C’era una volta un cantante americano piuttosto famoso dalle parti del pianeta terra. Il suo nome era Elvis, il suo cognome Presley, ma per tutti era semplicemente il Re.

Nelle sue apparizioni dal vivo fra il 1956 e il 1972, Elvis era solito farsi accompagnare da un quartetto vocale originario di Springfield nel Missouri, la cui funzione era quello di far da coro alle sue canzoni. Il nome del quartetto era The Jordanaires.

Bravi per carità, anche piuttosto famosi, ma pur sempre un contorno che finiva inevitabilmente per essere oscurato dalla voce, dal carisma, dalla sola presenza del Re.

Parecchi anni dopo, più di una mordace penna sportiva prese l’abitudine di presentare i Chicago Bulls, all’epoca la più forte squadra di basket al mondo, come Michael Jordan e appunto… The Jordanaires.

Un re indiscusso accompagnato da un quartetto di buoni giocatori, a volte ottimi, utili alla causa, ma inevitabilmente condizionati nell’esprimere il proprio talento dalla straripante presenza dell’uomo con il 23 sulle spalle.

Si è discusso spesso, all’epoca come oggi, se il migliore fra tutti i compagni che Jordan abbia mai avuto ai Bulls sia stato egli stesso un Jordanaires o invece si sia guadagnato sul campo i galloni per aspirare a qualcosa di meglio. Non un Elvis Presley chiaramente, di Re ce n’è uno solo, ma neanche un corista qualsiasi.

Il migliore dei compagni che MJ abbia mai avuto si chiamava Scottie Pippen. E la risposta – almeno a parere di chi scrive – non può essere che una.

Pippen è stato molto più che una voce da coro. È stato molto più del miglior “Robin” di tutti i tempi, epiteto anche questo che spesso, talvolta in maniera sarcastica, gli è stato attribuito.

Un fido scudiero, una spalla sicura e affidabile, ma capace anche – nel bene e nel male – di uscire dalla lunga ombra di MJ e vivere di luce propria.

Una carriera strana la sua, di difficile inquadratura, fatta di alti e bassi, di incredibili exploit e di personalissime debacle.

Braccia lunghissime e veloci, un atletismo superiore alla media, versatilità ai massimi livelli, capacità difensive che probabilmente non hanno eguali, almeno sul perimetro, nella storia della NBA, ma anche una psiche talvolta fragile, un facile bersaglio sia di feroci critiche, sia della cattiveria agonistica degli avversari che spesso individuavano in lui l’anello debole di quella macchina perfetta che erano i dominanti Bulls dei primi anni ‘90. Un giocatore però totale, scoperto per caso, esploso improvvisamente, dal passato difficile.

Scottie Maurice Pippen nacque nell’Arkansas nel 1965, ultimo di dodici figli, da una famiglia che si ritrovò in notevoli difficoltà economiche dopo che il padre era finito su una sedia a rotelle.

Esordì nel mondo del basket alla Hamburg High School. Non ricevette alcuna borsa di studio.

Frequentò l’University of Central Arkansas, lavorando per pagarsi la retta. Si trattava di un college minuscolo dalla scarsa visibilità. Al primo anno realizzò appena 4.3 punti a partita in un contesto dal livello molto basso. Eppure poco alla volta, gara dopo gara, mese dopo, anno dopo anno, il gioco di Scottie parve sbocciare.

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Chiuse la sua stagione da senior con la media di 23.6 punti, 10 rimbalzi, 4.3 assist a partita e quasi il 60% dal campo.
Fu notato quasi per caso da Jerry Krause, GM dei Bulls, che rimase impressionato dal talento multidimensionale della giovane ala, ma ancor di più dai suoi margini di miglioramento.

Chicago che aveva l’ottava scelta al draft del 1987, decise di puntare sul giocatore. Ma presto Pippen non si rivelò più un segreto. Al Predarft Camp si mise in mostra con ottime prestazioni che attirarono l’attenzione di diverse squadre. Krause intuì che forse non sarebbe sopravvissuto alle prime chiamate. Imbastì una trade con Seattle.

I SuperSonics chiamarono Scottie con il quinto pick, lo girarono ai Bulls in cambio di Olden Polynice e una scelta futura. Col senno di poi una delle trade più squilibrate nella storia.

Pippen partì dalla panca per tutto il suo anno da rookie, viaggiando alle modeste cifre di 7.9 punti e 3.8 rimbalzi a partita, tirando con il 46% dal campo e con un pessimo 57% dalla lunetta. Sarà incredibile come Scottie migliorerà in ogni aspetto del proprio gioco nel corso della sua carriera.

Chicago vinse 54 partite, terzi ad est dietro i Celtics di Larry Bird che spendevano gli ultimi bagliori della loro immensa leggenda e i Pistons, guidati dal fantastico play, Isiah Thomas. Il quarto anno MJ vinse il trofeo di MVP della lega e di difensore dell’anno. Pippen non figurò neanche nel quintetto delle matricole.

Al primo turno dei playoffs i Chicago Bulls affrontarono i Cavs. Con la serie sul 2 a 2, nella decisiva gara 5, coach Collins decise di lanciare la giovane ala da Arkansas in quintetto al posto di Brad Sellers. Scottie rispose con 24 punti, 6 rimbalzi e 3 recuperi. Il resto lo fece il solito Jordan con 39 punti. I Bulls vinsero partita e serie per 107 a 101. Da quel giorno Scottie non sarebbe più uscito dal quintetto base.

Nelle semifinali di Conference, Chicago affrontò i Pistons di coach Chuck Daly, coloro che stavano diventando famosi in tutto il mondo con il nome di Bad Boys per l’aggressività che mettevano sul parquet, un’aggressività che non disdegnava il vero e proprio scontro fisico e spesso e volentieri sconfinava nella cattiveria più pura.

I giovani Bulls furono spazzati via per 4 partite a 1 mentre un terribile incubo stava prendendo forma nella testa di Scottie. Un incubo che aveva la forma di un mostro a due teste, quelle del veterano Bill Laimbeer e del giovane Dennis Rodman. Ma di questo avremo modo di parlare in seguito.

Pippen iniziò la stagione successiva infortunato. Saltò tutta la pre-season e le prime otto partite di stagione. Quando ritornò a calcare i parquet era un giocatore decisamente migliore. Chiuse la stagione con 14.4 punti per gara, 6.1 rimbalzi, 3.5 assist, iniziando a mettere in mostra una varietà di gioco e una versatilità che scomodavano paragoni importanti.

Il 3 gennaio, contro i Clippers, realizzò la prima tripla della sua carriera con 15 punti, 10 rimbalzi e 12 assist. Persino quel giorno tuttavia finì per essere oscurato da Jordan che andò anch’egli di tripla doppia, ma di punti ne mise 41. Sarà questo un motivo ricorrente nella carriera di Scottie. Grande, spesso grandissimo, ma fatalmente offuscato da una stella ancor più luminosa, una stella che, ironia della sorte, faceva parte della sua stessa galassia.

Fu un anno comunque complicato per Chicago. La squadra chiuse sesta ad est con 47 vittorie e 35 sconfitte.
Al primo turno di playoffs, c’erano i Cavs. Cleveland in stagione aveva battuto Chicago 6 volte su 6, compreso un 90 a 84 nell’ultima partita di Regular Season in cui i Cavaliers avevano per giunta fatto riposare i loro migliori giocatori.

Era un sfida che appariva segnata, tanto più che i Cavs avevano vinto 10 partite in più rispetto a Chicago in stagione e avevano il fattore campo a favore.

Contrariamente alle previsioni la serie però fu durissima ed equilibrata e si decise soltanto agli ultimissimi istanti della quinta e decisiva partita. Fu quella la gara di The Shot, il tiro di MJ sulle braccia protese di Craig Ehlo, che consegnò la vittoria ai Bulls per 101 a 100.

Dopo aver eliminato i Knicks di coach Rick Pitino, i Bulls raggiunsero un po’ a sorpresa la finale di conference. Era la prima volta dal 1975 che Chicago arrivava così lontana in post season.

Avversari, nuovamente i Detroit Pistons. E l’incubo riprese forma più vivo che mai nella testa di Scottie. Fu quello l’anno in cui le Jordan Rules raggiunsero probabilmente una perfezione quasi chirurgica.

Jordan siglò 32 punti in gara 1 e 46 punti in gara 3. I Bulls resistettero giusto quelle due partite prima di alzare bandiera bianca di fronte alla forza, al furore agonistico e all’energia dei Bad Boys. Oltre Micheal, nessun altro componente della squadra sembrò in grado di resistere all’assalto di Isiah Thomas e compagni.

Il secondo anno Pippen fu schiacciato e intimorito dagli avversari, realizzò poco più di 9 punti e 7 rimbalzi nella serie con una percentuale dal campo che non era degna del secondo violino della squadra. Se lo stesso MJ palesò infatti dei limiti nel gestire l’asfissiante e aggressiva difesa dei Pistons, Pippen fu letteralmente spazzato via, estraniandosi spesso dal gioco, fino all’epilogo nella decisiva gara 6 quando rimase in campo solo un minuto prima di ricevere una gomitata da Bill Laimbeer e passare il resto della partita in infermeria.

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Proprio Bill Laimbeer era il giocatore che più degli altri Pippen temeva, ma in generale era l’uomo più odiato da tutti i Bulls. Grande, grosso e cattivo che, pure in un contesto particolare come quello dei Pistons, riusciva a distinguersi per la sua intimidazione e per la sua difesa fisica che spesso andava molto ben oltre i limiti del consentito.

In un recentissimo sondaggio condotto da una rivista americana, Bill è stato votato come il giocatore più sporco nella storia della NBA, davanti proprio all’allora suo compagno di squadra Rodman e a Bruce Bowen. Fra i primi cinque di quella speciale classifica, compare un altro componente di quei Bad Boys, Rick Mahorn, proprio a dimostrazione di come a giocare contro quei Pistons si rischiasse molto di più che una semplice sconfitta.

La stagione successiva, quella che sanciva il passaggio fra un decennio e l’altro, sulla panchina dei Bulls venne a sedersi una vecchia conoscenza del basket NBA, quel Phil Jackson che a inizio anni ’70 aveva vinto da comprimario due titoli nei New York Knicks targati Willis Reed e Walt Frazier.

Jackson e il suo assistente Tex Winter portarono alcune novità negli schemi offensivi dei Bulls, la più rivelante di queste aveva un nome destinato a diventare piuttosto famoso dalle parti del pianeta NBA: The Triangle Offence, l’attacco triangolo. Secondo Jackson era il miglior modo per far fronte alle Jordan Rules di Daly perché creava eque possibilità di liberare al tiro a tutti i componenti del quintetto.

Sotto l’attenta guida di Jackson, Pippen, al suo terzo anno fra i pro, migliorò ulteriormente le sue cifre. Chiuse l’annata con 16.5 punti per gara, 6.7 rimbalzi, 5.4 assist, 2.6 recuperi (terzo assoluto nella lega), ma i numeri non spiegavano completamente l’apporto sempre più decisivo che il suo gioco forniva alla causa Bulls.

Chicago vinse 55 partite e si presentò ai playoffs con una nuova consapevolezza nella propria forza. Era una squadra più sicura di sé, più matura, più smaliziata.

Al primo turno i Bulls eliminarono Milwaukee e in gara 1 Scottie realizzò la sua prima tripla doppia nei playoffs. Ancora una volta Jordan però si prese la luce dei riflettori con 38 punti, 8 rimbalzi e 7 assist.

Al secondo turno Chicago si liberò in cinque gare di Philadelphia, quindi approdò nuovamente alla finale della Eastern Conference. Nuovamente i Pistons, campioni in carica, come avversari.

Di nuovo l’incubo per Scottie. Di nuovo le botte, i contrasti, le gomitate, i colpi al costato, i calci agli stinchi, i lividi, le fitte e i dolori del dopo partita. Di nuovo il trattamento speciale che i Bad Boys riservavano specialmente a lui e a Jordan.

Per superare Detroit, Chicago aveva bisogno del miglior Jordan, ma Jordan aveva bisogno dei propri compagni di squadra e soprattutto aveva disperatamente bisogno del miglior Pippen.

Manco a dirlo, quella serie verrà ricordata proprio per la debacle personale del numero 33 da Arkansas. Se da un lato, infatti, MJ rispose colpo su colpo agli attacchi di Detroit, Scottie ancora una volta nei momenti decisivi scomparve dal campo. E per molti degli anni a venire quella finale di Conference peserà come un macigno sulla sua carriera condizionando pesantemente i giudizi sul reale valore del giocatore.

E dire che per tutta la serie i Bulls erano riusciti a spingere i Pistons al loro limite, facendoli sputare sangue e non sottraendosi alla cruenta battaglia. Tanto che a un certo punto, i pronostici parvero persino completamente sovvertiti.

Dopo due partite casalinghe i Pistons si erano portati avanti due a zero, ma Chicago aveva pareggiato i conti nelle due gare allo Stadium. In gara 4 MJ aveva realizzato 47 punti e Pippen ne aveva messi 29 conditi da 11 rimbalzi.

Detroit vinse gara 5 nella sua roccaforte, una partita in cui Pippen diede nuovamente l’impressione di accusare la feroce intimidazione della difesa di Detroit, tirando in 45 minuti di gioco con un misero 5 su 20 dal campo, perdendo 4 palloni e nascondendosi nei possessi più importanti.

Era un segnale che in molti trascurarono perché in gara 6, di fronte al proprio pubblico, i Bulls giocarono la migliore partita della serie e si imposero con 18 punti di scarto: 109 a 91 diceva il risultato finale. Era tutto rimandato alla decisiva gara 7. A Detroit.

I Pistons d’un tratto apparvero stanchi, nervosi, quasi sull’orlo del collasso, mentre i giovani Bulls sembravano avere il vento in poppa. Adesso quella gara 7 esterna non faceva più così paura. Una gara che con molte probabilità voleva dire titolo perché dall’altro lato del Grande Fiume, i pur ottimi Trail Blazers non sembravano in grado di impensierire le due corazzate dell’est.

Il giorno prima della fatidica partita, Pippen fu però afflitto da un forte mal di testa che lo obbligò a letto per tutta la giornata. Il problema sembrò superato dopo una notte di riposo, ma appena Scottie mise piede sul parquet per la palla a due, l’emicrania riesplose in tutta la sua violenza. Il suo apporto alla causa fu semplicemente nullo.

Dall’altro lato i Pistons erano disposti a tutto pur di non cedere agli odiati avversari. Michael Jordan mise 31 punti. Ma il resto della squadra non scese praticamente in campo. E la partita si trasformò in un crudele e ingiusto uno contro tutti. Horace Grant tirò con 3 su 17 dal campo, Hodges 3 su 13, Cartwright 3 su 9. Scottie Pippen realizzò appena 2 punti mettendo a segno un solo canestro su 10 tentativi e non conquistandosi neanche un tiro libero. Tutto ciò in 42 lunghissimi ed estenuanti minuti durante i quali rimase sul parquet.

I Pistons piegarono per il terzo anno consecutivo i Bulls per 93 a 74. Quella dolorosa sconfitta che rappresentò probabilmente il punto più basso della carriera di Pippen, sarebbe però stata l’ultima eliminazione di Chicago in post-season per molti degli anni a venire.

Al termine della partita un furioso e stremato MJ chiese pubblicamente conto a Scottie della sua disastrosa prestazione, il quale si scusò pubblicamente adducendo la terribile emicrania a discolpa.

Ciò non bastò a placare la furia del numero 23 che, livido di rabbia, tuonò davanti ai microfoni: “Alcuni miei compagni di squadra non hanno giocato come sono in grado di fare, e questo è un dato di fatto.”

È risaputo infatti che MJ non accettò mai quella prestazione da parte del suo compagno in una delle gare più importanti della loro vita. Così come è risaputo che in molti, forse Jordan compreso, malignarono sulle reali condizioni fisiche di Scottie, la cui emicrania a parer loro, era dovuta solo alla tensione per l’imminente partita e al timore quasi fisico che Pippen nutriva nei confronti dei Pistons.

Tanto è vero che meno di un anno dopo, al termine di una nuova partita giocata male dal numero 33 in maglia Bulls, Jordan davanti ai giornalisti lo apostrofò con un ironico: “Mal di testa anche oggi, Scottie?”

Eppure Pippen negò sempre che le parole di Jordan al termine di quella gara 7 fossero dirette a lui, anzi si difese affermando: “I miei compagni di squadra sanno che ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità per aiutarli a vincere. Ho giocato 42 minuti. Non sono stati minuti di qualità, ma ho dato davvero il massimo e questo è ciò che conta.”

Frattanto i Pistons lasciarono i Bulls alle prese con le loro polemiche e si concessero uno storico back to back in finale contro Portland.

L’anno successivo, Scottie scese in campo ben deciso a far dimenticare a tutti, specialmente ai suoi detrattori, lo sconfortante epilogo dei playoffs appena conclusi.

Fu secondo in squadra per punti realizzati (17.8) e rimbalzi (7.3), primo per assist (6.2) e stoppate (1.13). I suoi numeri migliorarono in post-season e nella ormai classica finale della Eastern Conference, i Bulls finalmente esorcizzarono l’incubo Pistons battendoli per 4 partite a zero, e volando alla prima agognata finale NBA.

Pippen fu fantastico nella serie con 22 punti a partita, quasi 8 rimbalzi, oltre 5 assist, 3 recuperi e 2 stoppate a partita. Rodman sfogò la sua frustrazione durante la quarta e conclusiva partita commettendo un fallo da codice penale sullo stesso Scottie lanciato a canestro. Le scuse per quel fallo arriveranno solo molti anni dopo, pubblicamente, durante i festeggiamenti del titolo del 1996.

Nella finale contro i Lakers, MJ iniziò marcando Magic. Arrivò una sconfitta casalinga contro ogni pronostico.

Gara 2 iniziò con le stesse marcature, ma Jordan commise in rapida successione 2 falli sul play di Los Angeles. Jakcson spostò Pippen su Magic e Scottie fu pressoché perfetto sulla stella giallo-viola, spegnendo sul nascere lo showtime di Los Angeles.

Chiacago vinse le 4 partite successive, conquistando il primo titolo. Jordan fu grandioso durante le sue prime finali, ma l’apporto difensivo di un rinato Scottie e la sua gara 5 condita da 32 punti e 13 rimbalzi furono altrettanto importanti.

La stagione 1991-92 fu quello della consacrazione per l’ala piccola di Chicago. Arrivò la seconda chiamata all’All Star Game, la convocazione per le Olimpiadi di Barcellona nel Dream Team, il secondo quintetto NBA e il primo quintetto difensivo.

Segnò 21 punti a partita (quattordicesimo nella lega) e smazzò 7 assist (quindicesimo), cui aggiunse quasi 8 rimbalzi e 2 recuperi a partita. Era soprattutto nella propria metà campo che Scottie faceva la differenza per l’innata capacità di marcare e rendere inoffensivi giocatori completamente diversi fra loro, dalle guardie grazie alla sua velocità, ai centri grazie alle sue braccia lunghissime.

Nel frattempo, i Lakers, finalisti dell’anno prima, improvvisamente privi di Magic, ritiratosi per i tristi e ben noti motivi personali, finirono al penultimo posto della Pacific. E quando anche i nemici storici dei Bulls, i Detroit Pistons, si ritrovarono ad arrancare nel calderone della Eastern, chiudendo in profondo affanno con il quinto record ad est, apparve chiaro a tutti che in pochi avrebbero potuto opporsi al back to back di Chicago.

La Regular si trasformò in una cavalcata vincente per la squadra dell’Illinois: 67 vittorie e 15 sconfitte, record di franchigia frantumato.

Nei playoffs però una nuova temibile minaccia per Chicago e soprattutto per Scottie si profilava alle porte. Erano i New York Knicks di Pat Riley, l’ex coach pluridecorato di Los Angeles, che nella sfida contro i Bulls ricalcò quasi con cura maniacale i passi percorsi da Chuck Daly negli anni precedenti.

Pippen aveva perso Laimbeer ma si ritrovò davanti Xavier McDaniel, un’ala di due metri dalla spaventosa forza fisica. I Bulls avevano appena perso per sempre i Pistons, ma stavano per incontrare un nuovo e indomito avversario.

Scottie sembrò riprecipitare nel suo personalissimo incubo. Era da poco riuscito a liberarsi dell’oppressiva e intimidatoria difesa dei Pistons che aveva tanto sofferto e gli aveva procurato poco lusinghieri epiteti quali “molle” e “psicologicamente fragile”, ed ora che stava riscattando la sua figura di giocatore, trovava sulla sua strada i Knicks e soprattutto McDaniel, il quale palesemente aveva deciso di puntarlo per estraniarlo dal gioco.

Nonostante l’evidente divario tecnico fra le due squadre, giocando con una straordinaria intensità difensiva e ricorrendo a ogni mezzo più o meno lecito, i Knicks riuscirono a portare Chicago fino a gara 7.

Fu la celebre partita del “Take over” di James Jordan. Su consiglio del padre MJ accettò lo scontro fisico, scese in campo disposto alla rissa, affrontò in un testa a testa che fece storia il duro McDaniel, si prese un fallo tecnico, ma diede la scossa ai suoi compagni.

Scottie lo seguì. Andò di tripla doppia realizzando 17 punti, 11 rimbalzi e 11 assist. E i Bulls marciarono sui resti dei Knicks, imponendosi per 110 a 81 e ristabilendo le gerarchie.

Arrivò il secondo titolo, in finale contro Portland.

Dopo un’annata logorante fisicamente e stressante da un punto di vista psicologico, Jordan e Pippen parteciparono alle Olimpiadi di Barcellona. Si presentarono al training camp per la stagione successiva decisamente stanchi.

Pippen ebbe per la prima volta una lieve flessione nelle sue cifre: 18.6 punti per gara, 7.7 rimbalzi, 6.3 assist. Era comunque ormai salito al ruolo di stella indiscussa nel ricchissimo firmamento della NBA di inizio anni ’90.

Dopo Jordan risultò il giocatore più votato per l’All Star Game. Concluse la stagione nel primo quintetto difensivo e nel terzo quintetto NBA. In post season elevò il suo rendimento.

Disputò una serie grandiosa in finale di conference contro i Knicks che avevano perso per strada McDaniel, riscattandosi pienamente e mettendo a referto 22.5 punti a partita, 6.7 rimbalzi e il 51% dal campo.

I Bulls vinsero nuovamente il titolo, il terzo consecutivo, in finale contro Phoenix. Era dai tempi di Boston e dell’immenso Bill Russell, ventisette anni prima, che una squadra non riusciva nell’agognata impresa del three-peat.

Al termine di quella stagione Jordan annunciò improvvisamente il ritiro.

Per i Bulls fu un colpo tremendo. La squadra dei tre titoli era rimasta intatta ed in più dall’Italia era arrivato Toni Kukoc, da tempo oggetto del desiderio di Jerry Krause. Il GM dei Bulls più volte si era ritrovato a ripetere che sognava un contropiede con Kukoc a portare palla e Jordan e Pippen sulle corsie laterali.

Con Toni sesto uomo di lusso, secondo le idee di Jackson, i Bulls sarebbero stati ancora più forti degli anni precedenti, ancora più forti della concorrenza. Ma senza Michael cadeva tutto.

Per Scottie fu l’anno della gloria personale. Giocò splendidamente, ma come si conviene al personaggio, fu anche l’anno di una nuova personale caduta nel momento decisivo della stagione.

Dopo 16 partite di regular season, Chicago aveva un record del 50%. Poi la squadra inanellò una striscia di dieci vittorie consecutive. Fu durante quella striscia che i Bulls trovarono i giusti equilibri e Pippen ne assunse in pieno il ruolo di leader.

Guidò i Bulls in punti (22 a partita), assist (5,9) e recuperi (2,93). Fu il secondo rimbalzista della squadra (8,7) alle spalle di Horace Grant. Giocò il suo quarto All-Star Game, segnò 29 punti in 31 minuti di gioco e fu votato MVP della partita. Finì nel primo quintetto NBA e nel primo quintetto difensivo, ottavo nella classifica dei realizzatori, secondo in quella dei recuperi, diciannovesimo in quella degli assist. Un giocatore totale.

Senza MJ, Chicago riuscì a chiudere la stagione regolare con l’ottimo record di 55 vittorie, 27 sconfitte e il terzo posto nella Eastern Conference.

Al primo turno di playoffs i Bulls seppellirono i Cavs per 3 a 0. Poi, ancora una volta, il destino mise loro di fronte New York, per un’ennesima epica sfida. Ma stavolta i Knicks partivano nettamente favoriti.

Senza Michael, nessuno si sarebbe aspettato da quella serie una battaglia così tesa e tirata, conclusasi ancora una volta soltanto alla settima gara.

Nelle prime due partite al Madison, Chicago allungò fino al terzo quarto, salvo poi subire in entrambe le occasioni la rimonta di New York nell’ultimo periodo.

Gara 3 a Chicago sembrò rispettare il copione. I Knicks subirono i ragazzi dell’Illinois nei primi tre quarti di partita, andando sotto di venti punti. Poi la solita clamorosa rimonta del quarto periodo. A 29 secondi dalla fine, tuttavia Chicago conduceva ancora per 102 a 100.

I Bulls avevano ancora un possesso per chiudere definitivamente la partita. La palla arrivò a Pippen. Scottie, pressato da Anthony Mason, non trovò il tiro e la sirena dei 24 secondi suonò sorprendendo Chicago ancora con la palla in mano.

Ora mancavano 5 secondi e 5 decimi alla fine e la palla tornava ai Knicks. Nelle mani di Patrick Ewing la responsabilità di pareggiare i conti. Il “jamaicano” ricevette in area e firmò in perfetto gancio il canestro della parità oltre le braccia protese di Cartwright: 102 a 102.
Mancavano ancora 1.8 secondi alla fine.

Phil Jackson chiamò Time Out. Disegnò l’ultimo gioco per Kukoc, dando ordine a Pippen di effettuare la rimessa. Scottie rimase basito. Era lui il leader della squadra. Era lui il miglior realizzatore, l’uomo dell’ultimo tiro, era lui che aveva trascinato i Bulls fin lì.

Quando venne il momento di entrare in campo, Pippen rimase seduto. Jackson lo invitò ad alzarsi, ma Scottie fece segno di no con la testa.

Il coach chiamò un secondo Time Out. Discusse animatamente con Pippen. Il 33 di Chicago stava per ripensarci e tornare in campo, ma all’ultimo momento Phil lo mandò al diavolo e diede nuove istruzioni. Pippen si accomodò sul pino.

Pete Myers effettuò la rimessa per Kukoc che, fronte a canestro, realizzò il tiro della vittoria.

Nessuno si era accorto di quanto era avvenuto sulla panca dei Bulls. Lo rese noto lo stesso Jackson in conferenza stampa per mettere Pippen di fronte alle proprie responsabilità.

Scottie negli spogliatori prese la parola e con lo sguardo basso si scusò con la squadra:
“Ero frustrato. Non sapevo quel che facevo. Per fortuna Toni ha messo quel tiro e ciò dimostra che Phil aveva ragione”.

In gara 4 ci fu la prevedibile resurrezione di Scottie, che trascinò i Bulls alla vittoria con 25 punti, 8 rimbalzi, 6 assist e 2 recuperi. Chicago si impose per 95 a 83.

Si tornava a New York sul risultato di 2 a 2 per una gara 5 che si preannunciava decisiva. E i Bulls ce l’avrebbero pure fatta a vincere partita e forse serie, se non fosse stato per il clamoroso errore di Hue Hollins, l’arbitro.

Con i Bulls avanti di uno a pochi secondi dalla fine, i Knicks avevano l’ultimo possesso. La palla arrivò a Hubert Davis nei pressi della lunetta. Davis caricò il tiro. Pippen andò a pressare su di lui, cercando la stoppata. Il tiro di Davis si rivelò sbagliato, ma incredibilmente Hollins chiamò fallo. Due liberi per New York. Due su due di Davis dalla lunetta. Vittoria Knicks.

Pippen era stato impeccabile nella giocata difensiva, ma la chiamata errata, aveva nuovamente frustrato i suoi sogni di gloria. Sarebbe stata un’impresa splendida e a tratti irreale condurre i Bulls alle finali di Conference senza Jordan.

Come da pronostico, Chicago si impose nella sesta gara casalinga, ma sempre come da pronostico, New York chiuse qualsiasi discorso in gara sette al Madison per 87 a 77, grazie all’ennesima e ultima rimonta nel quarto periodo, nonostante i 20 punti e i 16 rimbalzi di Pippen.

Fu quello in generale un periodo splendido, numericamente parlando, della carriera di Scottie, ma nel contempo il più difficile. Il suo gioco si elevò ad altissimi livelli, ma il ruolo di leader, che pure agognava ardentemente, a volte mal gli si addiceva.

Nei diciotto mesi di assenza di MJ dal parquet, Pippen giocò a tratti un basket stellare, ma era costantemente teso come una corda di violino.

Soffriva malvolentieri la presenza in squadra di Kukoc verso cui nutriva forti risentimenti dovuti soprattutto al fatto che il ragazzo croato guadagnasse più di lui. Si sentiva profondamente frustrato ogni qualvolta veniva messa in dubbio la sua leadership.

Tentava di fare il Jordan negli allenamenti pretendendo dai suoi compagni il massimo affinché elevassero il loro livello, ridicolizzava letteralmente il povero Toni ad ogni uno contro uno, rendendogli la vita durissima.

Ma in generale Pippen non riuscì mai a trovare in quel periodo la propria dimensione di leader. La cercò a lungo, senza successo. Il suo malcontento e la sua frustrazione aumentarono a dismisura col passare del tempo, trovando il culmine l’anno successivo, quando, dopo un’espulsione contro gli Spurs, arrivò a scagliare una sedia in campo, qualche settimana prima che Michael tornasse ad alleggerirlo delle sue responsabilità.

E dire che nel secondo anno senza Jordan, Pippen disputò una superba stagione, consacrandosi il miglior All Around Player della lega, uno dei migliori di sempre.

Risultò infatti il leader della squadra in tutte e cinque le categorie principali con 21.4 punti, 8.1 rimbalzi, 5.2 assist, 2.94 recuperi (primo nella lega) e 1.13 stoppate. Un solo altro giocatore nella storia della NBA era stato capace fino a quel momento di tanto, Dave Cowens in maglia Celtics nella stagione 1977-78. Solo altri due giocatori in futuro eguaglieranno il record di Scottie. Kevin Garnett nel 2003 e Lebron James nel 2009

Pippen fu convocato all’All Star Game, finì nel primo quintetto NBA e nel primo quintetto difensivo. Nelle ultime 17 partite tornò anche Michael. Chicago chiuse con 47 vittorie e 35 sconfitte. Fu eliminata dai Magic di Shaq e Hardaway nelle semifinali di Conference.

Poi arrivò la stagione della gloria. In estate l’ex nemico Rodman approdò ai Bulls.

Chicago, guidata dal magico trio Jordan, Pippen, Rodman, vinse 72 partite, prima squadra di sempre ad abbattere il muro della 70 vittorie in Regular Season. In seguito, esattamente vent’anni dopo, ci riusciranno anche gli attuali Golden State Warriors che di vittorie ne raggiungeranno addirittura 73. Curiosamente il coach dei Warriors autori del fenomenale record è proprio quello Steve Kerr che era stato importante pedina nei Bulls del 1996.

A differenza dei Warriors, la cavalcata dei Bulls fu però vincente anche nei playoffs con un record di 15 vittorie, 3 sconfitte e il quarto titolo in sei anni. Pippen e Jordan finirono nel primo quintetto NBA ed entrambi insieme a Rodman finirono nel primo quintetto difensivo. In più Toni Kukoc fu eletto sesto uomo dell’anno e Jackson coach of the year. Una stagione trionfale se mai ce n’è stata una.

In estate Pippen partecipò alle Olimpiadi di Atlanta, vincendo il suo secondo oro con quello che passerà alla storia come il terzo Dream Team.

I Bulls bissarono il successo nella stagione successiva in cui il trentaduenne Pippen mise a referto 20.2 punti, 6.5 rimbalzi e 5.7 assist.

Arrivò dunque la stagione 1997-98, l’ultima del ciclo dei Bulls, l’ultima per MJ e Scottie con la maglia di Chicago. Pippen saltò le prime 35 partite di Regular Season per infortunio.

Quando ritornò sul parquet, i Bulls che venivano rispettivamente da 72 e 69 vittorie in stagione, avevano il modesto record di 24 vittorie, 11 sconfitte e qualche problema di spogliatoio fra le bizze di un Rodman sempre meno gestibile e una quadra che iniziava a sentire la fatica di un biennio esaltante ma decisamente impegnativo.

Scottie rientrò in campo mettendo a referto 12 punti, 4 rimbalzi, 5 assist contro Golden State. Chiuse la stagione con 19.1 punti, 5.2 rimbalzi, 5.8 assist. Con Pippen sul parquet i Bulls vinsero 38 delle 47 partite rimanenti. Portarono a casa il terzo titolo consecutivo, il sesto in otto anni.

In gara 4 di finale contro Utah, Scottie mise 28 punti e 9 rimbalzi. Il giorno di gara 6 al Delta Center di Salt Lake City, quello dell’ultimo tiro di MJ e del braccio alzato consegnato agli avidi obbiettivi dei fotografi, Pippen giocò a mezzo servizio per un infortunio alla schiena.

Nell’intervallo si diceva che non sarebbe neanche rientrato in campo, ma il numero 33 non si sottrasse alle proprie responsabilità. Seppur claudicante giocò 26 minuti, mettendo a referto 8 punti, 3 rimbalzi, 4 assist, 2 recuperi e una stoppata. Il resto ovviamente lo fece Jordan.

Con l’addio di Micheal la squadra del secondo three-peat fu smantellata.
Pippen fu tradato a Houston e andò a giocare con Hakeem Olajuwon e Charles Barkley in un terzetto da sogno. Era l’anno del lock-out in cui furono giocate appena 50 partite.

L’apporto offensivo del nostro si ridusse a 14.5 punti a partita, ma Scottie tirò giù 6.5 rimbalzi, smazzò 5.9 assist e difensivamente fu il solito Pippen. Finì per l’ottava volta consecutiva nel primo quintetto difensivo della lega. Sarebbe stata l’ultima.

I Rockets chiusero con 31 vittorie e 19 sconfitte. Al primo turno furono eliminati per 3 partite a 1 dai Lakers.
Scottie non si trovò bene a Houston. I suoi rapporti con Barkley furono problematici, raggiungendo i minimi storici durante quell’estate. Dopo appena un anno in maglia Rockets, chiese di essere ceduto. Si accasò a Portland dove giocò le quattro successive stagioni.

Al primo anno, la squadra dell’Oregon chiuse con 59 vittorie, seconda migliore della lega dopo i Lakers sulla cui panchina si era frattanto seduto PhilJ Jackson e sul cui parquet dettavano legge tale Shaquille O’Neal e un ancor giovane Kobe Bryant.

I Trail Blazers erano una specie di selezione All Star con Damon Stoudamire in play, Steve Smith in guardia, Pippen in ala piccola, Sheed Wallace in ala grande e Arvidas Sabonis in centro. Venivano considerati una seria candidata all’anello.

Arrivarono in finale di conference dove incrociarono le armi proprio contro Los Angeles. Ne nacque una serie memorabile. Una serie che valeva il titolo, vista la scarsa concorrenza che si era creata ad est dopo lo scioglimento dei Bulls due anni prima.

Portland si trovò sotto per 3 a 1, ma in gara 5 Pippen mise 22 punti, catturò 6 rimbalzi, recuperò 6 palloni, rifilò 4 stoppate, smazzò 5 assist tirando con 67% dal campo. Trascinò i suoi alla vittoria. Vittoria che fu bissata nella sesta partita.

Nella decisiva gara 7, i Trail Balzers si portarono avanti di ben 15 punti ad inizio del quarto periodo. Sembrava una gara segnata, con il titolo che sarebbe tornato a Portland dopo 23 anni e Pippen che avrebbe sopravanzato MJ nel computo complessivo degli anelli. Sembrava.

I Lakers diedero vita a una furiosa rimonta. Il grande Sabonis che fino a quel momento aveva reso quasi inoffensivo un altrimenti devastante O’Neal, uscì per falli. Anche Pippen commise il suo sesto fallo. I Lakers si imposero per 89 a 84 e andarono a vincere un facile titolo in finale contro Indiana.

Nelle successive tre stagioni Pippen vide ridurre il proprio apporto alla causa Trail Blazers per via di alcuni infortuni che ne minarono il rendimento. Nel suo ultimo anno a Portland divenne il playmaker atipico della squadra, facendo registrare una striscia di 21 vittorie e 4 sconfitte per la squadra. Chiuse con 10.8 punti a partita, 4.5 assist, 4.3 rimbalzi.

Ritornò a Chicago come Free Agent. Era la stagione 2003-2004 e lui aveva trentotto anni. Giocò appena 23 partite poi disse basta. Divenne mentore e consigliere dei giovani della squadra.

L’anno successivo quei giovani metteranno a segno un record di 47 vittorie e 35 sconfitte, centrando per Chicago i playoffs per la prima volta dalla stagione 1997-98, dall’ultima sublime annata in maglia Bulls di Michael Jordan e del più grande secondo violino che sia mai esistito nella storia della NBA, non un Jordanaiers qualsiasi, ma una stella vera dai mezzi atletici devastanti, l’eccezionale versatilità e l’impareggiabile difesa, al secolo Scottie Maurice Pippen.

 

7 thoughts on “27 – Scottie Pippen

  1. Scottie, il mio pupillo, alla 27?
    6 anelli, il miglior difensore di sempre fra gli esterni, il prototipo della point forward, alla 27?
    Leggerò le motivazione dei 26 che gli stanno davanti… ma nella mia personale classifica guadagnerà un po’ di posizioni credo!
    :-)

  2. Grande articolo, uno dei migliori finora. E grande Pippen, a volte anche lui troppo spesso dimenticato quando si parla dei più grandi. Complimenti.

  3. Qualcosa non mi torna..nella vecchia classifica non l avevi messo motivando la scelta nell articolo dedicato agli esclusi..che in questa
    nuova ci sia posso capirlo visto che sono 30 e non più 25..ma addirittura davanti a ben 3 giocatori che c erano in quella vecchia?mi sembra uno stravolgimento clamoroso

    • Sí, già scritto che la classifica è stata rivista non solo alla luce delle new entry ma anche in diverse posizioni. Non si tratta di una copia della precedente con in più qualche aggiunta ma di una classifica a tratti ampiamente rivisitata sulla base di nuovi fattori.

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