Finalmente in quel di New Orleans si sognava una stagione diversa rispetto alle recenti, caratterizzate dal malcontento delle ultime stelle rimaste, Anthony Davis prima e Jrue Holiday poi; le trade hanno permesso a David Griffin di imbastire un roster sì nuovo ma sulla carta altresì compiuto per competere nei vertici della Western Conference, potendo contare e auspicare nella definitiva consacrazione di Brandon Ingram e Zion Williamson, luccicanti superstar futuribili.

Ciliegina sulla torta, l’ingaggio in panchina di un vecchio marpione come Steve Van Gundy, pure lui voglioso di riscatti dopo le debacle nella Motor City, pronto a generare anche in questi lidi il vecchio entusiasmo della Florida di Miami e Orlando, affiancando ai numerosi astri nascenti in procinto di sbocciare un nucleo di esperti naviganti del panorama NBA.

Partendo innanzitutto da questa affermazione, notiamo purtroppo che l’amalgama tecnica fra i vari Ingram, Williamson e Ball è tutto fuorchè vigente con Bledsoe, Adams oppure Redick, e se l’epoca Alvin Gentry scontentava il front office particolarmente per un’anarchia generale a protezione della propria metà campo, vediamo che le pecche di questo start e motivo di una classifica mediocre e già ricca di rimpianti non si discostano così tanto dalle imperfezioni della gestione antecedente!

A New Orleans il nuovo allenatore fa impostare l’azione al rallentatore rispetto alle abitudinarie scorribande del 2019, le transizioni rimangono un sogno nel cassetto e gli schemi si basano sostanzialmente sull’inventiva in isolamento di Ingram e la dominante classe di Zion dentro al pitturato.

L’attualità del basket moderno, fatto di celerità, bombe dall’arco e difesa perimetrale, da queste parti è totalmente carente, così come un ball movement ridotto al minimo, l’aggressività nel recupero palla, a stoppare e generare turnover, sono pigri al pari dei suoi interpreti, che però dal canto loro difettano di precisione nel palleggio, commettendo errori e perdendo il pallone più di 16 volte a partita.

L’assente precisione sui liberi infine, è una spada di Damocle infinita per un team tanto qualitativo e di difficile marcatura, perciò mandato in lunetta in ben 25 occasioni a gara!

L’entusiasmo originale cozza con una realtà oggi più amara, che vede i Pelicans respirare a stento in una Western Conference probabilmente più debole al vertice che in passato, ma ricca di team secondari a nostro avviso però più “profondi” di Nola per mentalità e cattiveria agonistica.

Infatti, sebbene Golden State sia in riavvio, i Rockets tentino di ripartire dopo gli shockanti movimenti di mercato, Memphis abbia all’anagrafe troppa inesperienza e i Blazers presentino spesso una difesa distratta, tutti quanti sembrano possedere al loro interno una leadership che qui purtroppo nessuno è in grado di offrire.

Escludendo poi dalla lista le attardate Nuggets e Mavericks, comunque fuori portata di New Orleans, non sarebbe male inoltre paragonare il lavoro di Van Gundy a quello di Popovich, per far capire come si possano ottenere discreti risultati pur senza possedere roster iper talentuosi, una prima scelta generazionale e un papabile franchise player appena rinnovato per 5 anni a 160 milioni.

C’è un abisso fra Ingram e il resto dei portatori di palla in efficienza offensiva, costringendo perciò l’ex Lakers a forzare conclusioni improponibili, dato che l’attuale insicurezza nel jumper di Williamson ne concentra la marcatura dentro l’area e un asfittico game plan da fine match non permette sbocchi di manovra all’ala da Duke.

L’inaffidabilità al tiro di Ball, il drammatico calo di Redick in uscita dai blocchi e la progressione di Hart ferma al palo fanno poi il resto. Per di più Bledsoe ha già dimostrato in tempi non sospetti di non possedere l’aurea da competitor!

I due gioiellini di Van Gundy d’altronde fanno il loro a livello statistico.

Ingram è perentorio con quasi 24 punti e 5 assist a partita e un pregevole al 60 e 55% rispettivamente nelle True Shooting ed Effective Field Goal Percentage, primo fra i ball handler; Zion invece prosegue il suo potere “alternativo” nella nuova NBA, riportando indietro le lancette dell’orologio alle epoche di Tim Duncan, quando le power forward regnavano incontrastate i giochi in post e le mattonelle colorate, performando quasi 18 punti nel pitturato a partita, primato che nell’anno da rookie gli fece sopravanzare Blake Griffin!

I due ragazzi però tutto appaiono tranne che futuri leader caratteriali, sia per il linguaggio del corpo che nelle decisioni tecniche, ma perfetti scorer di supplemento da affiancare al Big One di turno, un nome alla LeBron, Giannis o Doncic per capirci!

Gli addii di Davis, Holiday e persino Cousins in precedenza, lasciano un buco enorme da questo punto di vista, e i più pessimisti rivedono in Ingram e Zion due Julius Randle anziché due MVP; il timore che le blockbuster trade – fallimentari finora negli innesti di Bledsoe, Ball ed Hart e conseguenza di un gruppo solista senza leadership nelle close situation – rimangano fini a se stesse, fa correre i brividi lungo la schiena qui in Louisiana!

Pazzesche alcune sconfitte stagionali, nelle quali la doppia cifra di vantaggio ha rappresentato la prassi, pariteticamente allo sperpero di punti e fatica in conclusione di incontro, responsabili poi di almeno cinque L clamorose; la vittoria prestigiosa ma di misura contro Milwaukee è riuscita solo dopo aver avuto un trentello di margine.

Infatti, oltre ad adagiarsi esclusivamente sull’estro di Ingram e Williamson, ciò che imputiamo al coach è un sostanziale calo nelle rotazioni rispetto al recente passato, che se da un lato frutta iniziali vantaggi consistenti dovuti a un quintetto sicuramente qualitativo (Bledsoe, Ball, Ingram, Williamson, Adams), dall’altro comporta un esaurimento di vigore e concentrazione letale nei finali di partita.

Alle condizioni attuali ci sembra difatti un suicidio per una squadra così in difficoltà negli accoppiamenti difensivi e a colpire dalla lunga distanza non far rifiatare mai Adams e rinunciare all’energia di Jaxson Hayes, altro diamante della casa però un po’ trascurato, e alla verve del nostro Melli, inutilizzato e demotivato.

La panchina di Van Gundy – di fatto limitata a Redick, Hart ed Alexander Walker – è il fanalino di coda della lega con 28.7 punti per partita.

Riabilitare la stagione in corso si può ovviamente, visto il tempo a disposizione, anche se raggiungere i playoff – obiettivo alla portata secondo gli auspici della vigilia – abbiamo notato quanto non sia del tutto scontato.

Instradare da adesso nuove strategie per consentire alla stella Zion di risplendere potrebbe invece già avere senso, mettendo in discussione l’operato di Van Gundy e dando l’assalto sul mercato a giocatori mentalmente vincenti che accompagnino la crescita dei giovani Pelicans, approfittando magari dell’uscita di Redick da un contratto pesante e imbastendo ulteriori trade (Hart e Ball in Qualifying offer 2021/22 e Bledsoe su tutti) per chi non sta esternando un valore consono ai vertici NBA.

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