Il destro per la nostra piccola discussione, lo offre la trade di Rajon Rondo, da sabato è in forza ai Mavs, che già occhieggiavano il titolo e adesso rappresentano l’ennesima formazione titanica dell’Ovest; la stessa trade ha trasformato i Celtics in un’altra candidata al tanking del derelitto Est.

Il perpetuarsi ormai quindicennale del divario tra le due Conference non conosce tregua; l’anno scorso, le squadre della Western hanno vinto il 64% delle sfide con la Eastern e negli ultimi dieci anni, l’ottava franchigia dell’Ovest vince mediamente sette partite in più rispetto all’ottava piazzata dell’Est.

Dal 2003 a oggi, la nona squadra della Western è arrivata davanti a 2.5 squadre qualificate ai Playoffs della Eastern, che spesso, hanno record perdenti (al momento di scrivere, la nona dell’ovest ha lo stesso record della sesta ad est).

La distanza tra le due Conference è imbarazzante”, disse Jeff Van Gundy un anno fa, ed è davvero difficile dargli torto. Il 2 dicembre, il record era 64-26 in favore dell’ovest, e tolti Wizards (6-1) e Raptors (7-2), alle loro spalle solo gli Hawks hanno un bilancio positivo.

Oltre alle migliori nove, nella Western ci sono anche i Thunder e i Kings, al cui record negativo contribuiscono gli infortuni a Westbrook, Durant e Cousins.

Per giunta, sappiamo che le squadre di una Conference giocano 50 partite con le franchigie della stessa area, e solo 32 con le formazioni della Conference opposta, quindi, basarsi sui soli record non ci consente di capire fino in fondo il divario: lo stesso numero di vittorie può avere due coefficienti di difficoltà molto diversi, ed è un fatto che tutte le contendenti per il titolo siano sulla costa occidentale.

Negli ultimi 16 anni, l’anello di campioni è andato 11 volte alla Western, e solo 5 volte ad Est, tuttavia il caso non è limitato a quando la Eastern propone una finalista inadeguata (i Nets del 2002 e i Cavs del 2007 rappresentarono il turno più facile di tutti i Playoffs di Lakers e Spurs), ma anche quando la Finale vede affrontarsi due contendenti di pari livello.

Se infatti i Playoffs iniziassero ora, le prime tre della Western se la vedrebbero con Clippers, Spurs e Pelicans (in attesa che rientrino i Thunder), mentre ad est, toccherebbero Celtics, Heat e Bucks, e tanti saluti all’ideale sportivo per cui a giocarsela dovrebbero essere le migliori, ad armi pari.

La netta disparità tra i Playoffs di serie A e quelli di Serie B, sancita territorialmente, dovrebbe preoccupare l’NBA, visto che il prodotto offerto non è certamente il migliore disponibile. In teoria, l’interesse economico della Lega dovrebbe coincidere con il massimo della competitività, ma esistono altre considerazioni.

Per prima cosa, il nord-est degli Stati Uniti è la più popolosa area urbana d’America, e quindi, a prescindere dalla qualità di Knicks, Nets, Wizards, 76ers e Celtics, assicura un buon numero di ascolti –sebbene l’NBA dovrebbe ragionare da Campionato globale, e rendersi conto che qualità ed equilibrio sarebbero più appetibili per il resto del mondo-.

In secondo luogo, cambiare il formato dei Playoffs richiede il voto a maggioranza qualificata dei proprietari delle franchigie, ma naturalmente le 15 squadre dell’Est non hanno interesse ad alterare uno status quo consolidato che gli consente, senza troppa fatica, d’aver accesso ad una fetta degli introiti tv per i Playoffs.

Con l’attuale contratto collettivo (fortemente voluto dai proprietari, ricordiamolo), i club sono spinti a costruire con il draft, ma se il criterio per l’accesso ai Playoffs rimarrà strettamente territoriale, alcuni squadroni della Western continueranno a scegliere in lottery, rinforzandosi ulteriormente, mentre ad Est squadre scarse, ma qualificate ai Playoffs, ne rimarranno escluse, condannandosi ad una perpetua mediocrità.

Gli argomenti contro una revisione del tabellone della post-season sono ben noti; secondo alcuni, togliere la divisione Est-Ovest comprometterebbe le rivalità territoriali, coltivate proprio dai ripetuti scontri ai Playoffs. Secondo altri, le distanze sono tali da rendere impraticabile una “griglia” che costringa a viaggi molto lunghi, e in fondo, Conference e Division sono nate proprio per agevolare la logistica, quando le squadre viaggiavano su voli di linea o in pullman.

Privilegiare le rivalità rispetto alla qualità (posto che la distanza geografica non ha impedito a Celtics e Lakers di diventare acerrime avversarie) non ci sembra una grande trovata, e le lunghe percorrenze sono un falso problema, visto che c’è molta meno distanza tra Minneapolis e Milwaukee (Conference diverse), per dirne due, che non tra San Antonio e Portland (stessa Conference), e che New Orleans e Memphis appartengono all’oriente geografico del Paese, ma giocano nella Western.

Al Board of Governors dello scorso ottobre, Robert Sarver, proprietario dei Phoenix Suns, ha parlato apertamente di abolire le Conference, almeno in relazione ai Playoffs.

È un discorso che non si può liquidare come Cicero Pro Domo Sua (anche se in fondo, i Suns sono arrivati noni l’anno scorso, e quest’anno rischiano il bis), ma che anzi, aleggiava già da tempo in modo informale, ed era stato menzionato dal Commissioner Adam Silver.

La discussione si è chiusa con un nulla di fatto che ha coinvolto anche la riforma del meccanismo della lottery, votata 17-13 (mentre per passare avrebbe dovuto raggiungere il quorum di 23 voti a favore). Ovviamente Phila era contraria al cambiamento, ma anche Thunder, Bulls e Wizards hanno votato contro, e questo risultato ha colto tutti di sorpresa, incluso il normalmente ben informato Wojnarowski.

A frenare il cambiamento, pare abbia contribuito la paura che alterando il meccanismo della lottery (si sarebbe spalmato in modo più omogeneo il “numero di palline nell’urna”) avrebbe favorito le solite squadre dei mercati più ricchi, che ormai sono agitate ad ogni piè sospinto come spauracchio.

Un inciso: tutto sta nel modo in cui si spendono le risorse. Le città dell’area metropolitana del nord-est hanno vinto cumulativamente un titolo in venticinque anni, gli Spurs da soli ne hanno portati a casa 5.

Le regole attuali (salariali, che limitano il potere di spesa delle squadre più ricche, e tecniche, che non consentono più al singolo di dominare tanto quanto 15-20 anni fa) in realtà consentono di vincere anche costruendo con scelte oculate, senza contrattoni.

Polemiche a parte, non sono mancate proposte innovative.
A proposito del draft, è stato suggerito di premiare le migliori squadre escluse dai Playoffs, anziché le peggiori: questo significherebbe abbandonare il tanking, e premiare le squadre che costruiscono, anziché quelle che speculano sulle sconfitte.

Mark Cuban ha suggerito di spostare temporaneamente quattro squadre da una Conference all’altra; Bulls, Pacers, Pistons e Bucks andrebbero a Ovest, mentre New Orleans e le tre texane (che includono, per pura coincidenza ovviamente, anche i suoi Dallas Mavericks!) si sposterebbero ad Est.

In realtà, è più sensato abolire le Conference che non spostare arbitrariamente e in modo temporaneo alcune franchigie, perché il problema afferisce a un meccanismo che, strutturalmente, qualifica per i Playoffs sedici squadre secondo criteri rigidamente geografici, e non alla bontà contingente di questa o quell’altra formazione.

È difficile immaginare una NBA con lo stesso numero di partite tra tutte le squadre, ma secondo Silver, se i calendari sono diversi il tabellone dei Playoffs non può essere unico. Si potrebbero disputare 3 partite contro ogni avversaria, ma ogni franchigia avrebbe dinnanzi 87 partite.

Giocarne solo 2? Si scenderebbe a 58 gare appena, e questo implicherebbe la revisione al ribasso dei lucrosissimi contratti televisivi appena firmati, ipotesi che quindi non vale nemmeno la pena di prendere in considerazione.

Adam Silver ha paventato l’ipotesi di assegnare gli ultimi posti per i Playoffs con un mini-torneo, ed è un compromesso interessante, ma non radicale. Anche l’’idea di Sarver, per quanto imperfetta, non è priva di merito: certo, le migliori 16 qualificate ai Playoffs giocherebbero la Regular Season secondo calendari diversi, ma si ridurrebbe considerevolmente il divario tra una metà e l’altra del tabellone.

Kirk Goldsberry, di Grantland, ha proposto un’ipotetico “bracket” con le sweet sixteen dell’anno scorso, ed è innegabile che Playoffs di questo tipo sarebbero molto più interessanti, amalgamati e premianti rispetto a quelli che si sono poi effettivamente tenuti.

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Avere una sorta di “seconda divisione” con finestra affacciata sulle Finali NBA non è un bene per la Lega stessa; i Playoffs dell’Ovest sono un concentrato unico di talento e qualità, ma rappresentano solo metà del palinsesto, e una Finale con poco appeal non giova ai contratti pubblicitari. Silver e il Board of Governors, lo sanno bene, ma siedono su una miniera di risorse che restano inutilizzate (vedi il bracket poco sopra) per un mix letale di inerzia e interessi difficili da dirimere.

Fa sorridere che, in tempo di globalizzazione, gli stessi miliardari che incoraggiano la globalizzazione diventino protezionisti quando si tratta di cancellare una linea immaginaria che è d’ostacolo alla competizione.

Noi possiamo solo augurarci che gli interessi economici degli owners e le logiche sportive finiscano per allinearsi, consegnandoci una NBA più equilibrata e godibile.

One thought on “Eastern vs Western: ha ancora senso?

  1. Fantastico articolo, Francesco: Una delle prove della superiorità della Western è Atlanta, la quale ha quel record senza stelle.

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