Se c’è una “storia Disney” nello sport mondiale di oggi possiamo tranquillamente bussare a casa Antetokounmpo. Riguarda la famiglia intera, non solo Giannis che ne è ovviamente il membro più famoso e celebrato.

Difficilmente la leggendaria casa di produzione si lascia scappare storie di grande impatto emotivo. E’ un marchio storico che ha colorato le nostre infanzie, con grandi classici come Alice nel paese delle meraviglie, La bella e la bestia e Robin Hood, il migliore nel suo campo.

Grandi storie per grandi emozioni. Gli Antetokounmpo entrano a buon diritto nel loro catalogo con Rise, la narrazione di una scalata improbabile e dei buoni sentimenti di una famiglia unita.

Non ci sarebbe tanto da dire sulla qualità del film. Il rischio altissimo alla vigilia di una semplice storia strappalacrime è stato scongiurato. Il risultato finale è un buon prodotto, ben visto dalla critica, con buoni attori.

Il suo pregio è proprio quello di aver evitato gli scivoloni sentimentalistici e l’effetto fin troppo facile di una tenerezza a buon mercato. Il mio giudizio è dunque positivo ma conta poco, è solo un altro pretesto per raccontarci di nuovo una storia incredibile.

I genitori che fuggono dalla Nigeria delle condizioni misere senza futuro. La fatica di integrarsi in Europa. Le diffidenze e spesso l’ostilità dei turchi prima e dei greci poi.

Due genitori che si supportano a vicenda nei momenti di difficoltà. Giannis e Thanasis bambini che vendono cianfrusaglie ai piedi del Partenone. Giannis e Thanasis sul campetto da basket per la prima volta.

Ecco. E’ qui che cambia tutto. Il film e la loro vita. La scena cult non deve essere poi tanto romanzata rispetto a come sono andate realmente le cose quando i due erano adolescenti.

Nel campetto sono gli unici ragazzi neri e letteralmente non hanno la minima idea di come si giochi con questa misteriosa palla a spicchi. Il loro orizzonte di giochi è il calcio, che va da sé è anche più intuitivo.

Il film si vede essenzialmente per questi istanti perché lo sforzo di cristallizzare quel momento in cui cambia tutto è la natura stessa del film. Perchè noi possiamo rivedere oggi, come Shakespeare a teatro immortalando i grandi drammi storici, quel preciso attimo che ha rivoluzionato la storia.

Quell’attimo che probabilmente ha dentro di sé ognuno di noi, a ben scavare nel passato, magari l’incontro con colei che diventerà nostra moglie o colui il nostro marito o il colloquio decisivo che ci ha dato il lavoro che ci ha permesso una stabilità economica.

Ecco, quell’attimo per i nostri ragazzi è proprio quando prendono in mano per la prima volta una palla da basket. E quindi ? Cosa si fa con questa palla?

Giannis sembra il più impacciato ma azione dopo azione questo giochetto ai due comincia a piacere. Il resto è una “rolling stone” che scivola via fino al primo contratto, fino agli Stati Uniti e all’NBA e fino ovviamente al titolo di MVP di Giannis, già bissato, all’anello dei due con i Bucks e di Kostas con i Lakers.

Il film è nulla più di questo. Quando finisce ognuno di noi si chiede legittimamente: “Ma come ha fatto quel ragazzino mingherlino che faceva fatica a fare due palleggi a diventare il giocatore più forte al mondo ?”.

 

La tag line della Disney è questa ma per una volta combacia perfettamente con la realtà. Il messaggio è forte, anche con carattere moralistico come in tutte le sue produzioni.

Del film, come detto, non ci sarebbe tanto da dire. Va dato un plauso, oltre ai già citati attori, proprio alla sceneggiatura, per una volta asciutta. Anche le scene di gioco sono ben recitate, realistiche e coinvolgenti.

E’ utile ricordare il contesto in cui tutto ciò è avvenuto ed è quello che mi preme di più. La Grecia in cui crescono i giovani Antetokounmpo non è un paese facile.

Potremmo dire, scherzando un po’ cinicamente, che i genitori dei nostri piccoli eroi non potevano scegliere un paese peggiore in tutta Europa in cui far crescere i propri figli. Farebbe anche un po’ ridere, ad ogni modo è stato un lieto fine.

Non scappano dalla guerra ma dalla miseria economica, per inciso, sarà proprio questo come si vede bene nel film uno dei motivi principali delle difficoltà ad ottenere uno status legale stabile.

La Grecia in cui si ritrova questa famiglia di immigrati dalla Nigeria è il paese meno stabile di tutta l’Unione Europea che scivola anno dopo anno in una profonda crisi economica.

Proprio quando Giannis muove i suoi primi passi da giocatore il paese toccherà il punto più basso fino alla di fatto dichiarazione di fallimento. Un paese in ginocchio, in mano ai prestiti dell’UE e del suo maggiore azionista, la Germania di Angela Merkel.

Di nuovo, un destino beffardo per una famiglia che scappa dalla povertà solo per incontrarne dell’altra e anche peggiore. Il basket allora è stata davvero una salvezza, in tutti i sensi. Non solo da un punto di vista economico. La crisi greca ha spaccato il paese in due ali estreme, alimentando gli opposti estremismi e le loro proteste e violenze.

Da una parte ha portato al potere la sinistra radicale di Tsipras, dall’altra ha visto l’ascesa di movimenti neofascisti come Alba Dorata, col relativo bagaglio d’odio verso gli immigrati.

Nel film si vede bene. “Grecia ai greci” si legge in un cartello di manifestanti. Il sogno di una famiglia di costruirsi una propria dignitosa serenità ha vinto dunque anche il fallimento economico di un paese intero e la cieca violenza del razzismo più becero.

Ecco perché questa storia ha un valore ancor più consistente e non riguarda solo una bella storia di riscatto o di sport. La Disney l’ha raccontata con garbo, senza eccedere mai.

Non me lo sarei mai aspettato, proprio come mai quei ragazzini ellenici avrebbero pensato che un giorno quei loro coetanei neri in quel campetto sarebbero arrivati nella NBA mentre loro, chissà, oggi sono disoccupati, in un paese che in un anno ha sfiorato il 20% del tasso di disoccupazione, quasi il 40% per i giovani.

Per concludere concedetemi due note personali. Sono stato due volte ad Atene. La prima nel 2004, poco prima delle Olimpiadi. C’erano i cantieri ovunque a pochi mesi dai Giochi, mi sembrava pazzesco che fossero così indietro con l’organizzazione.

Ecco, mi piace fantasticare di aver incrociato il piccolo Giannis di 9 anni coi suoi occhiali da sole da quattro soldi che intercettava i turisti tra l’Acropoli e quelle strade che mi sono sempre sembrate troppo sporche e caotiche per meritarsi di essere la cornice della gloria eterna dei monumenti dell’Antica Grecia.

La seconda volta fu nel 2015, Giannis era già a Milwaukee. Presi però l’albergo nel quartiere adiacente a quella Sepolia ormai famosa al mondo come casa Antetokounmpo, il rione da dove tutto nacque.

Scesi dall’albergo e non vidi nessuno in strada che vagamente assomigliasse ad un erede di Pericle. Tutti scuri, tanti veli in testa, tutta gente di recente immigrazione. Anche qui mi piace fantasticare di aver incrociato i suoi genitori, magari solo di passaggio, visto che ormai erano andati da pochi mesi in America.

La fantasia si confonde con la realtà nei film Disney ma in questo caso fa eccezione. E’ tutto così vero ed è tutto così lieto se è vero che il suo nome, tradotto dalla lingua yoruba, significa “Il re è tornato da oltremare”.

Il re, l’oceano che separa la Grecia dall’America, il ritorno con la corona da campione. Non c’è bisogno di nessun’altra spiegazione.

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