Negli ultimi anni, gli staff di esperti deputati allo sviluppo atletico dei nostri giocatori preferiti hanno fatto passi da gigante, grazie ad un’accresciuta mole di studi, e supportati da strumenti tecnologici d’assoluta avanguardia, che consentono di mappare il corpo e i bioritmi dei giocatori, nel tentativo di prevenire il più possibile l’incorrere d’infortuni.
Esistono metodologie di allenamento e terapia votate a correggere posture scorrette, e apparecchiature che leggono il corpo in 3D, mappandolo (come ci raccontava tempo addietro l’allora trainer dei Lakers, Gary Vitti), e che aiutano ad identificare, nella struttura dei giocatori, eventuali debolezze foriere d’infortuni, oltre a monitorarne la stanchezza, che incide notevolmente tra i fattori di rischio.
Nondimeno, alcuni giocatori sono intrinsecamente più fragili di altri, o più predisposti a determinate lesioni, con le quali si può convivere (il famoso play on) solo fino ad un certo punto. Altri sportivi invece, subiscono infortuni a catena, conseguenza diretta dello scorretto allineamento del corpo, che causa compensazione; un esempio classico è quello della caviglia slogata, che se curata male, può condurre all’infiammazione del ginocchio e a una miriade di altre complicazioni, apparentemente scollegate.
Purtroppo, sembra che la china intrapresa da due delle prime tre scelte del draft ’14 sia proprio questa: parliamo ovviamente di Jabari Parker, interprete di una splendida stagione, e di Joel Embiid, il centrone camerunense che, dopo due anni ai box, aveva finalmente potuto iniziare a calcare il parquet del Wells Fargo Center, incantando i quaccheri di Philly col suo talento cristallino, unito ad un irresistibile carisma.
Gli anni di Sam Hinkie non sono stati facili per Philadelphia, che pure, ha seguito con entusiasmo il “processo” sabermetrico votato a perdere per accumulare scelte future; le frustrazioni legate agli infortuni e alle chiamate al draft che facevano scopa (Jo, Nerlens Noel e Jahlil Okafor, e in fondo, anche Saric e Ben Simmons) hanno trovato un senso nell’esplosione dell’ex pallavolista nato a Yaoundé.
Joel Embiid è un portento atletico e tecnico, capace di far seguire i fatti alle parole, trasformandosi nell’incarnazione di un metodo curiosamente definito scientifico (con tanto di studi e analytics) che però a noi scettici continua a ricordate la pesca a strascico (peraltro abbondantemente sotto accusa nei mari di mezzo mondo).
A differenza di tanti ragazzi sbarcati in NBA tra mille fanfare che ne celebravano il “potenziale”, Embiid è uno vero, uno di quei rari giocatori, cioè, che cambiano la cultura di una franchigia, con tutto il rispetto per i Sergio Rodriguez e i Gerald Henderson, due onesti veterani chiamati da Colangelo per aiutare il povero coach Brett Brown ad imbastire almeno una parvenza di attacco-NBA.
Dopo due stagioni di dubbi e perplessità, legate ai ricorrenti infortuni al piede destro (che lo fecero scendere fino al terzo gradino del podio del draft ’14, e che ne hanno posticipato l’esordio fino all’ottobre del 2016), JoJo ha dimostrato di essere quanto preconizzato nel suo unico anno coi Jayhawks di coach Bill Self, quando molti astanti, sintonizzatisi sulle frequenze di Kansas per assistere all’epifania di Andrew Wiggins, si ritrovavano viceversa rapiti dalle movenze feline e dagli istinti grezzi e abbacinanti di questo ragazzo venuto dal continente nero.
Attenzione però, Africa non è sempre sinonimo di miseria; Joel viene da una famiglia borghese discretamente agiata, un ragazzo cresciuto pensando con la propria testa, che Hinkie ha faticato molto a gestire, tanto da generare enorme preoccupazione nell’ambiente societario e contribuendo alla cacciata dell’ex GM dei 76ers, che l’aveva scelto senza nemmeno averci mai parlato, contravvenendo agli insegnamenti del suo mentore in quel di Houston, Daryl Morey.
Complice l’atteggiamento insubordinato di JoJo, Philadelphia iniziò a temere d’aver pescato un bust bello e buono, degno erede di Michael Olowokandi, con il quale, effettivamente, le similitudini non mancano: il centrone nigeriano prima scelta del ‘98 era a sua volta un ragazzo istruito e intelligente, approdato in NBA sulla scorta del (formidabile) potenziale, pur avendo alle spalle solo pochi anni di pratica cestistica.
Ripensando alla carriera di Olowokandi, correva un brivido lungo la schiena di chi, da anni, si stava sobbarcando stagioni tragiche: “davvero torneremo grandi, con un tizio così stupido da re-infortunarsi perché non si cura, e che anziché cercare di dimagrire, twitta fesserie e si rimpinza di patatine e di Shirley Temple (un cocktail analcolico che prende il nome dalla celebre attrice bambina)? “.
Poco o nulla si sapeva della morte del fratellino di Embiid, Arthur (ucciso da un camion, nel cortile della sua scuola: Joel non lo vedeva dal 2011, quand’aveva lasciato Yaoundé per l’America), e tantomeno dell’enorme passione che Embiid ha per il nostro sport –un fatto, quest’ultimo, sufficiente a collocarlo su un piano totalmente diverso rispetto ad un Olowokandi, il cui interesse per i canestri era, diciamo così, estremamente limitato.
JoJo è stato un giocatore di pallavolo fino alle NBA Finals del 2010, quando fu convertito alla palla a spicchi dalla visione di un Kobe Bryant intento nella conquista del suo quinto anello. Luc Richard Mbah-a-Moute, oggi in forza ai Clippers, si accorse di Jo mentre teneva un camp in terra africana, e lo caldeggiò presso Montverde Academy, in Florida, dove lui stesso aveva giocato e studiato.
Un anno a Kansas è stato sufficiente per trasformare Joel Embiid in un “nome” popolare e ambito, che quest’anno stava finalmente trasformando il potenziale in concretezza cestistica, fatta di difesa, rimbalzi, grande presenza e doti offensive di rara completezza, che denunciano la dedizione di JoJo per questo sport, una dedizione che l’aveva reso irascibile, costretto com’era ad assistere da spettatore alle “prestazioni” di una formazione sinceramente inguardabile, come la Philly del biennio 2014-16.
Al contrario insomma dei classici big-men che giocano perché sono alti, senza pallone Embiid si sentiva un leone in gabbia, e, tornato a poter calcare il parquet con il benestare dei medici, ha ritrovato, nelle parole di coach Brown, la sua valvola di sfogo. Purtroppo per i Sixiers e per l’NBA, però, questa favola è durata poco.
Pur limitato dalle restrizioni imposte al suo minutaggio, centellinato e dosato come il più prezioso dei vini, Embiid si è nuovamente infortunato, questa volta al menisco laterale (stesso infortunio patito due anni fa da Russell Westbrook). La sua stagione da rookie è durata appena 31 partite, con 20.2 punti ad allacciata, 7.8 rimbalzi, 2.1 assist in 25.4 minuti d’impiego, con uno UsgRt del 36%.
Da un lato, quest’infortunio consente ai Sixiers di valutare meglio Jahlil Okafor, e di perdere partite, ottenendo così l’ennesima buona posizione in sede di draft, ma il pubblico di Phila è stanco di sconfitte, e, ora che ha trovato in Embiid un eroe nel quale identificarsi, avrebbe volentieri scambiato l’ennesima scelta in lottery con qualche emozione vera, sudata sul campo.
Embiid tornerà all’inizio della prossima stagione, e, a voler essere ottimisti, potremmo sottolineare la diversa natura di quest’infortunio rispetto alle fratture occorse durante le sue prime due stagioni. Insomma, non parliamo di una recidiva, ma di un problema completamente diverso, che nondimeno rimarca una certa predisposizione agli infortuni.
In fondo però, anche l’inizio di carriera di Steph Curry è stato martoriato dai problemi alle caviglie, ma questo non gli ha certo impedito di trasformarsi in un due volte MVP! Embiid è un giocatore della medesima pasta, e cioè non solo un All-Star, ma uno di quei rari casi in cui doti tecniche e carisma si sommano in un giocatore capace di esercitare forza di gravità e di cambiare la geografia delle partite e il destino di una franchigia.
Non serve insomma essere tifosi dei 76ers per augurare a Joel Embiid di riprendersi e tornare a calcare il parquet quanto prima, perché l’NBA ha bisogno di un ambasciatore come lui, una stella nel senso più pieno del termine, e un uomo di spettacolo come non se ne vedevano dai tempi dell’immortale Shaquille O’Neal.
La situazione è assai più preoccupante nel caso di Jabari Parker, l’altro grande giocatore uscito dal draft del ’14. Il figlio di Sonny Parker (scelto a sua volta nel draft del ’76) si è infortunato nuovamente al legamento crociato del ginocchio sinistro, lo stesso che fece crack nel corso della sua campagna da rookie, quando, dopo 25 partite, dovette sottoporsi ai ferri del chirurgo.
Sentendo parlare il leggendario trainer di Chicago Tim Grover (che ha allenato anche Jabari) a proposito dell’eccessiva usura cui sono esposti i ragazzi che partecipano ai tornei AAU, è inevitabile pensare alla carriera di Parker, pompatissimo prospetto liceale (tanto da guadagnarsi una copertina di Sports Illustrated) che sembra avere un grado di usura molto maggiore di quello suggerito dalla giovane età.
Il primo infortunio serio occorso all’ala di Chicago, occorso durante i Campionati del Mondo under 17, non gli impedì di stringere i denti e continuare a scendere in campo con la sua squadra, conquistando la medaglia d’oro in terra lituana. In fondo era solo una frattura ad un piede, e Jabari Parker, pur fuori forma, fu reclutato da Mike Krzyzewski a Duke, affrontando così senza particolari problemi la sua unica stagione NCAA.
I postumi di quell’infortunio però, contribuirono ugualmente a scalzare Jabari dalla cima dei ranking nazionali, spodestato dall’ala canadese Andrew Wiggins, emerso prepotentemente sulla scorta di un atletismo debordante e di quell’indefinibile e periglioso concetto riassunto sotto l’etichetta di upside.
In realtà non ci sono mai stati dubbi su chi dei due sia il cestista migliore, oggi come allora: Wiggins è un fenomeno atletico, ma Parker vanta una superiore comprensione del gioco, e, come dice suo padre, ha un modo di muoversi che inganna: Jabari è solo un buon atleta secondo gli standard NBA, ma ha grande proprietà tecnica, e, proprio come James Harden, sembra meno veloce, potente e verticale di quanto non sia in realtà.
Torna in mente quanto si diceva di Jerry Rice, leggendario ricevitore dei San Francisco 49ers, sottovalutato da tutti gli scout dei migliori college d’America, e poi della NFL. Rice non sembrava velocissimo, ma riusciva lo stesso a battere ogni volta il suo diretto avversario, perché all’atletismo univa una suprema intelligenza tattica. Cosa conta di più, battere i record di velocità in allenamento, o battere sul tempo i cornerback quando la palla scotta?
Studente del gioco e della sua storia, Parker ha indicato in Oscar Robertson il suo giocatore preferito (forse esagerando un po’, visto che The Big O appese le scarpette al chiodo vent’anni prima che Jabari nascesse) con il quale condivide la militanza in maglia Bucks, una franchigia giovane, rivitalizzata da Giannis Antetokounmpo e da coach Jason Kidd, che su questo duo di ali talentuose e polivalenti sta costruendo il futuro cestistico di Milwaukee.
Parker non è il classico giocatore uscito dal South Side di Chicago; non ha alle spalle una storia difficile, anzi, è figlio di un ex giocatore molto attivo nella comunità, e di un’atleta, la signora Lola, assai attenta alla crescita spirituale del figlio, da sempre mormone praticante (è l’unico grande prospetto che, a memoria, abbia parlato con entusiasmo della possibilità d’essere scelto dagli Utah Jazz!).
Lui e suo fratello Christian hanno imparato a giocare tra il cortile della scuola (la leggendaria Simeon High) e i campetti del centro, lontani dalle zone disastrate della città, quelle che hanno suggerito a Spike Lee il tetro soprannome di Chi-raq (nulla a che vedere con l’ex Presidente francese, ovviamente: è semplicemente la crasi tra Chicago e Iraq, dove, secondo una statistica, ci sono meno morti ammazzati che nel South Side).
Jabari Parker non ha mai basato il suo gioco sulle doti fisiche, e proprio per questo, le sue chances di riprendersi da un infortunio al crociato (o ACL, secondo l’acronimo anglosassone) sono migliori rispetto a quelle di chi vive di sola prepotenza atletica, tuttavia questo secondo inciampo rende inevitabili i quesiti sulle sue prospettive future.
Bucks broadcast compares Jabari Parker's 2014 left ACL tear w/ his apparent left knee injury vs. Heat pic.twitter.com/3NK6lndXXi
— Ben Golliver (@BenGolliver) February 9, 2017
All’ombra del più appariscente Giannis, Parker stava disputando una splendida stagione, con tanto di 20.1 punti di media, il 49% dal campo (percentuale sotto la quale non è mai sceso in carriera), il 14.1% di canestri assistiti per i compagni, e un UsgRt da vera superstar (26.4%) pur senza strafare, seguendo lo stile understated che tanto piace a papà Sonny.
Per giunta, Jabari aveva seguito un iter di riabilitazione fisica lungo e puntiglioso, studiato con la specialista Suki Hobson, che nel frattempo è entrata nello staff dei Milwaukee Bucks come trainer. Jabari giocava senza restrizioni ai minuti già da un anno, ed era completamente recuperato, forte e fisicamente reattivo come mai, eppure, è arrivato il secondo stop, che lo terrà fermo per un anno intero, e ne metterà a dura prova la resilienza mentale, prima ancora che la tenuta fisica.
Intanto coach Kidd si consola con il ritorno di Khris Middleton, ma per quanto valida (e migliore nel tiro da tre), l’ala da Texas A&M non può supplire al “peso” tecnico di Parker. Questo infortunio riporta i Bucks indietro di due anni, e Jabari, che in estate sarebbe eleggibile per un prolungamento contrattuale (esattamente come Zach LaVine, che ha subito lo stesso infortunio), dovrà probabilmente attendere la free-agency del 2018 per rifirmare come restricted free agent, ma a quali cifre?
I tifosi del Bradley Center hanno ancora negli occhi il doppio infortunio al crociato che, di fatto, mise fine alla carriera di Michael Redd, ma in quel caso parliamo di un giocatore già oltre i trenta. Come reagirà il corpo di Jabari Parker, e quali sono i rischi di una ricaduta ulteriore? La storia non ci può aiutare, perché l’unico altro giocatore ad aver sofferto due volte di quest’infortunio, è stato Josh Howard, e anche lui aveva raggiunto la boa delle trenta candeline, il che rende superfluo il paragone con il ventiduenne Parker.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
La shirley che dici è maclaine non tample
Intendo la sorella di warren beatty
E’ vero, ho fatto confusione di “Shirley”!