà l’imperatore” risulta lo slogan più gettonato dalla stampa specialista made in USA.

È il 12 Gennaio del 1993, un martedì qualunque, quando per la prima volta i due giocatori si ritrovano davanti sul parquet. Dopo pochi secondi dalla palla a due, Shaq riceve il suo primo possesso in post. Movimento spalle al canestro, piede perno, giro e stoppone sul muso! Inutile chiedersi chi. Basti sapere che quattro giorni dopo, per la rivincita dei Magic, MJ mette a referto 64 punti. Giusto per capire meglio la storia del re e dell’imperatore.

Ancora qualche annetto dopo, il 21 Gennaio del 1997, il neo allenatore dei New York Knicks, Jeff Van Gundy, muove a Michael Jordan l’accusa più grave. Quella di ruffianeria. Di onorare gli avversari della sua amicizia fuori dal campo, per poi poterli umiliare sul parquet senza che gli stessi possano risentirsene troppo.
Dopo poche ore Knicks e Bulls scendono in campo allo United Center.

Jordan scrive 51 nella vittoria di misura di Chicago. E al termine della partita, inferocito come non mai, si dirige verso la panchina Knicks, trattenuto a stento da Pippen e Rodman (!), urlando: “Adesso ti sarai calmato piccolo dischetto da hockey?!”

Ebbene, è su queste situazioni – ancor prima che sulle vittorie o sulle statistiche – che è nata e maturata la leggenda di Michael Jeffrey Jordan. Le sfide. Le provocazioni. I duelli da vincere, come in un moderno O.K. Corral.
Il voler essere sempre, in qualsiasi momento, il migliore. Il numero uno incontrastato. Il pistolero più veloce del west. E sentire quasi il bisogno fisico di doverlo a ogni costo dimostrare. A venti, trenta, quaranta, persino cinquant’anni, esattamente quanti ne ha oggi.

Di tutto ciò, di uno spirito competitivo finanche preoccupante, la sua leggenda s’è nutrita come pane, ingrossando a dismisura, arrivando così a toccare confini mai esplorati da qualsiasi atleta prima di lui, tranne forse da colui che amava definirsi The Greatest, al secolo Mohammed Alì.

Potremmo riempire diverse pagine e aver detto comunque poco se solo volessimo parlare di tutti i Jordan-stopper che di volta in volta venivano fuori. Illustri difensori che il giorno prima di incontrare Chicago, dichiaravano di aver trovato il modo per fermarlo, per poi venir clamorosamente scherzati in partita. Di tutte le sfide che il nostro ha dovuto affrontare e molto spesso si è dovuto inventare pur di spremere e ottenere da se stesso sempre il massimo.

Dicevamo poco fa della famosa esclusione ai tempi dell’High School. Un’esclusione che di clamoroso aveva ben poco, ma che lo stesso Jordan ha utilizzato non per mettere in cattiva luce il suo ex coach, ma per ricavare da essa ulteriori motivazioni. Che poi Herring sia stato travolto da una poco remunerativa fama, è un aspetto secondario.

Da questo punto di vista, MJ è sempre stato uno squalo. Il suo fine non conosceva empatie umane, emozioni, sentimenti. Per delucidazioni chiedere lumi a compagni e avversari, massacrati in partita come in allenamento. Era tutto ed erano tutti un mezzo per arrivare al suo scopo: sfidare, essere sfidato, competere, azzannare, sentire l’odore del sangue, mordere con sempre più violenza, stritolare, infine uscirne unico vincitore.

Ancor di più, il fatto che non abbia mai avuto un passato da predestinato, che abbia dovuto conquistarsi qualsiasi tipo di affermazione con le unghie e con i denti, che  nessuno  gli abbia regalato nulla solo per il fatto di chiamarsi Jordan, che a differenza di un Bird o Magic prima di arrivare al successo sia dovuto passare  per le Forche Caudine di numerose e cocenti sconfitte, ha temprato, forgiato, esasperato il suo carattere e reso inestinguibile la sua  sete di vittorie. Di imporsi sempre e comunque.

Altamente esplicativa in questo senso la frase che – ormai quarantatreenne – rivolse a un giovanissimo e sfacciato OJ Mayo nell’estate del 2006, prima di umiliarlo sul parquet: “Tu sarai anche il miglior liceale d’America, ma io sono il più forte di sempre.”

È per questi motivi che ancora oggi, MJ viene considerato il prototipo del giocatore vincente, l’incarnazione stessa di uno spirito competitivo e di una ossessione per la perfezione cestistica che non hanno avuto eguali nella storia dello sport e che hanno portato una calda sera di giugno del 1998 uno sconsolato Karl Malone a definirlo seriamente malato, malato di competitività.

È questo forse l’aspetto più inquietante, ma nel contempo più affascinante nella figura di Michael Jordan, di sicuro quello che lo ha spinto, ancor più delle altre motivazioni elencate, sulla cima di questa nostra classifica, in perfetta concordia con la scelta del popolo ma anche a dispetto dello stesso, perché – come anticipato – non lo consideriamo un assioma e di dubbi ne abbiamo e ne avremmo sempre in abbondanza.

Non ci scandalizzeremmo infatti se qualcuno avesse preferito vedere premiato un Chamberlain, un Russell, un Abdul-Jabbar o anche un Magic, ma – diciamolo francamente – la scelta di in tipetto come MJ ci fa decisamente dormire sonni tranquilli.

E ora un doveroso saluto e un caloroso ringraziamento a tutti. Grazie soprattutto per la pazienza nelle lunghe attese.
Alla prossima, se mai ci sarà.

21 thoughts on “1 – Michael Jordan

  1. Complimenti, bellissimo articolo finale e bellissimi tutti gli altri, che ho letto sempre con grande piacere.

  2. Sofferto finale (soprattutto in termini temporali ;-) ), giusto epilogo di una bellissima saga.
    Di Jordan ne hanno scritto e parlato tutti, analizzandone ogni singola sfumatura. Non era facile tirare fuori un articolo così.

    Chapeau

  3. voglio assolutamente un libro sui 50 migliori giocatori di tutti i tempi scritto dal GOAT

  4. Che fatica :-)
    Chi dubitava, in questi x anni, che Jordan sarebbe comunque stato al numero uno?
    Sul due molti dubbi, ma sull’uno nessuno. Questa è una risposta.

  5. Bellissimo! Ma una domanda, perché prima lo chiami Lew Alcindor e poi Kareem Abdul Jabbar? hai rispettato anche l’ordine temporale prima che si convertisse all’islam? :)

    • Quando lo chiamo Lew Alcindor è perché faccio riferimento a un’epoca precedente alla sua conversione. In tutti gli altri casi è ovviamente Kareem Abdul-Jabbar.

  6. l’ha deciso il popolo, noi ci adeguiamo e non ci assumiamo responsabilità.
    E’ un serpente che si mangia la coda. La NBA guarda al profitto, ma i profitti salgono quando salgono gli spettatori, quindi alla fine è inevitabile che il giocatore più forte negli anni in cui sono saliti di più i profitti sia anche quello che ha più fan che lo considerano il migliore di tutti. Se la massima crescita di popolarità della NBA ci fosse stata negli anni ’60, la NBA direbbe che by acclamation il migliore di sempre è Bill RUssell, se negli anni ’70 Kareem, se negli anni 2000 DUncan, ecc.ecc. Per me non ha semplicemente senso stilare una classifica assoluta. Il basket prima del tiro da 3 era un altro sport rispetto a quello dopo, ma anche nell’era del tiro da tre, il basket dei bad boys di Detroit e Knicks un altro sport rispetto a quello di oggi. Come mi piace spesso ripetere, quanto sarebbe durato un Lebron James (che nonostante un fisico bestiale floppa come un maledetto, me ne ricordo uno con Nate Robinson che l’ha toccato ed è andato giù come se l’avesse investito un tir, LOL) con un Rodman attaccato ai maroni? O viceversa, quanto durerebbe la stagione dei Pistons anni ’80 oggi prima di dover chiedere di essere esclusi dai campionati per le troppe squalifiche rimediate? :D

  7. Davvero un grande articolo Goat. Che analizza perfettamente cosa Jordan è stato mediaticamente e tecnicamente, Tralasciando il primo aspetto, che in una classifica del genere non riveste alcuna importanza, anch’io ho sempre pensato che Jordan sia stato il migliore nella storia del gioco in pochi (pochissimi) aspetti, ma in quasi tutti è tra i primissimi. Inoltre è da ammirare la continuità delle sue prestazioni, quel che era in grado di fare in maniera eccellente lo faceva sempre al meglio, con pochissime flessioni durante la sua carriera.

    Non concordo però su quanto dici circa gli avversari. Jordan ha dominato i suoi avversari negli anni ’90 (con tutto che un paio di finali ha rischiato di perderle), ma questi avversari, pur essendo grandissimi campioni, non erano i Bird e i Magic della situazione.
    Non credo affatto che piazzando Barkley, Malone, Olajuwon, Drexler ecc. negli anni ’80 essi avrebbero vinto più di quanto fatto (o non fatto) nella decade successiva. Né credo che trasportando i Bulls in quegli anni avrebbero fatto polpette di Lakers, Celtics, 76ers.
    Come d’altra parte sarebbe ingeneroso considerare le sconfitte di Jordan di quegli anni in cui giocava da solo o quasi al fine di denigrarlo o sminuirlo.

    Altre due parole voglio spendere circa i due cicli di threepeat dei Bulls. Piú volte ho letto che, se non si fosse ritirato, avrebbe potuto eguagliare gli otto titoli consecutivi dei Celtics di Russell. Ho dei dubbi su questo: lui non è mai stato un grande uomo squadra, magari rispettava i compagni e si fidava di loro, ma guardate i terzi anni dei due cicli: una squadra in continua tensione e costantemente sull’orlo di una crisi di nervi (che differenza col clima, fatemi passare il termine, “rilassato” degli attuali Warriors). Non credo sarebbero andati molto oltre, non avrebbero retto, la pausa è servita a Jordan per disintossicarsi non solo dall’ambiente mediatico che si era creato, ma anche da quello interno.

    • Comunque io non ho mai inteso dire nulla di tutto ciò. :-D

      “Non concordo però su quanto dici circa gli avversari. Jordan ha dominato i suoi avversari negli anni ’90 (con tutto che un paio di finali ha rischiato di perderle), ma questi avversari, pur essendo grandissimi campioni, non erano i Bird e i Magic della situazione. Non credo affatto che piazzando Barkley, Malone, Olajuwon, Drexler ecc. negli anni ’80 essi avrebbero vinto più di quanto fatto (o non fatto) nella decade successiva. Né credo che trasportando i Bulls in quegli anni avrebbero fatto polpette di Lakers, Celtics, 76ers.”

      Sulla possibilità dei Bulls di vincere 8 titoli consecutivi invece, non avremo mai la controprova.
      C’è molto di vero in quello che affermi. MJ aveva bisogno di staccare la spina, questo è certo, non per niente è ritornato rigenerato dall’anno e mezzo sabbatico. Probabilmente anche la squadra aveva bisogno di staccare la spina da quella che era una presenza assillante e ingombrante, però c’è anche da dire che:
      – i Bulls erano arrivati alle ultime battute della stagione precedente in condizioni critiche dopo un triennio estenuante sia da un punto di vista fisico che psicologico, ma la dirigenza aveva operato molto bene nell’estate fra il 93 e il 94 e se non ci fosse stato il ritiro di MJ almeno sulla carta la squadra sarebbe stata abbastanza più forte dell’anno precedente.
      – i Bulls senza MJ persero sul filo di lana le semifinali di conference contro i Knicks, in una gara 7 cui forse non si sarebbe neanche dovuti arrivare senza un clamoroso errore arbitrale. E’ dura credere che con un MJ in più non sarebbero riusciti ad andare oltre. E né Indiana, né la Houston di quell’anno (già quella del ’95 è un altro discorso) sembravano possedere le armi per avere ragioni di quei Bulls con in campo MJ. Sarebbe però stata bella una finale fra Jordan e Olajuwon.

      Ultima cosa. Il paragone non devi farlo con il clima dei warriors di oggi, ma con il clima che avranno i warriors fra un paio d’anni, magari alla ricerca del three-peat. Non è un caso se nella storia della NBA solo 4 squadre lo abbiano centrato e che almeno due di queste siano scoppiate subito dopo. Le vittorie logorano. Fisicamente e psicologicamente.

      • Allora non ho ben capito cosa intendessi in quel passaggio :)

        Per il resto concordo sul fatto che la squadra nel 1994 era, sulla carta, piú forte dell’anno precedente, ma ritorniamo a fulcro del discorso, ovvero la tenuta a quei livelli (tra 1992 e 1993 non ci sono sostanziali differenze, eppure il rendimento ne risentí).

        Andare piú in là con gli anni nell’analisi sarebbe eccessivo e troppo aleatorio, in primis per la cessione di Horace Grant, che causò un buco sotto canestro, che fu il principale motivo dell’eliminazione ad opera di Shaq e Penny.
        La soluzione che trovarono l’anno successiva fu un rischio, ma a conti fatti si può dire che pagò :)

        • Allora non ho ben capito cosa intendessi in quel passaggio :)

          semplicemente che gli anni ’90 senza Jordan sarebbero stati simili agli ’80 sia nella spartizione dei titoli che dei premi e riconoscimenti individuali, invece cannibalizzati da MJ. di conseguenza la presenza di jordan ha falsato un po’ i valori e il giudizio su alcuni giocatori.
          un esempio banale: senza jordan, malone avrebbe vinto tre MVP consecutivi (97, 98, 99, unico nella storia assieme a bird fra i non-centri). senza jordan, avrebbe vinto 8 titoli di capocannoniere, superando chamberlain. senza jordan avrebbe vinto due titoli. quindi oggi avremmo un giocatore da 2 anelli, secondo posto fra i migliori realizzatori di sempre dopo kareem, 8 titoli di miglior realizzatore (primo di sempre), 3 mvp consecutivi (unico assieme a bird, russell e chamberlain). un po’ diverso da quello che in realtà è stato se guardiamo la carriera di malone, no?
          con ciò, non ho detto che malone ad esempio era migliore di magic o bird o che messo negli anni ’80 avrebbe vinto di più. ho semplicemente detto quello che ho scritto. che negli anni ’90 non è mancato realmente un avversario credibile (malone lo era alla grande, barkley idem, per non parlare di olajuwon), ma sia stato proprio Jordan a far saltare completamente il banco, a porsi in una posizione tale di forza da distruggere ogni forma di concorrenza.

          Per il resto concordo sul fatto che la squadra nel 1994 era, sulla carta, piú forte dell’anno precedente, ma ritorniamo a fulcro del discorso, ovvero la tenuta a quei livelli (tra 1992 e 1993 non ci sono sostanziali differenze, eppure il rendimento ne risentí).

          vero. rimane che senza MJ siano arrivati a un passo dalle finali di conference da giocare contro un avversario altamente abbrodabile. con MJ è difficile pensare avrebbero potuto far peggio :-D

          • Ora è più chiaro, ma rimango comunque in parziale disaccordo ;)

            P.S.: Malone avrebbe vinto “solo” cinque classifiche dei marcatori (otto vote è stato colui che ha realizzato piú punti).

  8. Si possono dire tante cose, e molte con un fondo di verità. Del resto i Bulls hanno vinto ma solo quando Detroit è declinata, che ha vinto ma solo quando i Lakers sono calati, che hanno vinto solo quando Bird non era più Bird fiaccato dai suddetti Pistons, e tutte hanno goduto del fatto che non c’erano più i Sixers dell’83 perchè altrimenti… si va avanti in eterno col giochino.

    In tutto ciò, Jordan era Jordan. Lo vedevi e faceva delle cose che non faceva nessuno. Come Pelè, come Federer, come Alì. Uno che fa un altro sport rispetto agli altri.

    Sulla completezza tecnica poi non si comincia neanche. Ball handling supremo quando in realtà le guardie portavano molto poco la palla, arresto e tiro mortale, fadeaway tra i migliori del gioco, creatività e ambidestrismo in entrata unite a doti atletiche allucinanti, difensore e passatore ineguagliato tra i grandi scorer.

    E quando ha iniziato a vincere, non ha più smesso, non c’è stato declino che lo abbia fatto scendere a livello dei comuni mortali.

    Insomma, da qualsiasi parte la si prenda, il numero uno.

  9. Ciao Goat volevo dirti grazie per la rubrica che mi ha appassionato in questi anni (non so dire quanti). Gli articoli sono fantastici, su certe scelte non mi trovo d’accordo ma la cosa è relativa. Non perdo però occasione per confrontarmi con te anche in questa sede. Concordo con l’articolo eccetto in un punto. Gli avversari di jordan, e questa classifica sembra confermarlo, erano più scarsi del decennio prima e del decennio successivo. Poco importa che negli 80 non avesse vinto, la squadra obiettivamente non era forte abbastanza. Se nei 90, al suo top, avesse incontrato un bird un magic un moses malone al loro top, i lakers del 3-peet, avrebbe continuato a fare grandi cose, avrebbe vinto qualche titolo.. ma i 6 successi sarebbero stati un chimaera. Non ha mai incontrato guardie del suo livello che ne avrebbero limitato (e sottolineo limitato) le sue prestazioni. Ne sarebbe uscito vincente dal confronto individuale ma avrebbe potuto perdere quello di squadra. Io credo che cmq,su tutto il discorso pesa il concetto.. il miglior giocatore della storia per acclamazione..

  10. i raffronti tecnico-tattici nei vari decenni contano fino ad un certo punto,
    magic giocatore fantastico e ineguagliabile nelle sue gesta ma ricordiamoci che al suo pri,o anno c’era Jabbar
    bird il miglior bianco nella storia del gioco (senza essere razzista ma è un dato di fatto) anche se a fine carriera ha avuto pistol pete e dave cowens
    doc j semplicemente il giocatore amato indistintamente da tifosi e avversari in ugual misura ha trovato in nba caldwel jones al suo meglio e george mcginnis non proprio i primi arrivati oltre a doc dunk e doug collins
    bill russel lord of rings difensore superbo trovò dà subito bill sharman e bob cousy per non parlare di tom heinsohn
    wilt chamberlaine il giocatore iù dominante della lega trovò paul arizin certo non il migliore ma comunque è nei migliori 50 giocatori della nba
    duncan aveva robinson e sean elliot
    olajuwon aveva ralph sampson
    karl malone trovò stockton adrian dantley e mark eaton
    barkley aveva A toney e cheeks e moses malone e doc j
    sarebbe troppo arduo all 1 di notte dilungarmi su quanti giocatori abbiano trovato già un terreno fertile per vincere o quantomeno provare a vincere un titolo alcuni ci riusciranno subito altri vinceranno inseguito magari non con lo stesso quintetto ma avendo già un ‘impronta ben decisa
    è voro jordan avrà anche vinto solo dopo la caduta degli dei ma ricordiamoci che con lui c’erano corzine e quintin daley e un c jones a mezzo servizio voglio dire che mj ha dovuto aspettare fino all 87 88 per avere dei compagni anche solo minimamente sufficienti per poter provare a vincere una serie di play off mentre i sopracitati avevano giocatori di esperienza che magari avevano anche vinto in passato

    possiamo parlarn fino alla fine dei tempi ma jordan è semplicemente il prototipo del miglior giocatore ideale cit glen rice
    e poi potremo stare ore a parlare di aneddoti di partite di allenamenti di gare in nazionale dove lui semplicemente troneggiava su tutti gli altri

    non sono daccordo che è il migliore di tutti solo per acclamazione lui ha unito un talento indiscusso ad una ferocia agonistica annichilente arrricchendoli con difesa vera difesa e con una ricerca incondizionata alla perfezione in ogni singolo movimento ed aspetto del gioco

    io sono arrivato in tempo a vederlo giocare nel 98 cercando un cartone finii per innamorarmi del gioco e nonostante in seguito abbia visto e letto e articoli e libri su tanti altri campioni anche su questo network non c’è nè per nessuno
    chamberlaine non aveva la stessa ferocia agonistica
    bird e magic non avevano la stessa lucidità e forza mentale per restare in cima (nonostante gli infortuni)
    olajuwon e doc j nonostante abbiano avuto grandi squadre non si sono neanche avvicinati alle sue vittorie e alla sua grandezza
    karl malone pur avendo con stockton una grande empatia non sono mai riusciti a scalare la montagna e non solo per la sfortuna o per gli infortuni
    ecc ecc ecc…………………….

    forse l’unico che si avvicini davvero alla sua grandezza è stato bill russell non solo per i trofei individuali o di squadra ma per come guidava e spronava i compagni

    ma come disse mj
    Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto

  11. Volevo fare una considerazione/provocazione da bar: se il micione da Akron avesse avuto la malattia di competitività (cit.Malone) e la grinta che aveva the orginal #23, potrebbe essere lui al Top degli All Time?

    Poi però ho anche pensato ad un altro giocatore che più di tutti, con le caratteristiche di MJ, avrebbe innalzato il suo valore nella storia del gioco: Wilt Chamberlain!
    Con la grinta e la competitività di Jordan non se ne parlerebbe neanche tra un secolo per il più grande di tutti i tempi!

    Scusate le futili considerazioni da bar…

  12. Bellissimo articolo…difficile trovare parole originali per raccontare Jordan. Goat non cade nelle solite banalitá, e ci mette davanti la possibilitá (senza scadere nella provocazione) che se togliamo il plebiscito popolare la posizione numero 1 ci sta ovviamente, ma non è scontata. E forse, opinione mia ma potrebbe essere solo un caso, dedicando ad un altro cestista un articolo in due puntate il vero vincitore morale per Goat lo sappiamo ;-)

  13. Un accento lo vorrei mettere sulla ferrea forza di volontà, o meglio determinazione. Tutti i giocatori vogliono passare alla storia per aver risolto partite in modo inaspettato e molti campioni ci sono anche riusciti, ma nessuno come Jordan. Nelle finali contro i Sonics, Karl impose ai suoi il raddoppio costante del fenomeno, ma lui riuscì sempre a trovare i suoi tiri o a distribuire i suoi assist. Tutti si aspettavano le sue mosse decisive, anche quando non il tiro finale, un assist, una rubata, una stoppata, ma nessuno poteva evitare che lui facesse la mossa giusta. Una ferrea volontà, unita ad un controllo sui compagni e una vera soggezione imposta sugli avversari, impediva che un destino già scritto e largamente atteso deviasse dai binari in cui era avviato. E’ questa la vera forza di Jordan, il vero dominio. Senza i muscoli di O’Neal si esercitava con la mente. Se leggete il bel libro sul Dream Team, coglierete questo aspetto del carattere di Jordan nel rapporto con i compagni.

  14. ..io punto sempre il mio penny su Bill Russell.. migliore per diversi aspetti a MJ, come giocatore di squadra, come difensore, mentalita’, competivita’ (se non migliore pari) honors e argenteria sia in NBA che prima e altro.. pero’ sono appunto punti di vista.

    ottimo articolo comunque

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