Era dai tempi di Marques Johnson che David Falk, uno dei più influenti agenti del panorama NBA, non portava un suo assistito di rilievo a Milwaukee.
Erano i Settanta, nella lega ancora tutti i tiri dal campo valevano due punti e Falk era un giovane di belle speranze che si faceva strada all’interno dello studio legale di Donald Dell, che successivamente sarebbe diventato ProServ.
Seppure fosse decisamente promettente e ambizioso non immaginava affatto che un giorno, molto presto, avrebbe incassato la gratitudine di Sua Maestà Michael Jordan per l’ultimo remunerativo accordo con la Nike, l’ennesima pubblicità dei cereali Weathies o la milionaria partecipazione al film Space Jam.
È vero che alla Mecca (soprannome della Milwaukee Panther Arena) nel ’71 si era assaporato il gradevole gusto del successo, grazie soprattutto alla concessione di due personaggi del calibro di Lew Alcindor e Oscar Robertson.
È altrettanto sacrosanto che la squadra per tutti gli Ottanta, in cui fu perenne abbonata a medio-lunghi viaggi ben all’interno dei playoff, era considerata una delle più divertenti della lega con Sidney Moncrief in campo e Don Nelson sul pino. Ma non si può certo dire che i tifosi Bucks più giovani siano abituati ad avere in città le stelle della pallacanestro.
Nel Wisconsin hanno avuto i loro Happy Days, con Fonzie, Ralph Malph, la famiglia Cunningham, ma dopo si sono dovuti sorbire i vari Todd Day, Lee Mayberry, Tim Thomas e Yi Jianlian, anche se piacevolmente inframezzati da autentici mozart dei canestri come Ray Allen, The Big Dog e Sam “I am” Cassell.
Con una premessa del genere ci si aspetterebbe di sentir parlare in questo articolo dell’approdo estivo a Mil-town di un LeBron James o al massimo di Kevin Durant. Acqua, Acquissima. Non potremmo essere più distanti dalla verità.
In città, durante la offseason, è arrivato “solo” il big man Greg Monroe, con le sue 0 vittorie nei playoff – anche perché collezionate in 0 partecipazioni. Però Monroe era uno dei free agent più ambiti dell’estate e questo è sufficiente perché un ambiente già abbondantemente elettrizzato, subisca un’ulteriore scossettina.
Se prendiamo come riferimento l’ultimo quadriennio solo l’ex-Hoyas e Boogie Cousins hanno racimolato come minimo 1000 punti e 600 rimbalzi per stagione. D’accordo che DMC l’abbia fatto e continui a farlo ogni sera con molta più classe al cospetto del suo imprevedibile e, a volte, incomprensibile datore di lavoro indiano, ma Greg ha 25 anni e per unirsi all’ambizioso progetto dei Bucks ha detto picche ai Lakers e a un certo Phil Jackson (oltre ad aver declinato cortesemente l’invito piuttosto azzardato per la verità dei Blazers – o di quel che è rimasto di loro).
Monroe non ha esitato neppure un momento ad abbandonare il Michigan per raggiungere i nuovi giovanissimi compagni: «Hanno qualcosa di cui voglio assolutamente far parte.» ha detto sollevato. Non deve essergli sfuggita infatti la sorprendente cavalcata che ha portato The Greek Freak e compagni ad impegnare ben oltre il previsto quella che per lungo tempo è stata considerata una contender fatta e finita, ovvero la più equipaggiata compagine dei Bulls.
Probabilmente, di quella serie di primo turno playoff, non si è perso neppure un istante, seduto comodamente davanti alla TV sul divano di casa sua in Louisiana già da qualche giorno. Ed allora, avrà sicuramente apprezzato la montagna di palle perse (26) a cui Milwaukee ha costretto Chicago in gara 4 o il 10-41 dal campo a cui ha condannato il temibilissimo backcourt avversario Rose-Butler nella quinta sfida.
Per lunghi tratti agli occhi di D-Rose il rebus che coach Kidd presentava continuamente sotto forma di ripetuti blitz sul pick & roll sarà sembrato irrisolvibile. Impossibile rompere una difesa così aggressiva in uscita dal blocco con dei semplici split. E gli attacchi dei tori spesso finivano prima ancora di cominciare.
Vedendo una qualsiasi delle esibizioni dei Bucks della la scorsa stagione, era immediatamente riconoscibile la spiccata identità difensiva che Kidd e il suo staff sono stati capaci di costruire. Milwaukee è finita seconda in tutta la NBA in punti concessi per 100 possessi con 99,3. Meglio hanno fatto solo i Warriors.
D’altra parte il materiale umano a disposizione di Jasone era e rimane assolutamente invidiabile. Difficilmente è possibile vedere sullo stesso parquet, per giunta impegnati a difendere lo stesso canestro, tutto quell’atletismo e quell’apertura di braccia. Middleton, Antetokounmpo, Carter-Williams (non che il predecessore Knight fosse da meno, anzi), Parker, Henson, Sanders (fintanto che c’è stato) ma anche Dudley, Pachulia, Ilyasova e Bayless costituivano un nucleo in grado di mandare in sollucchero ogni allenatore con il capriccio della difesa. Persino un guappo come O.J. Mayo è riuscito a non sfigurare in un contesto del genere.
Scorrendo tale ammirevole lista di atleti, l’eventualità di schierare quintetti equilibrati in cui il meno alto si assesti sui 2 metri diventa più che una semplice opzione e con essa, la possibilità di cambiare praticamente su ogni possesso avversario. I Warriors campioni NBA hanno illustrato piuttosto bene i vantaggi di possedere queste caratteristiche.
Khris Middleton, inserito frettolosamente dai Pistons nel pacchetto Brandon Knight per arrivare a un altro Brandon (Jennings), dopo alcuni mesi di assestamento è sbocciato in tutta la sua tremenda efficacia.
Con un mix invidiabile di capacità di segnare dal perimetro e competenza nell’opporre centimetri e tecnica alle scorrerie avversarie, minaccia di rappresentare un esemplare fra i più autentici di quella merce rara che, nemmeno fosse un alloggio turistico, oltreoceano chiamano 3&D. E i Bucks infatti se lo sono assicurato per i prossimi 5 anni in cambio di 70 milioni di dollari sonanti.
Di Antetokounmpo è stato detto e scritto tutto. È la storia americana per eccellenza, con il successo che finalmente arride a un ragazzo che ne ha passate di tutti i colori. Il giocatore infatti, come saprebbe riconoscere anche il grande Potsie, a caratteristiche tecniche e atletiche probabilmente mai viste affianca l’interesse suscitato da una parabola di vita decisamente fuori dal comune.
Di fronte al greco, è impossibile non rimanere affascinati dalla versatilità del suo gioco (grazie alla quale una volta va a stoppare mentre nell’azione successiva si trova a condurre dal palleggio il pick & roll), dalla quantità enorme di terzi tempi staccati da oltre l’arco dei tre punti e, infine, dal fatto che fino al prossimo 6 dicembre non possa acquistare un irish coffee per superare il freddo inverno del Wisconsin.
Il ragazzo ha ancora 20 anni e un potenziale che si è solo cominciato a intravedere. Si tratta di argilla pura, ancora tutta da modellare, oltre che pregiatissima. Palleggia con la naturalezza di un piccolo, pur partendo almeno 20 centimetri abbondanti più in alto degli altri. È coordinato come Duncan e salta come saltava The Reignman, al secolo Shawn Kemp. Basta riguardarsi gli innumerevoli highlights in cui dopo un aggraziatissimo giro in palleggio schiaccia prepotentemente la bimane sulla testa del difensore per accorgersene.
Non è possibile prevedere cosa realmente diventerà il ragazzo. Al momento dell’arrivo fra i pro, la sua confezione era sprovvista del foglietto delle istruzioni. Di sicuro va maneggiato con cura, vista la lunga serie di atleti prodigio alla Darius Miles finiti nel dimenticatoio ancor prima di partecipare a una partita delle stelle.
Però difende, ha fame – per forza – e quando te lo ritrovi contro nessun layup in contropiede è facile come sembra. Per il momento però non ha ancora abbastanza armi in attacco per essere considerato nel gotha NBA: il tiro da fuori non è al livello di tutto il resto del corredo.
La penuria di soluzioni offensive è stata un po’ la nota dolente della entusiasmante stagione dei Bucks. Soprattutto dopo l’infortunio di Parker e la cessione di Brandon Knight, in alcuni momenti all’interno delle partite segnare un canestro rappresentava una vera e propria impresa.
Dal 19 febbraio – da quando Knight è approdato in Arizona – Milwaukee ha fatto registrare il quarto peggior attacco con 97,5 punti ogni 100 possessi. La caporetto di gara 6 contro Chicago grida ancora vendetta.
Proprio per questo motivo i proprietari Marc Lasry e Wesley Edens, in sella dall’aprile 2014 quando acquistarono i Bucks per 550 milioni di dollari dall’ex-senatore democratico del Wisconsin Herb Kohl, hanno aperto i cordoni della borsa per consentire al GM Hammond di puntare dritto su Greg Monroe.
Addurre pretese di successo, seppure nella sgangherata Eastern Conference, con un reparto lunghi composto da Pachulia, Ilyasova e Henson non era carino. Anche se in molte circostanze hanno venduto cara la pelle e non hanno certo demeritato, non è minimamente pensabile di combattere ad armi pari con i centri avversari potendo contare solo sul gancetto sinistro di Henson e le improvvisate del georgiano. L’ex-Barcellona invece ha portato a termine la solita dignitosissima stagione in ala grande in termini di produzione offensiva.
Appare immediatamente evidente in questo senso l’upgrade costituito da un’acquisizione come quella di Monroe, un ragazzone che all’abilità fronte a canestro, al tiro dal midrange e a una discreta visione di gioco dal gomito abbina con una certa scioltezza escursioni al ferro e presenza in post basso (solo Cousins, Davis, Howard e Drummond hanno fatto meglio dei suoi 4,8 canestri a partita entro i 5 piedi dal canestro).
Dove emergono dei dubbi, è sicuramente nella sua affidabilità nella fase difensiva. È vero che la situazione claustrofobica di Detroit, dove era costretto a dividere quasi letteralmente vitto e alloggio nel pitturato con l’ingombrante Drummond, non era la più consona per permettere al nostro di emergere come rim protector.
Molto spesso le sue scelte contro i pick & roll avversari però sono finite all’interno della categoria “oggetto di discussione”. Questo fatto preoccupa ancor di più se sommato ad un altro: le doti difensive dell’accoppiata Ilyasova-Pachulia (che adesso non ci sono più) erano tutt’altro che sconsiderate.
Come dimostra la classifica (del tutto parziale e probabilmente illegittima visto che si gioca in 5) dei migliori terzetti difensivi della lega per Defensive Rating illustrata qui sotto, la presenza sul parquet di Pachulia, anche con Ilyasova al suo fianco, non è coincisa con i momenti migliori degli attacchi avversari durante la stagione appena conclusa.
In particolare il lavoro in aiuto difensivo del generoso Zaza, oltre che di Henson, è risultato decisamente importante e per molto tempo sottovalutato. Immaginare che nella stagione che verrà l’accoppiata 4-5 che vedremo più spesso in campo potrebbe essere quella costituita da Jabari Parker e dallo stesso Monroe può dare più di un grattacapo a un allenatore accorto come Kidd.
Nonostante l’innegabile salto di qualità in attacco, il mercato dei Bucks con la radicale ristrutturazione della frontline che ha portato in dote, sembra ricalcare in maniera piuttosto fedele la passione per il rischio dei due proprietari, uno amante del poker, l’altro dei cavalli.
La scommessa invece che potrebbe generare discreti e indiscutibili dividendi risponde al nome di Rashad Vaughn, scelto con la 17 in un draft che lo vedeva come il più piccolo in assoluto della nidiata.
Paragonato da qualcuno a J.R. Smith, anche se probabilmente non in grado di raggiungere i picchi del compagno di LeBron nelle esplosioni improvvise di tiro, contribuisce a dare ai Bucks quella pericolosità perimetrale che le partenze di Dudley e Ilyasova avevano definitivamente azzerato.
Il ragazzo ha davvero impressionato in summer league, suscitando l’interesse ed il rispetto degli osservatori. A lui, Copeland e Vasquez, per quanto concerne le novità, spetta il compito di migliorare la pericolosità nelle conclusioni da 3 punti di una squadra che nell’avvicendamento Knight – Carter-Williams in regia non aveva certo visto salire le quotazioni nel tiro pesante.
Se togliamo l’unico over 30 del roster, ossia l’ultimo arrivato Chris Copeland, la banda di Kidd si presenta ai nastri di partenza con un’età media di appena 24 anni. Dire che il futuro si preannuncia piuttosto roseo per la franchigia del Wisconsin non sembra così azzardato.
Per di più, con un Est così mediocre, in cui Cleveland rischia di fare corsa solitaria dall’inizio alla fine, i Bucks possono puntare davvero in alto: un approdo al secondo turno è ampiamente nelle corde della squadra.
Sognare un risultato ancor più prestigioso però non è più vietato a Milwaukee. Anche se Fonzie poi direbbe: “Ehi, io non sono un sognatore, io vengo sognato.”
grande amante del basket, del vino e della scrittura, segue l’NBA dal 1994, quando i suoi occhi furono accecati dal fulgido bagliore emanato dal talento irripetibile di Penny Hardaway. Nutre un’adorazione incondizionata per l’Avv. Federico Buffa e non perde occasione di leggere i pezzi mai banali di Zach Lowe.