Il 3 giugno 1986 è una data importante nella storia dei Boston Celtics.

Siamo a metà anni ’80, tra gesta leggendarie e slanci futuristici si stanno scrivendo le pagine più calde della Grande Guerra tra Larry Bird e Magic Johnson. Nell’86 però si registra una tregua giallo-viola e in finale ci vanno i Rockets di Olajuwon che proprio quella stessa notte, 3 giugno 1986, avrebbero l’opportunità in casa di impattare la serie sul 2-2.

L’opportunità è grande, ma non quanto la classe di Bird che a pochi minuti dalla fine ― su assist di Bill Walton, nella forse sua miglior partita coi Celtics ― segna una tripla che rompe l’equilibrio e di fatto indirizza partita, serie e titolo.

Nello stesso giorno in cui Boston consegna al Libro del Gioco l’ennesima reliquia preziosa, in un piccolo ospedale di Puerto Plata, nel nord della Repubblica Domenicana, viene alla luce Alfred Joel Horford Reynoso, per tutti Al.

Il giovane Al ha il destino NBA scritto nelle luminose e romantiche stelle caraibiche e dopo una lunga militanza negli Atlanta Hawks quest’estate ha deciso di unirsi ai Celtics, seguendo un sentiero forse già scritto.

Horford è senza termini di smentita il free agent più importante ad aver scelto Boston, e l’arrivo del centro dominicano permette ai tifosi di tornare a sognare in grande.

Finito l’ultimo grande ciclo, quello con Doc Rivers in panchina e Pierce-Allen-Garnett in campo, i Celtics hanno dovuto inevitabilmente rifondare e per farlo hanno scommesso su una mente giovane e brillante come Bradley Stevens, capace di portare Butler per due anni consecutivi alla finale NCAA.

Stevens, che si appresta ad iniziare la sua quarta stagione al Garden ha fatto sì che il processo di riadattamento fosse più breve del solito portando idee chiare e costruendo una straordinaria struttura di gioco basata sulla spread offence già ammirata nell’università dell’Indiana.

I Celtics, seppur con mezzi limitati, hanno fatto segnare risultati positivi e soprattutto in crescendo e, nelle tre stagioni sotto Stevens, hanno sempre migliorato il proprio record fino ad arrivare alle 48 vittorie dello scorso anno, centrando anche i playoff nelle ultime due stagioni.

Il tutto rivitalizzando e rendendo competitivi giocatori sempre un po’ ai margini delle considerazioni generali come Crowder o Isaiah Thomas. Quest’ultimo in particolare, sradicato come un cactus dal deserto dell’Arizona dove giocava ha trovato nel gelido nord un posto dove redimere il suo fuoco ed esplodere definitivamente. È lui il centro focale della squadra, quello a cui Stevens ha dato la valigetta coi codici e che può prendersi più licenze poetiche degli altri.

 

Facile, no?

 

Ciò nonostante i Celtics non sono riusciti a compiere quel decisivo scalino aggiuntivo che separa il purgatorio delle squadre senza possibilità di vittoria (e a volte anche di disfatta) dal paradiso delle Contender. L’eliminazione al primo turno degli scorsi playoff proprio per mano degli Hawks di Horford ha sottolineato ancora una volta che i Celtics sono una squadra interessante ma ancora lontana dal livello richiesto per competere per il vertice.

Il sentimento predominante resta comunque l’ottimismo. La crescita negli ultimi tre anni è stata costante, i giovani stanno iniziando a far intravedere il loro potenziale, le gerarchie del gruppo hanno definitivamente eletto Thomas come stella della squadra e adesso è arrivato anche un pluri-All-Star come Horford. Per di più la scorsa stagione ha definitivamente consacrato Stevens come uno dei migliori allenatori in circolazione, confermandosi il punto di forza più solido di tutta l’organizzazione.

Stevens ha fatto germogliare i semi di una pallacanestro scientifica, che mescola modernità allo studio del Gioco. Da allenatore preparato ― e ancora prima da persona intelligente ― ha saputo plasmare il sistema attorno ai giocatori a disposizione, evitando di piegare troppo una realtà che difficilmente avrebbe ceduto.

Difensivamente parlando i Celtics sono stati una delle migliori squadre della passata stagione. La presenza di tre giocatori come Smart, Crowder e Avery Bradley garantisce duttilità, aggressività ed una costante pressione sugli avversari. Nella passata stagione solo i Rockets hanno rubato più palloni di Boston, i quali sono anche nella top-3 delle squadre che causano più turnover.

Sotto le plance la coppia Horford-Johnson rischia di essere una delle più difficili da superare dell’intera lega: la complementarità è totale e Amir Johnson sembra il compagno perfetto per colmare alcune sue lacune difensive ― tipo a rimbalzo ― permettendo a Stevens di usare il centro dominicano per guastare i pick-and-roll avversari anche lontano dal canestro, cosa nella quale invece è maestro.

 

Volendo fantasticare su un’ipotetica sfida di playoff contro i Cleveland (su cui poi torneremo) Boston sembra avere le carte in regola per giocarsela. Horford potrà delegare Tristan Thompson al compagno di reparto evitando gli incubi delle due passate stagioni e grazie al terzetto di prima ― a cui va aggiunto anche il nuovo arrivato Brown ― c’è abbastanza materiale per poter mettere in difficoltà LeBron James (o almeno provarci).

Avery Bradley è una delle migliori guardie difensive della lega, specie sul perimetro. La sua presenza garantisce a Stevens un biglietto in prima classe nella costruzione di trappole tattiche, dandogli la possibilità di delegare Isaiah Thomas su avversari più “morbidi”. L’esempio migliore è nella partita dell’anno scorso contro gli Warriors, dove Bradley è stato capace di far sembrare normale anche Curry, l’alieno.

 

 

Nonostante si tenda a parlarne poco Bradley è uno dei cardini della squadra, soprattutto in difesa, e la sua assenza negli scorsi playoff si è sentita tanto. Così come molto importante è Jae Crowder, arrivato come merce avariata da Dallas e trasformato da Stevens in un competente 3/D ― nonostante il 33.6% dall’arco lo veda non sempre infallibile. Marcus Smart è una dinamo inesauribile, ha una tempra adamantina che fa impazzire il Garden e porta soluzioni diverse uscendo dalla panchina.

In più da quest’anno scopriremo Jaylen Brown, preferito da Danny Ainge ai più scontati Bender o Dunn, e che in quanto ad intensità non è secondo a nessuno. Fisicamente dominante, Brown ha tutto per rendere la difesa dei Celtics davvero insuperabile, e se dovesse aggiungere al suo arsenale offensivo un tiro rispettabile ci sono gli estremi per diventare un giocare importante, e non solo in ottica Celtics.

I Celtics hanno chiuso la scorsa regular season col quarto miglior DefRtg (100.9 punti concessi su 100 possessi), identico a quello di Golden State e Clippers, due squadre attrezzate per vincere l’anello. Ma Stevens ha costruito anche un attacco notevole, moderno e funzionale alle caratteristiche della squadra. A differenza dei Warriors qui i dati sono diversi ― ma di Steph Curry ce n’è uno solo ―, ma comunque buoni (103.9 di OffRtg).

Come detto l’uomo di punta è Isaiah Thomas ma il gioco scorre corale e ben strutturato con una predisposizione naturale ai ritmi alti visto il terzo PACE assoluto (101.15 possessi a partita, molto simile a quello di Golden State ― e adesso la smetto con questa similitudine).

Thomas è un catalizzatore difensivo eccezionale perché oltre ad essere letale dal perimetro è anche uno dei migliori giocatori della lega in Restricted Area ― nella passata stagione nel pitturato ha tirato col 55.5% (!), per rendere l’idea Westbrook ha chiuso col 58% (!!) ― costringendo gli avversari a collassare su di lui quando entra in penetrazione, creando spazio per triple aperte per i compagni.

 

Citando il Maestro: “Holy crap! Rewind that!”.

 

Thomas ha trovato la sua dimensione ideale a Boston ― una città che sembra infiammargli l’anima ogni volta che scende in campo ― e Stevens gli ha messo in mano le chiavi della squadra. Il suo stile di gioco coraggioso, spettacolare ma anche terribilmente efficace lo rende un oggetto di vero culto, al Garden e non.

Nelle sue sapienti mani l’attacco di Boston è sempre ordinato e potenzialmente pericoloso. Nonostante il ritmo alto i Celtics perdono pochi palloni (13 a partita) e come detto si prendono tantissime triple (oltre le 26), anche se poi non sempre vengono convertite in punti. Con il 33.5% da tre infatti Boston è la terzultima squadra per efficienza dall’arco e questa è la vera chiave di volta offensiva per scalare l’ultimo gradino.

La presenza di Horford in questo aiuterà tantissimo a mettere ulteriore pressione sulle difese, portandole ad estremizzazioni pericolose specialmente su situazioni di pick-and-roll centrale.

Horford è in grado di portare il diretto avversario molto lontano dalla zona di competenza senza perdere pericolosità. È in grado di aprirsi e punire i close-out in ritardo, così come di rollare o di trovare soluzioni spalle a canestro. Horford ha inoltre una chiarissima visione di gioco che gli permette di essere un problema anche come rifinitore/facilitatore.

 

Stevens ha costruito un playbook offensivo di primo livello ed è uno dei migliori allenatori della lega per gli ATO’s (giochi chiamati dopo un time-out), con una certa predisposizioni a fargli funzionare soprattutto nei finali di partita. L’arrivo di Horford gli permetterà di incrementare ancora di più la fluidità del suo attacco e di costruire scatole cinesi ancora più efficaci. Considerando il lavoro fatto sui vari Jerebko e Olynyk (o Sullinger, adesso a Toronto), giocatori di qualità media resi elementi importanti, c’è di che essere entusiasti su quello che potrà fare con lui quest’anno.

La motion dei Celtics ― oltre ad essere apprezzata da molti allenatori ― è anche molto importante per la “sopravvivenza offensiva” di Boston e anche in questo Horford è un’aggiunta perfetta, dopo gli anni ad Atlanta sotto Budenholzer. Alzare il ritmo nelle passate stagioni era un dogma improrogabile per non ritrovarsi chiusi in spazi angusti nel gioco a metà campo, e questo concetto resterà sicuramente, nonostante sia chiaro che gli elementi più importanti della rotazione sono chiamati ad un salto di qualità.

I tempi sembrano maturi per tornare a pensare a Boston come ad una squadra importante quantomeno della Eastern Conference, ma cosa è lecito aspettarsi (realmente) dai Celtics del prossimo anno?

 

 

Il core non è più giovanissimo, se escludiamo Smart, Brown e Terry Rozier ― che ha chiesto i minuti di Evan Turner ed è chiamato a mostrare netti miglioramenti dopo una stagione da rookie così così ― e sembra pronto per lanciare la sfida definitiva, quantomeno all’Est. I Celtics sembrano una delle squadre più attrezzate: la scomparsa di Miami e forse Atlanta più le incertezze su altre franchigie (come Chicago, Indiana, New York) sembrano mettere Boston, assieme a Toronto, in seconda fila, alle spalle dei campioni in carica dei Cleveland Cavaliers.

Ma in una serie tra le due non è certo quanto i Celtics potrebbero fare meglio dei Raptors nella passata stagione, e anche in una (sempre ipotetica) semi-finale proprio contro Toronto i Celtics potrebbero non avere i favori del pronostico.

Possiamo comunque affermare con certezza che i Celtics hanno completato lo stadio di preparazione per ottenere il titolo di Pretender, e che non vorranno fermarsi qui. Nonostante l’età media non giochi a loro favore ― Horford per fare un esempio ha già 30 anni ― Boston non è ancora fuori tempo limite per avere possibilità sul lungo periodo. Centrare un risultato importante (come una finale di conference) già quest’anno darebbe fiducia e la convinzione che con questo progetto si può andare lontani.

I Raptors, per continuare il parallelo, hanno dovuto rinunciare ad un elemento fondamentale come Biyombo sull’altare del sacro salary cap. Per Boston questo problema non ci sarebbe, o comunque non in maniera così limitante.

Inoltre Boston ha in casa un mister X come Brown che rischia di far saltare il banco e non dimentichiamoci che i Celtics possiedono i diritti sulle prime scelte di mezza lega comprese le prossime due dei Nets, che rischiano di diventare anche prime scelte assolute.

Usarle per prendere il prossimo crack del basket NBA o per arrivare ad un altro free agent importante come Horford metterebbe Boston davvero nelle competizioni di tornare ad alzare il Larry O’Brien Trophy.

Il 3 giugno 1986 è già una data fortunata per i trifogli bianco-verdi. I tifosi si augurano che continui ad esserlo.

 

 

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