C’era una volta una squadra che costruiva le proprie vittorie ancor prima che sul campo, nella testa degli avversari.
C’era una volta una squadra avvolta da un tale alone di leggenda, una vera e propria aura di invincibilità, che batterla era un’impresa ben più improba di quanto le reali forze in gioco potessero dire.
C’era una volta una squadra che ha iniziato a vincere perché più forte e ha continuato a farlo anche quando sul campo non lo era più, perché gli avversari ne avevano paura, perché ne subivano il fascino, perché la locuzione “sudditanza psicologica” non è stata certamente inventata per i nostrani arbitri di calcio.

C’era una volta la famosa Mistica. C’era il Celtic Pride. C’era un sigaro che s’accendeva quando la partita era già vinta. C’erano le docce gelate, le finestre rotte, gli spogliatoi minuscoli, i rimbalzi irregolari, l’aria condizionata fuori uso, le maschere d’ossigeno, i ferri allentati.
C’era un folletto che viveva sotto il parquet, si issava fra gli stendardi, deviava malignamente i tiri a canestro degli avversari, accompagnava dolcemente quelli della squadra di casa. C’erano le incredibili palle rubate all’ultimo secondo, le stoppate impossibili, i tiri che entravano dopo parabole stranissime o quelli che improvvisamente parevano cambiare direzione. C’era la paura, netta e palpabile, di chi affrontava tutto ciò.

Signore e Signori, c’era una volta la squadra più gloriosa nella storia della NBA. C’erano gli invincibili Boston Celtics. Ma soprattutto c’era il suo immenso, inimitabile profeta. L’uomo che ha reso possibile tutto ciò. Il perno attorno a cui ruotava il perfetto meccanismo del team che ha instaurato la dinastia più vincente di sempre.

Il suo nome è William Felton Russell. Per gli amici semplicemente Bill. Per tutti il Signore degli Anelli. Tredici anni nella lega sportiva oggi più famosa al mondo. Undici titoli.

Ma chiariamo subito. Per non far apparire questo pezzo come l’agiografia di un cestista, per non far credere che stiamo dando il via a una serie di aneddoti leggendari e mitologici sul giocatore più vincente nella storia non solo della pallacanestro, ma dell’intero sport americano, enunciamo subito i suoi difetti.

Perché una cosa è certa, non era assolutamente un giocatore perfetto. Innanzitutto non era particolarmente alto né possente. Duecentootto centimetri per cento chili non sono tanti in assoluto per il ruolo, ma soprattutto se paragonati ai chili e ai centimetri del suo eterno avversario Wilt Chamberlain.

Non era un grande realizzatore. La sua media in carriera è di 15.1 punti a partita, con un massimo di 18.9 nel 1962. Tanto per dire, quello stesso anno il grande Wilt ne mise oltre 50 ad allacciata di scarpe.
Era piuttosto debole della lunetta e aveva un raggio di tiro limitato. La sua percentuale dal campo in carriera è modesta, circa il 44%. La maggior parte del punti li realizzava su rimbalzo offensivo o grazie alla velocità che gli permetteva di finalizzare molti dei celebri contropiedi dei Celtics.
Il suo gioco in post era efficace per via di un buon gancio sia destro che sinistro, ma per il resto la sua tecnica offensiva era piuttosto rozza e rudimentale. Ci son pochi dubbi sul fatto che avesse bisogno di compagni che segnassero per lui.

A parte questo ha letteralmente stravolto il gioco del basket. Ha rivoluzionato i suoi concetti, le sue tattiche, la sua psicologia. Ha insegnato al resto del mondo che per vincere era più importante subire un canestro in meno piuttosto che farne uno in più. E il resto del mondo lo ha ascoltato. Ha appreso. E da lì in avanti ha messo in pratica i suoi dettami.

Nella storia della pallacanestro moderna, nessuno – nemmeno George Mikan – è stato importante quanto lui. Ciò che il leggendario numero 6 bianco-verde ha rappresentato e ancora oggi rappresenta per il basket a livello mondiale è difficilmente quantificabile.
Russell ha dominato il gioco come mai nessun altro e lo ha fatto senza realizzare caterve di punti come Jordan o Chamberlain, ma semplicemente impedendo agli avversari di segnare. Intimidendoli con la sua sola presenza. Demolendoli mentalmente. Riducendoli ai minimi termini. Condizionando le loro scelte. Costringendoli a fare cose che in altri contesti non avrebbero mai pensato di poter fare.

La sua impareggiabile difesa, i rimbalzi catturati, le stoppate intelligenti con la palla sempre recuperata da qualche compagno se non da lui stesso, la falcata elegante, il carisma, l’intimidazione, la sicurezza che infondeva nei compagni, il senso di impotenza che al contrario instillava negli avversari, sono ancora oggi perle dal valore inestimabile nei settant’anni di storia della NBA.

E poi su tutto regnava la sua inestinguibile fame di vittorie. Una fame che aveva una ben precisa motivazione storica e che Russell non è mai riuscito veramente a placare. Vincere, sempre e comunque, è stata l’unica reale missione della sua vita.
Sarà lo stesso giocatore a volerlo ricordare: “Vincere è l’unica cosa che mi abbia mai interessato. I riconoscimenti individuali sono solo politica, ma vincere e perdere è la cosa più democratica che esista: solo numeri, o vinci o perdi.”

E Bill Russell in vita sua ha vinto. Ha vinto. E ha vinto. Più di tutti. Più di qualsiasi altro sportivo negli Stati Uniti d’America. Due titoli NCAA, una medaglia d’oro olimpica, undici titoli NBA.
Irripetibile. Nei secoli dei secoli.

William Felton Russell nacque a Monroe, in Louisiana, il 12 Febbraio del 1934. Un’infanzia difficile, una famiglia povera e soprattutto nera nel profondo sud degli Stati Uniti. Fattori che segneranno profondamente un carattere per nulla semplice.

Bill conobbe il razzismo più becero e crudele sin da piccolo. Non capiva, ma soprattutto non si rassegnava al dover essere considerato diverso.
Aveva cinque anni quando vide suo padre Charles avere un violento alterco con un bianco nella piazza centrale del paese per una questione di poco conto come la fila a un distributore di benzina. Charlie si vide puntare un fucile in pieno viso fra l’indifferenza generale e allora capì che sarebbe stato meglio raccogliere baracca e burattini e andare a cercare fortuna altrove. Trasferì la famiglia prima nel Michigan e successivamente nella baia di San Francisco, a Oakland.

Lì il razzismo non cessò di colpo, semplicemente assunse connotazioni diverse, meno violente, ma non per questo meno dolorose. Il giovane Bill continuò ad abbeverarsi all’amaro calice della discriminazione.
Tanti piccoli episodi che si insinueranno poco alla volta nel suo animo, scaveranno un solco profondo e lasceranno indelebili cicatrici sulla sua pelle scura.
Le fontane per soli bianchi, i bar e i ristoranti dove non poteva entrare, i sedili sul fondo dell’autobus, le occhiate, i mormorii e le parole della gente, quel ritornello che rimbombava nella sua testa, lo torturava: “Sei un bravo negro”, gli dicevano. Quasi fosse un complimento, una roba di cui andar fieri.

Enorme sarà l’influenza che tutto ciò avrà nella crescita del giovane Bill come uomo e come giocatore. Ne segnerà irrimediabilmente il carattere duro, ma non solo, acuirà la sua voglia di riscatto, di vincere, di imporsi sul resto del mondo. A costo di qualsiasi sacrificio.

La morte della giovane mamma quando aveva appena dodici anni, inasprirà poi la sua indole solitaria e per nulla accomodante. Bill crebbe quasi denutrito, con l’unica compagnia di suo padre e di suo fratello maggiore, Charlie Louis Jr., lo stesso che un giorno diverrà apprezzato scrittore e drammaturgo. Fu proprio il fratello a indirizzarlo verso gli sport e in particolar modo verso il basket.

Russell fece per la prima volta conoscenza con la palla a spicchi quando era già al secondo anno alla McClymonds High School. Aveva 15 anni, era alto 1.87 e pesava poco più di 50 chili. Oltre a essere magro come un chiodo, non era certamente un talento naturale, però aveva mani molto grandi e forniva prestazioni eccellenti nella corsa e nel salto in alto.

Il coach della squadra, George Powles, vide in lui materiale grezzo su cui lavorare. Lo convocò ai provini per entrare a far parte della squadra della scuola. Bill era ancora piuttosto lontano da standard di gioco quantomeno accettabili, ma riuscì comunque ad acciuffare l’ultimo posto a roster.

Per ringraziare l’allenatore che aveva creduto in lui, cominciò ad allenarsi duramente, ogni volta che poteva. Di notte e di giorno, quasi senza più fermarsi.
Alla lunga, lavoro e sacrificio pagarono. Bill migliorò in tutti gli aspetti del gioco, si irrobustì, raggiunse i due metri di altezza e gli 85 chili di peso. Divenne il centro titolare della squadra e presto si costruì in città un nome per il suo insolito modo di difendere.

Il giovane Russell non aveva infatti l’abitudine di rimanere con i piedi ben ancorati al parquet per contrastare con un sapiente lavoro di spalle e di gomiti gli avversari. Non poteva permetterselo, ossuto com’era.
La sua era una difesa che si basava sulla velocità. Si muoveva tanto, andava al raddoppio in aiuto dei compagni, tornava di gran carriera sul suo uomo, era pronto e reattivo, saltava come un grillo, stoppava, intimidiva, il tutto con un’esplosività fino ad allora inusuale per il ruolo. Era qualcosa di completamente nuovo nel mondo del basket, qualcosa che non si era mai visto prima.

Proprio grazie a questo gioco, durante gli ultimi due anni di High School, Bill condusse la sua squadra a due titoli consecutivi dello stato, ma l’evento che cambiò letteralmente la sua vita fu una partita che si disputò fra la McClymonds e la Oakland High School, il cui centro, Truman Bruce, era considerato di gran lunga il miglior giocatore della città.

Per l’occasione prese posto in tribuna Hal De Julio, scout dell’università di San Francisco, giunto appositamente per studiare Bruce e offrirgli una borsa di studio. Ma fra la sorpresa generale quella fu la grande serata di Bill Russell. Il futuro centro dei Celtics mise 14 punti, prese 19 rimbalzi, ridusse Bruce ai minimi termini, minando qualsiasi sua sicurezza, al punto da indurlo a chiedere il cambio e abbandonare la partita.

Nacque quel giorno il Bill Russell che in seguito l’intera America sportiva imparerà a conoscere. Un difensore cerebrale, un giocatore che riuscirà sempre a insinuarsi fra le pieghe psicologiche degli avversari, a insidiarne le certezze, indurli a sbagliare, ancor prima che con le proprie capacità tecniche e atletiche, con la sua semplice presenza sul terreno di gioco. Arriverà un tempo in cui si scriveranno veri e propri manuali sull’approccio psicologico di Russell alle partite e sul conseguente impatto sugli avversari.

Dal canto suo, De Julio rimase impressionato non solo dalle capacità difensive e atletiche di Bill, ma anche dalla sua naturale comprensione del gioco. Parlò di lui come di un giocatore dai “fondamentali atroci”, ma con un insolito istinto per il basket, soprattutto nel Clutch Time.

Arrivò l’inevitabile offerta per una borsa di studio alla University of San Francisco. Bill ci mise un po’ a realizzare cosa gli stesse capitando, alla fine accettò con l’entusiasmo di un bambino. Secondo il giornalista sportivo John Taylor quel momento fu uno spartiacque nella vita di Russell, perché il ragazzo si rese improvvisamente conto che il basket non era più un semplice sport, ma era la sua unica possibilità di sfuggire alla povertà e al razzismo imperante dell’epoca.

Da quel momento in poi Bill prese terribilmente sul serio il suo impegno nel gioco. La pallacanestro non sarà più intesa come svago, divertimento, né persino come lavoro. Vincere o perdere non sarà mai più semplice questione di titoli o di argenteria, sarà come vivere o morire. Imporsi, trionfare sulla miseria e sul razzismo dei bianchi o rimanerne irrimediabilmente sepolto, uscirne sconfitto, e non da una semplice partita ma dalla stessa vita.

Sarà proprio questo aspetto a fare di Bill Russell un giocatore unico, completamente diverso dal resto del mondo e soprattutto dal suo più grande amico e avversario, quel Wilt Chamberlain baciato sì da un talento e da qualità fisiche eccezionali, ma lontanissimo dalla concezione di gioco come rivalsa sociale che aveva Russell. E nell’eterno confronto fra i due, la fame di vittorie di uno avrà quasi sempre la meglio sul talento dell’altro.

“La sua volontà di vincere ha fatto la vera differenza” confermerà molto tempo dopo il grande Bob Cousy, compagno di squadra di Russell per sei stagioni ai Boston Celtics. “Bill non aveva complessivamente il talento di gente come Wilt o Kareem, ma con la sua intensità di gioco, con il suo istinto naturale per la vittoria, si è portato a un livello superiore rispetto a entrambi.”

Frattanto, durante il suo primo anno alla University of San Francisco, trascorso in panca come da regolamento dell’epoca, Bill crebbe ulteriormente fino ad arrivare ai definitivi 208 centimetri. Inoltre grazie a un intensivo lavoro in palestra mise sufficientemente massa muscolare senza comunque perdere in esplosività.

Coach Phil Woolpert non ci mise molto a comprendere di avere fra le sue mani un giocatore ancora grezzo ma ipoteticamente rivoluzionario. Sviluppò il gioco di USF appositamente nella propria metà campo in modo da poter esaltare le doti difensive di Russell e dare così il via a fulminanti contropiedi. Un tipo di gioco, questo, che poi sarà grosso modo ricalcato, seppur con un materiale umano e un talento a disposizione completamente diversi, anche da Red Auerbach nella NBA.

Nei suoi anni al college, Russell sfruttò appieno il gap fisico che pagava nei confronti dei pari-ruolo per perfezionare ulteriormente lo stile rivoluzionario della sua difesa. Non potendo competere muscolarmente, continuò a utilizzare al meglio la sua rapidità e la sua elevazione.

Combinando la statura di un centro, un innato senso della stoppata e la reattività e la velocità di piedi di una guardia, divenne ben presto un’arma impropria nel college basket. Era in grado di marcare indifferentemente giocatori di tre, persino quattro ruoli diversi, andare al raddoppio senza per questo far pagare dazio alla propria squadra, alzare un muro di fronte al proprio canestro e difenderlo da qualsiasi avversario.
Inoltre, pur con tutti i suoi limiti, offensivamente seppe conquistare tutti con l’eleganza e la velocità della sua corsa, con i suoi coast to coast che erano novità assoluta per il ruolo.

La sua sola presenza, come succederà parecchi anni dopo per Abdul-Jabbar, portò la NCAA a varare due nuove regole: l’ampliamento dell’area dei tre secondi e l’interferenza illegale sui tiri in parabola discendente. Provvedimenti che non servirono comunque ad arginare il dominio difensivo del giovane centro da Oakland.

Al suo esordio assoluto con la squadra titolare contro la University of California, Bill mise 23 punti, rifilò 13 stoppate, annullò completamente la front-line avversaria, mantenendola a 33 punti complessivi.

Successivamente, dopo una partita del 1956 al Madison Square Garden contro Holy Cross e contro la stella Tom Heinsohn, suo futuro compagno di squadra ai Celtics e all’epoca di gran lunga miglior realizzatore NCAA, il suo nome salì prepotentemente agli onori della cronaca nazionale.
Davanti a un pubblico d’eccezione, Russell oscurò completamente il quotato rivale, tenendolo per un intero tempo senza segnare. In quell’occasione Sport Illustrated sentenziò profeticamente: “Se impara anche ad attaccare il canestro, siamo di fronte a un giocatore destinato a riscrivere le regole del gioco.”

E dire che Bill non si dedicava solo al basket, ma riusciva a primeggiare anche nelle gare di atletica, dove si cimentava regolarmente nei 400 metri con tempi sull’ordine dei 49.6 secondi, e nelle gare di salto in alto con un record personale di 2 metri e 64 millimetri.

Tuttavia, nonostante gli eccellenti risultati sportivi, le cose non furono sempre facili né comode per il giovane centro e per la University of San Francisco. I Dons potevano contare infatti fra le proprie fila ben tre giocatori di colore, cosa che per l’epoca veniva vista come un vero e proprio affronto alla cultura dominante.

Russell e i suoi compagni di squadra afro-americani divennero oggetto di insulti e agguati di matrice razzista. Ma anche lì dove non si consumavano episodi di violenza fisica o verbale, la segregazione era egualmente servita. Nel 1954 un albergo di Oklahoma City rifiutò l’ingresso ai tre giocatori neri della squadra. In segno di protesta, tutti i componenti del team decisero di accamparsi in un fatiscente dormitorio del college.

Per riconoscenza verso i suoi compagni di squadra bianchi e per rivalsa verso l’imperante cultura discriminatoria, Russell aumentò ulteriormente il suo impegno in campo. Le vittorie divennero ancor di più l’unica forma di vendetta conosciuta.

Dirà lui stesso: “A quel tempo non era accettabile che un giocatore nero fosse migliore dei bianchi. Al mio terzo anno a USF ho avuto una delle migliori stagioni di sempre del college basket. Abbiamo vinto 28 partite su 29 e il campionato nazionale. Sono stato All-American e Most Outstanding Player delle Final Four. Ho tenuto una media di oltre 20 punti e 20 rimbalzi. Ero l’unico in grado di stoppare qualsiasi avversario. Al termine della stagione però hanno organizzato un banchetto per i migliori giocatori della stagione e hanno scelto un bianco come miglior centro della Northern California. All’inizio ci son rimasto male, poi ho maturato in piena consapevolezza una decisione. Non mi sarei mai più preoccupato dei riconoscimenti, della statistiche, dei record e dei risultati individuali. Le vittorie dovevano sempre venire prima di ogni altra cosa.”

E anche al college Bill Russell non mancò di vincere. Due titoli NCAA consecutivi, nel 1955 e nel 1956. Una media complessiva di 20 punti e 20 rimbalzi, una striscia di 55 vittorie consecutive, all’epoca record di sempre a livello collegiale, superato solo molti anni dopo dalla UCLA di Bill Walton.
Nella sua ultima gara con la maglia dei Dons, in finale contro Iowa, firmò una prestazione da 26 punti, 27 rimbalzi, 20 stoppate, 3 recuperi. Un dominio imbarazzante.

Al termine della sua esperienza universitaria, Abe Saperstein, ricchissimo e pallido proprietario degli Harlem Globetrotters, si recò appositamente a San Francisco per tentare di mettere sotto contratto l’ormai ambito centro. Ma l’ignaro Saperstein commise un grossolano errore. Si rifiutò di parlare con Russell, andando direttamente a interloquire da pari a pari con coach Woolpert. Cosa ancora peggiore, lasciò che il suo vice intrattenesse nell’attesa il giocatore con battute e discorsi di poco conto, come si conveniva con un “bravo ragazzo di colore” mentre i capaci uomini bianchi discutevano del suo futuro.

Al termine del colloquio il giovane ma orgoglioso Bill era livido di rabbia. A dispetto dei soldi che gli offrivano, non prese neanche in considerazione l’offerta dei Globetrotters e non esitò a spiegare pubblicamente che se Saperstein si riteneva troppo intelligente per parlare direttamente con lui, allora lui era troppo intelligente per giocare per Saperstein.
Quello stesso giorno e senza ulteriori ripensamenti, il giocatore si rese eleggibile per il draft NBA del 1956.

In un periodo in cui le attitudini difensive venivano giudicate secondarie e si preferiva premiare gli exploit offensivi, il GM e coach dei Boston Celtics, Red Auerbach, decise comunque di puntare tutto su Russell. Consapevole che i Rochester Royals non avevano la disponibilità economica per metterlo sotto contratto, orchestrò una trade con i St. Louis Hawks per assicurarsi i servigi del tanto agognato giocatore.

Così, il 30 aprile del 1956 con la prima chiamata assoluta i Royals scelsero Sihugo Green, una guardia divenuta in seguito piuttosto famosa appunto perché selezionata prima di Bill Russell, mentre con il pick numero due gli Hawks fecero il nome dell’ex centro di USF. Come da accordi, lo girarono ai Celtics in cambio di Ed Macauley e Cliff Hagan.

Russell firmò con Boston un contratto da 19.500 dollari, il più ricco di sempre per una matricola. Questo gli procurò qualche problema con la selezione statunitense che si apprestava a disputare le Olimpiadi di Melbourne. Bill non poteva infatti più essere considerato un dilettante e in teoria non avrebbe potuto partecipare ai Giochi Olimpici.
Il giocatore tenne duro, si disse persino disposto a saltare la sua prima annata in maglia Celtics pur di far parte della spedizione in terra australiana. Alla fine ebbe la meglio.

Con Russell capitano, gli Stati Uniti dominarono il torneo, vinsero otto partite su otto, rifilarono uno scarto medio agli avversari di 53.5 punti a partita, incluso un match con la Thailandia terminato sul 101 a 29. Bill segnò 14.1 punti a partita e fu persino miglior realizzatore della propria squadra.

I Giochi Olimpici si conclusero l’8 dicembre e solo allora Russell poté tornare in patria e unirsi ai Celtics.
Il centro titolare della squadra bianco-verde era Arnie Risen, vecchia gloria dei tempi eroici. Risen fu determinante per la crescita del giovane rookie: “Mi insegnò tutto. Come giocare, come comportarmi. Io imparavo. Ero una spugna, assimilavo tutto. E ogni volta che mi prendeva da parte per spiegarmi qualcosa, si rendeva conto che si stava avvicinando il momento in cui non avrebbe più giocato. Non lo dimenticherò mai.”

Nella sua prima stagione da professionista Russell ebbe qualche problema in attacco, dove ancora non aveva sviluppato movimenti idonei per il nuovo livello di gioco, ma rimediò ampiamente nella propria metà campo. E lo fece così bene che Auerbach non impiegò molto a decidere di stravolgere completamente gli schemi della squadra in modo da sfruttare al meglio le qualità del proprio centro.

Fino alla stagione precedente i Celtics erano stati un’inarrestabile macchina da canestri, trascinati da realizzatori puri come Bob Cousy e Bill Sharman, pagando però fortemente a rimbalzo e in difesa. Di lì a breve sarebbe cambiato tutto.

Con l’innesto di Russell, la difesa dei Celtics divenne rocciosa, aggressiva, quasi avvilente per gli avversari. Fu ben presto celebre negli ambienti con l’ironico nome di “Difesa Hey, Bill”. Erano infatti queste le parole che urlavano i giocatori di Boston ogni qualvolta avevano bisogno di un raddoppio difensivo. Russell era rapidissimo a correre in aiuto dei compagni per poi tornare indietro sul proprio uomo, esprimendo soprattutto nei primi anni di carriera una velocità, un’elasticità, scelte di tempo e capacità di anticipo che restano ancora oggi inarrivabili e non sono mai più state viste tutte insieme in un unico giocatore.

Boston chiuse la stagione con 44 vittorie, all’epoca il secondo miglior record nella storia della franchigia. Russell terminò con 14.7 punti e 19.6 rimbalzi in 48 partite. Non vinse il premio di rookie dell’anno, preceduto dal suo compagno di squadra Tom Heinsohn, lo stesso che Bill aveva affrontato e annullato ai tempi del college.
Inizialmente il giovane centro addebitò la decisione della lega al fatto che Heinsohn fosse bianco, più probabilmente però il mancato premio era dovuto alla stagione ridotta che Bill aveva disputato per via delle Olimpiadi.

A ogni modo in post-season fu lui a guidare la squadra alla vittoria finale. Al suo esordio nei playoff contro i Syracuse Nationals del grande Dolph Schayes, mise insieme 16 punti, 31 rimbalzi, 7 stoppate.
Trascinati da Russell, i Celtics approdarono alla prima finale NBA della loro storia. Avversari, i più esperti St. Louis Hawks di Bob Pettit, all’epoca ritenuto il miglior giocatore del circuito. Fu una serie estremamente tesa.

In gara tre, Auerbach arrivò a colpire con un pugno il suo collega Ben Kerner e ricevette una multa di 300 dollari dalla lega. La sfida si protrasse fino a una drammatica e infinita gara 7. Pettit mise 39 punti, dall’altra parte Heinsohn scrisse 37, ma fu Russell a compiere la giocata decisiva, quella che passerà alla storia come “Coleman Play” e sarà ricordata come una delle migliori azioni difensive di tutti i tempi.

A 40 secondi dalla sirena, con i Celtics avanti di uno, gli Hawks recuperarono palla nella propria area e diedero il via a un veloce contropiede. La guardia Jack Coleman venne quindi lanciata a canestro da un assist da metà campo. Nel momento in cui era iniziata l’azione, Russell si trovava sotto il canestro avversario.
Nel momento in cui era partito l’ultimo passaggio, stava già percorrendo tutto il campo a larghe falcate. Coleman ricevette palla e si alzò per un facile layup. Russell arrivò come un fulmine alle sue spalle a stoppare il tiro della vittoria per gli Hawks, quello che avrebbe consegnato loro l’anello.

“Blocked by Russell! Blocked by Russell! He came from nowhere!” urlò il solito Johnny Most, lo storico radiocronista dei Celtics.
Molto tempo dopo Cousy definì quell’azione: “The most incredible physical act I’ve ever seen on a basketball floor.”

Boston alla fine si impose dopo due tempi supplementari per 125 a 123. Era il primo titolo per la squadra del Massachusetts, il primo di una lunghissima serie.

La stagione successiva, la prima completa per Russell, i Celtics perfezionarono ulteriormente il proprio gioco fatto di veloci e letali contropiedi.
L’azione tipica della squadra prevedeva un rimbalzo difensivo o una stoppata di Russell, palla nelle mani dell’esperto playmaker Cousy che faceva partire l’azione. A quel punto le soluzioni per i bianco-verdi erano pressoché infinite. Cousy e Sharman erano abilissimi nel concludere in prima persona. Heinsohn era un realizzatore puro e lo stesso Russell era estremamente veloce nell’attraversare il campo con la sua solita ampia ed elegantissima falcata e farsi trovare pronto per una conclusione ravvicinata.

Fu proprio in quegli anni che venne a crearsi il primo vero grande asse play-centro nella storia della lega. Cousy e Russell rappresentano tuttora una delle combo più forti mai viste su un campo da basket.

I due, sebbene molto diversi, troveranno il modo di instaurare una profonda intesa anche fuori dal campo. Parleranno sempre molto poco, ma la loro sarà un’amicizia che avrà bisogno di pochissimi convenevoli e che ancora oggi, a distanza di sessantuno anni dal primo incontro, appare solida e per certi versi confortante.

Frattanto Russell chiuse la sua seconda annata nella lega con 16.6 punti a partita e 22.7 rimbalzi. Quella fu la prima di dieci stagioni consecutive in cui il giocatore non sarebbe mai sceso sotto la soglia delle venti carambole di media. Conquistò il suo primo premio di MVP di Regular Season e condusse i Celtics nuovamente alle finali NBA, ancora contro i St. Louis Hawks. Ma questa volta le cose andarono diversamente.

In gara 3, sul risultato di uno a uno, Bill si infortunò a un piede e fu costretto ad abbandonare la partita. Saltò i successivi due match e gli Hawks ne approfittarono per portarsi sul 3 a 2 nella serie. Il centro dei Celtics tornò in campo per gara 6, ma dopo poco dovette abdicare definitivamente non riuscendo più neanche a poggiare il piede per terra. Bob Pettit salì in cattedra, realizzò 50 punti e trascinò i suoi sul tetto del mondo.

Secondo molti addetti ai lavori, senza l’infortunio di Russell, Boston non avrebbe mai perso quel titolo, eppure Auerbach rifiutò di accampare scuse e fu il primo a rendere omaggio all’eccezionale prestazione degli avversari.
Da quel giorno, però, e per i successivi otto anni nessun’altra squadra che non fossero i Boston Celtics sarebbe più riuscita a vincere il titolo. Da lì in avanti sarebbe stata una lunghissima sinfonia bianco-verde cui nessuno, nemmeno giocatori eccezionali come Chamberlain, Robertson, West e Baylor, sarebbero riusciti a porre un freno.

La stagione seguente Boston vinse 52 partite. Ci fu la prima finale della storia contro i Lakers. I giallo-viola, ancora di stanza a Minneapolis, erano guidati da una fenomenale guardia-ala, il rookie Elgin Baylor, da molti già definito il miglior giocatore del pianeta.

Stuzzicato dal confronto a distanza, Russell elevò vertiginosamente il livello del suo gioco, ossia il proprio livello difensivo. Boston si impose per quattro a partite a zero in una serie che non ebbe mai storia e in cui Bill non raggiunse neanche i 10 punti a partita, ma raccolse oltre 29 rimbalzi di media, tuttora record di sempre per una serie finale.

Al termine di gara 4, l’allenatore dei Lakers, John Kundla, lo stesso che aveva portato Mikan sul tetto del mondo, si spinse fino a dichiarare: “Non abbiamo perso contro i Celtics, abbiamo perso contro Russell. Ci ha battuto psicologicamente, ha frustrato ogni nostro tentativo.”

Neanche il tempo di archiviare quel nuovo successo e arrivò la stagione che avrebbe trasportato l’intera NBA nei meravigliosi anni ’60 e con essa fece il suo ingresso nella lega, vestendo la maglia dei Philadelphia Warriors, colui che sarà il più grande avversario di Bill Russell. Il suo più grande amico.
Il suo nome era Wilt Chamberlain, 216 centimetri per 125 chili di puro talento cestistico e atletico. Wilt era un realizzatore straordinario, la più grande macchina da canestri nella storia del basket. Un colosso di fronte al quale tutti gli avversari affrontati fino a quel momento erano stati spazzati via.

Dire che ci fosse curiosità fra appassionati e addetti ai lavori sul confronto fra il magnifico realizzatore Chamberlain e il superbo difensore Russell, è finanche riduttivo, eppure nessuno poteva immaginare che stava nascendo la più grande rivalità nella storia della NBA. Una rivalità decennale che non si è affatto conclusa con il ritiro di Russell nel 1969 e neanche con la morte di Chamberlain nel 1999, ma ha continuato e continua tuttora a vivere nel cuore e nella mente degli appassionati.

La prima volta che Bill e Wilt incrociarono i guantoni fu il 7 Novembre del 1959.
“The Big Collision”, “Battle of the Titans” si divertirono a scrivere i giornali. Poi fu palla a due. Chamberlain vinse il confronto diretto, 30 punti contro i 22 dell’avversario, ma Boston vinse la partita per 115 a 106.
Andrà quasi sempre così. Wilt metterà numeri incredibili, spesso anche contro Russell, vincerà i duelli personali sul piano numerico. Bill invece vincerà le partite.

Si può discutere ancora a lungo, ed effettivamente lo si è fatto, su chi sia da ritenere più grande fra i due e si può tranquillamente farlo senza mai venirne a capo. Chamberlain ovviamente ha sempre tirato acqua al proprio mulino.
“La sua carriera è stata facilitata” disse una volta di Russell. “Non si è mai dovuto preoccupare di segnare molti punti, perché c’era chi lo faceva per lui. Mi sarebbe piaciuto giocare a Boston e avrei voluto vedere Bill giocare in una squadra che oltre ai suoi rimbalzi aveva disperatamente bisogno dei suoi punti. Forse le cose sarebbe andate diversamente per me e per lui.”

Ma sebbene ci sia più di un fondo di verità in queste parole, sarebbe ingiusto imputare l’enorme differenza di titoli fra i due solo alle diverse capacità dei rispettivi compagni di squadra. Perché arriverà il giorno in cui sarà Wilt ad avere la squadra più forte, come ad esempio nel 1969, ma sarà comunque Bill a portare a casa vittoria e titolo.

Chamberlain è stato grande, grandissimo, immenso. Sicuramente un giocatore migliore di Russell sotto molti aspetti. Ma Wilt giocava per Wilt, Bill giocava per vincere. Aveva dentro di sé qualcosa che il suo eterno rivale non ha mai lontanamente posseduto: l’innata capacità di sacrificarsi per il bene della squadra, di migliorare i compagni, di elevare il loro livello finanche a scapito del proprio pur di raggiungere l’obbiettivo comune.

Esplicativo, a questo proposito, ciò che una volta disse Don Nelson, ex compagno di squadra di Russell e futuro coach e GM dei Dallas Mavericks, un uomo che ha trascorso quasi sessant’anni di vita nel pianeta NBA:
“Ci sono due tipi di superstar. Una che tende a far apparire se stesso migliore a scapito degli altri giocatori in campo. L’altra che invece fa di tutto per rendere migliori i ragazzi che giocano con lui. E a questa categoria appartiene Bill Russell”.

Manco a dirlo, nelle finali di Division di quello stesso anno, arrivò la prima sfida di playoff fra i due grandi avversari e Boston si impose per 4 partite a 2. Volò verso la finale, ancora contro gli Hawks. E poi verso il titolo. Il secondo consecutivo, il terzo in quattro anni.

Da più parti iniziò a circolare il termine “dinastia”, una parola che non veniva utilizzata nella lega dai tempi di George Mikan. Le squadre avversarie cominciarono a cercare contromisure per far fronte al gioco dei Celtics, andando però spesso incontro a risultati disastrosi. Provarono un maggior utilizzo del tiro dalla distanza per evitare di dover affrontare Russell sotto canestro, ma non ottennero altro che vedere calare vistosamente le loro percentuali dal campo.

Frattanto i meccanismi difensivi dei Celtics si andavano affinando sempre più fino a raggiungere una perfezione quasi chirurgica. Gli esterni di Boston cominciarono a difendere in maniera estremamente aggressiva sia sul portatore di palla, sia sulle linee di passaggio cercando costantemente l’anticipo, comunque consci che a coprir loro le spalle ci fosse Russell. E quando non riuscivano a limitare gli avversari, tendevano a incanalarli verso la fetta di campo presidiata dal loro centro.

La presenza di Bill sotto canestro divenne così ingombrante che tutte le squadre dovettero in un modo o nell’altro stravolgere il proprio modo di giocare per farne fronte.
Persino Chamberlain, uno che fra le altre cose era dotato di un ego spropositato, si ritrovò con sommo disappunto a dover cambiare il proprio approccio alle partite quando affrontava i Celtics. Era sempre stato abituato a ricevere palla, girarsi, attaccare il canestro, schiacciare, travolgendo tutto e tutti. Adesso non più. Contro Russell doveva ricevere palla, girarsi, fintare, rigirarsi, fintare di nuovo e forse solo allora permettersi di andare a canestro. Era consapevole che Bill poteva arrivare lì dove nessun altro avversario si sarebbe mai potuto avvicinare e questo innervosiva palesemente il colosso in maglia Warriors.

Nei tre anni successivi arrivarono altri tre titoli per i Celtics e tre trofei consecutivi di MVP di Regular Season per Bill Russell. Curiosamente, a dispetto del riconoscimento di miglior giocatore in stagione, in due di queste tre annate Bill figurò solo nel secondo quintetto di lega, lasciando lo spot di centro del primo quintetto proprio a Chamberlain.

Era questo un aspetto molto interessante e che spiegava alla perfezione quello che ormai era noto negli ambienti come il fenomeno Russell. Vale a dire un giocatore che non era il migliore nel suo ruolo, ma complessivamente era di gran lunga quello con il maggior impatto per la propria squadra e dunque con il maggior valore.
Wilt veniva giudicato il miglior centro della lega, in grado dunque di meritare il primo quintetto, ma né lui, né nessun altro poteva essere considerato più prezioso per la propria squadra di quanto lo fosse Bill Russell per i suoi Celtics.

L’esempio più lampante lo si ebbe nella stagione 1961-62, quando Russell condusse i suoi Celtics a un record di 60 vittorie e al primo posto nella lega, mentre Chamberlain viaggiò alle stratosferiche medie di 50.4 punti e 25.7 rimbalzi a partita. A dispetto dei numeri e delle statistiche, fu appunto Bill a essere eletto MVP di Regular Season. Dal canto suo Wilt si dovette accontentare del primo quintetto di lega.

Quell’anno i Warriors e i Celtics ingaggiarono uno dei loro soliti duelli nella finale della Eastern Division. Da un lato una squadra che puntava tutto sulle impareggiabili qualità offensive del proprio leader all’apice di una verve realizzativa senza eguali nella storia di questo sport, dall’altro la pluridecorata Boston che non aveva un uomo fra i primi 10 realizzatori della lega, ma poteva fare affidamento sulla superba difesa di Russell. Tanto per cambiare, il confronto si decise solo alla settima partita con una vittoria di misura dei Celtics per  109 a 107.

Boston raggiunse in finale i Lakers per una nuova, autentica e appassionante battaglia.
Fu la celebre finale del 1962, la prima da quando i giallo-viola si erano trasferiti a Los Angeles. La serie dei 61 punti di Baylor in gara 5, della grande impresa di Boston in gara 6. Di un’ennesima gara 7 in cui Los Angeles ebbe la palla della vittoria, la sbagliò, Russell strappò – forse fallosamente – il rimbalzo dalle mani di Baylor, mandando la partita al supplementare.

Alla fine i Celtics riuscirono a imporsi per 110 a 107. Bill chiuse con l’impressionante score di trenta punti, quaranta rimbalzi e la conquista del quarto anello consecutivo.
Era la sua quinta gara 7 in carriera. La sua quinta vittoria. E non sarebbe di certo finita qui.

Al termine della partita, l’ormai trentaquattrenne Bob Cousy annunciò che la successiva sarebbe stata la sua ultima stagione nella lega. In molti si affrettarono a recitare orazioni funebri per una dinastia che finalmente era giunta al capolinea.
“I Boston Celtics sono una squadra vecchia, nelle cui vene varicose scorre ormai solo sangue stanco” scrisse Sport Illustrated, divertendosi a designare i successori al trono dei bianco-verdi. Non sarebbe proprio andata così.

Al draft di quello stesso anno arrivò il grande John Havlicek che tanta parte avrà nelle successive fortune dei Celtics. Sam Jones conquistò minuti e responsabilità, mentre il suo omonimo K.C. Jones si rivelò quasi all’altezza del suo predecessore e in grado di non far pesare l’assenza del grande Bob Cousy.

Ciò che più in generale apparve evidente dopo il ritiro di Sharman nel ’61, quello di Cousy nel ’63 e quello successivo di Heinsohn del ’65, fu che non erano tanto i pur grandi singoli interpreti a fare le fortune di Boston, quanto un sistema di gioco che ruotava perfettamente attorno alla figura centrale di Russell.
Molti dei giocatori che iniziarono quella irripetibile dinastia finirono, nel corso degli anni, per essere sostituiti da altri, eppure i risultati non mutarono di una virgola. Almeno finché Bill Russell non decise lui stesso di appendere le scarpe al chiodo.

Non è un caso infatti se le due strisce negative più lunghe di quegli invincibili Celtics avvennero entrambe in due momenti in cui Russell risultò infortunato. Fra il 24 e il 28 gennaio del 1962, il centro saltò quattro partite che Boston perse tutte, compreso una doppia sfida contro i Warriors in cui Chamberlain scrisse rispettivamente 50 e 53 punti. Diversi anni dopo fra il 1 e il 7 febbraio del 1969, un ormai anziano Russell giocò malconcio due gare, quindi saltò le successive tre. La squadra andò 0 su 5 e dovette aspettare il rientro del proprio leader carismatico per tornare alla vittoria.

Risulta a questo punto facile capire perché Bill è stato davvero in assoluto il giocatore  con il maggior valore per la propria squadra, incarnando dentro di sé la definizione stessa e più pura del termine Most Valuable Player. E risulta altrettanto facile capire perché, dopo il quinto titolo, quello del 1963 in finale ancora contro i Lakers e il successivo ritiro di Cousy, i Celtics continuarono a vincere indisturbati. Arrivarono altri tre anelli consecutivi e forse anche gli anni del loro miglior basket.

I Warriors si erano frattanto trasferiti sull’altra costa, a San Francisco, e fu così che nel 1964, per la prima volta, Russell e Chamberlain, si affrontarono in una finale NBA. Peccato che non ci fu quasi confronto. Vinse ancora Boston in cinque secche partite.

Proprio al termine di quella stagione, la nazionale statunitense decise di organizzare una serie di gare d’esibizione utilizzando i professionisti della NBA e non giocatori dal bassissimo profilo com’era successo ai recenti mondiali di Rio de Janeiro.
La squadra venne affidata alle cure di Red Auerbach e comprendeva giocatori del calibro di Bill Russel, K.C. Jones, Oscar Robertson, Jerry Lucas, un già ritirato Bob Cousy. Distrusse ovviamente ogni sorta di concorrenza, ma prima di un match contro la temibile Jugoslavia, Auerbach prese da parte Russell.
“Lo vedi quel biondino?” gli chiese. “È il loro migliore giocatore. Dovrai marcarlo e se segna più di un punto, te la vedrai con me.”

Il biondino si chiamava Radivoj Korac. Era un’inarrestabile macchina da canestri. Al mondiale di Rio dell’anno precedente aveva segnato valanghe di punti. In una partita di Coppa Campioni di qualche mese dopo arriverà a scrivere 99 punti sul proprio tabellino. Non era un centro, ma un’ala, era molto più piccolo di Russell e con la sua rapidità avrebbe potuto metterlo in difficoltà.

Bill accettò silenziosamente la sfida. Si mise sul suo uomo, spedì in tribuna le prime sei conclusioni di Korac, poi venne richiamato in panchina. Aveva già vinto la sua sfida e per Auerbach tanto bastava. Senza più Russell, Korac chiuse la partita con 20 punti, ma gli Stati Uniti trionfarono di cinquanta.

Rientrati in patria, ebbe inizio la stagione 1964-65. Nel corso della season, i San Francisco Warriors si ritrovarono in gravi difficoltà economiche e durante la pausa dell’All-Star Weekend dovettero cedere il loro pezzo più pregiato. Chamberlain ritornò così nella sua Philadelphia, stavolta alla corte dei Sixers.

Frattanto i Celtics vinsero 62 partite e Russell conquistò il suo quinto e ultimo trofeo di MVP di Regular Season. Come da copione in finale di Conference si trovò ancora una volta davanti l’amico e rivale di sempre.
Fu una serie altalenante ed estremamente combattuta. In gara 3 Bill riuscì a compiere un autentico miracolo, mantenendo l’avversario a solo due canestri dal campo nei primi tre quarti di gioco. Chamberlain si rifece in gara 4 con 34 punti, ma in gara 5 fu Russell a mettere insieme 12 punti, 28 rimbalzi, 10 stoppate, 7 assist e 6 recuperi.

La serie arrivò fino alla drammatica gara 7, quella dell’ultimo possesso dei Sixers, dell’incredibile recupero di Havlicek e del celebre urlo rauco di Johnny Most. Ancora una volta furono i Celtics a trionfare. Ancora una volta sul filo del rasoio per 110 a 109, quando ormai sembrava non ci fosse più speranza per loro.
Un esausto Dolph Schayes, divenuto coach dei Sixers, a fine partita sbottò esasperato: “I Celtics devono solo ringraziare il buon Dio per avere Bill Russell.”

Quella sconfitta fu forse la più sofferta e frustrante per Chamberlain, quella che con ogni probabilità diede il via al profondo cambiamento che avvenne nel suo gioco a partire dall’anno seguente, un cambiamento che lo porterà finalmente a mettere da parte le tanto adorate statistiche per avvicinarsi alla concezione di pallacanestro del suo amico Russell.

La stessa estate, il colosso di Philadelphia rinegoziò il proprio contratto con i Sixers e firmò alla faraonica cifra di 100.000 dollari annui. Era il primo giocatore nella storia a sfondare la soglia dei cinque zeri.
Quando Russell lo venne a sapere, andò a bussare alla porta di Auerbach.
“Quanto vorresti?” gli chiese Red che probabilmente si aspettava quella visita.
“Centomila e uno” rispose prontamente Bill.
Auerbach sorrise e Russell firmò esattamente per la cifra chiesta: 100.001 dollari all’anno.

Mai soldi furono spesi meglio perché l’anno successivo arrivò l’ottavo titolo consecutivo dei Celtics, l’ultimo della storica striscia vincente, l’ultimo anche con Auerbach come allenatore. Il leggendario coach annunciò infatti il suo definitivo passaggio dalla panchina alla scrivania, preferendo dedicarsi esclusivamente al ruolo di GM.

Propose il posto da allenatore dapprima a tre ex Celtics, come da tradizione. Erano Ramsey, Cousy e Heinsohn. Nessuno di loro si sentì però in grado di gestire l’ingombrante figura dell’ex compagno di squadra, Russell. Fu proprio Heinsohn a proporre ad Auerbach di scegliere l’ormai trentaduenne Bill come allenatore-giocatore.

Non era una scelta facile perché Russell sarebbe divenuto il primo afro-americano a sedersi su una panchina NBA, rompendo così un tabù che durava da anni, oltretutto in un momento storico molto delicato per quanto riguardava la questione razziale e in una città come Boston con cui il rapporto del giocatore era stato talvolta conflittuale.

Russell infatti non aveva mai fatto sconti a nessuno, tanto meno ai suoi tifosi. Era duro come il granito e questo gli aveva spesso procurato dei problemi.
Quando da rookie aveva avuto forti difficoltà a trovare casa nei quartieri di Boston a prevalenza bianca, non si era fatto certo pregare per far sapere ad abitanti e città cosa pensasse di loro. In seguito aveva fatto scalpore il suo rifiuto a scendere in campo per una partita di esibizione in Kentucky dopo gli era stato proibito l’ingresso in un ristorante.

Col tempo Bill si era creato una specie di corazza per proteggersi dal razzismo più o meno strisciante. Rifiutava di firmare autografi, di avere un rapporto diretto con i tifosi, rifiutava qualsiasi identificazione con la città di Boston, preferendo identificarsi solo con la franchigia, con i suoi amatissimi Celtics.

Divenne un fervente attivista per i diritti civili, impegnandosi ed esponendosi in prima persona. Partecipò alla Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà promossa da Martin Luther King, ma rifiutò un posto vicino al palco, perché non condivideva completamente le idee del pastore di Atlanta.
Si avvicinò in seguito al Black Power, il movimento fondato da Stokely Carmichael, e questo gli procurò il tagliente nomignolo di Felton X.

Quando si trattò di dover scegliere il nuovo allenatore, Auerbach sapeva tutto ciò. Sapeva del carattere fiero e ostile di Russell, ma anche della mentalità di una città come Boston. Eppure non esitò un attimo. Perché sapeva anche che quella era la scelta giusta.

Bill accettò l’incarico ma, come da suo costume, non mancò di puntualizzare davanti ai microfoni della stampa: “Non mi è stato offerto il lavoro perché sono un negro in un momento storico molto particolare, mi è stato offerto perché Red ha pensato che sarei stato in grado di farlo.”

Russell divenne così il primo coach afro-americano nella storia della NBA e più in generale di un qualsiasi team professionistico dello sport statunitense.
Eppure paradossalmente, il giocatore più vincente di sempre, dopo una striscia di otto titoli consecutivi, perse il suo primo anello da allenatore della squadra.

Correva la stagione 1966-67 e quella finalmente fu la magica annata di Chamberlain che fece incetta di premi individuali e di squadra. Wilt condusse i suoi Sixers a vincere 68 partita in Regular Season, all’epoca record All Time, e poi all’ormai solita finale di Conference contro i Celtics. Per la prima volta Chamberlain giocò da Russell, antepose il risultato di squadra ai numeri personali. E Philadelphia oscurò Boston in cinque gare.

Nonostante la sconfitta, nonostante avesse perso la prima vera serie di playoff della sua vita, nonostante avesse sin da subito fallito l’appuntamento con il titolo in qualità di allenatore, Russell non esitò ad entrare nello spogliatoio dei Sixers e congratularsi con il grande amico di sempre.

Boston tornò comunque sul tetto del mondo l’anno successivo. Bill ormai viaggiava verso le 34 primavere, chiaramente non era più il giocatore esplosivo dei bei tempi. Ma l’impatto psicologico che aveva sulle partite, la paura che incuteva negli avversari, il carisma con cui sapeva guidare i suoi, continuavano a essere inalterati e a mietere vittime eccellenti.

Nei playoff ci fu la solita cruenta battaglia contro Philadelphia e contro Wilt.
I Sixers si portarono addirittura avanti per 3 a 1 nella serie. Sembrava quasi che i Celtics stessero per salutare in anticipo la post-season per il secondo anno consecutivo. Sarebbe stato l’epilogo definitivo della dinastia.
E invece risorsero dalle proprie ceneri. Rimontarono sul tre pari. Portarono la serie a gara 7. La vinsero. Arrivarono all’ennesima finale. Strapazzarono i soliti Lakers. Conquistarono il decimo titolo.
Non c’era nulla da fare, avevano decisamente mille e più vite.

Arrivò infine la stagione 1968-69, l’ultima per Bill Russell. Sicuramente la più difficile, ma forse anche la più gratificante.

Chamberlain aveva appena salutato Philadelphia per approdare alla corte dei Lakers in una squadra dal talento spaventoso. Trovava come compagni di giocate Jerry West ed Elgin Baylor. L’arrivo di Wilt sembrava essere il tassello che era sempre mancato a una squadra già forte di per sé per diventare un’autentica corazzata difficilmente contenibile.

Dal canto loro i Celtics iniziarono la stagione avvolti da un alone di scetticismo. Erano da tutti considerati troppo vecchi e logori, e il titolo dell’anno prima era già stato celebrato come il canto del cigno di una squadra e di un ciclo irripetibile.
Inoltre l’ormai trentacinquenne Russell ruppe definitivamente i rapporti con la città in cui giocava e viveva. Al ritorno da una lunga trasferta sulla costa occidentale, trovò infatti la sua abitazione messa a soqquadro da un raid vandalico a sfondo razzista. Un episodio che lo portò a definire Boston “un mercatino delle pulci del razzismo”. Si venne a creare così un profondo solco fra lui e la città, un solco che verrà colmato solamente molti anni dopo.

I Celtics condussero la stagione in costante affanno, chiudendo con un bilancio di 48 vittorie, 34 sconfitte e il quarto posto nella Eastern Conference. In post-season riuscirono a far la voce grossa contro una spaesata Philadelphia, priva di Chamberlain, e contro dei giovani e talentuosissimi Knicks che tuttavia non ressero il confronto con l’esperienza e il carisma di Russell e compagni.

La finale però era tutta un’altra cosa. Era contro Los Angeles, contro Chamberlain, contro West, contro Baylor, tutti decisi come non mai a porre fine a una dittatura senza eguali.
Dirà in seguito Jerry West: “La maggior parte degli anni precedenti loro erano più forti di noi, ma nel ’69 non erano assolutamente migliori. Period. Noi eravamo migliori. Period. E non abbiamo vinto. E quella fu la sconfitta più frustrante.”

I Lakers vinsero le prime due partite casalinghe e la serie come da pronostico parve già segnata. Ci si spostò a Boston. Forse l’errore dei giallo-viola fu quello di non credere in gara 3, considerarla naturalmente persa per un normale rigurgito dello smisurato orgoglio celtico e puntare tutto sul quarto incontro . Ma con somma sorpresa, Los Angeles uscì sconfitta non solo da gara 3 ma anche che da una tiratissima gara 4 per 89 a 88.

Si tornò al Forum. In gara 5 i Lakers comandarono fin dalla palla a due. Chamberlain stravinse il duello a rimbalzo contro Russell per 31 a 13. West mise 39 punti, ma rimediò uno strappo alla coscia.
Al Boston Garden per la sesta partita, West si presentò imbottito di novocaina. Siglò 26 punti, ma furono i Celtics a imporsi per 99 a 90.

La decisiva gara 7 era però al Forum di Los Angeles, dove i Lakers si erano dimostrati pressoché imbattibili e i Celtics vi avevano perso tre volte su tre nella serie. In più Boston era apparsa più volte stanca e le vittorie casalinghe erano giunte più per limiti, demeriti ed anche un po’ di sfortuna degli avversari che per meriti propri. Tutto lasciava pensare a una settima partita decisamente a senso unico.

I Lakers prepararono un vademecum per le celebrazioni post-vittoria. I progetti per i festeggiamenti di un titolo che mancava dai tempi di Mikan e che a Los Angeles non era mai arrivato, assorbirono tutte le energie della dirigenza. Il proprietario della franchigia, Jack Kent Cooke, ordinò migliaia di palloncini colorati e li fece appendere sul soffitto del Forum. Quei palloncini avrebbero dovuto invadere il terreno di gioco non appena il suono della sirena avesse sancito il trionfo giallo-viola.

Quando quel lunedì 5 maggio del 1969, giorno di gara 7, i giocatori fecero ingresso sul terreno di gioco, si narra che le reazioni degli uomini simbolo delle due squadre alla vista dei palloncini colorati, furono contrastanti.
Russell sorrise e con la sua solita flemma, bisbigliò: “Glieli ricacceremo uno a uno nel culo!”
Jerry West invece andò su tutte le furie. Conosceva bene i Celtics verso cui nutriva profondo rispetto e quasi timore. Pensava che quei palloncini potessero rappresentare la motivazione estrema che cercavano e che, dopo anni e anni di incontrastate vittorie, sembravano aver smarrito.

Inutile dire che fu esattamente ciò che avvenne. I primi 8 tiri su 10 dei Celtics si tramutarono in altrettanti canestri per un parziale iniziale di 24 a 12. Arrivò l’ovvia rimonta dei Lakers. A 5 primi e 45 secondi dal termine però Chamberlain si infortunò a una gamba. Sebbene le sue condizioni non sembrassero gravi, chiese di uscire dal campo.

Il coach dei Lakers, Van Breda Kolff, con profondo disappunto fu costretto a mandare sul terreno di gioco il centro di riserva Mel Counts. Quasi per ripicca decise quindi arbitrariamente di mantenere Chamberlain fuori dai giochi fino alla fine del match.

I Lakers ebbero comunque più volte nell’ultimo minuto la possibilità di sorpassare i Celtics ma Don Nelson mise il jump della vittoria, un tiro che dopo essere rimbalzato sul ferro assunse una parabola altissima per poi scendere verso il canestro.

Infine Russell, a pochi secondi dalla sirena, stoppò proprio Mel Counts che andava a canestro. Fu l’ultima azione della sua immensa carriera. E non poteva che essere una stoppata. Decisiva. La giocata che consegnò l’undicesimo anello in tredici anni a lui e ai suoi meravigliosi Boston Celtics. Quella che lasciò i palloncini colorati a penzolare inermi dal soffitto del Forum di Los Angeles.

Si era appena conclusa la decima gara 7 disputata da Russell in carriera. Dieci partite senza ritorno, senza alcuna possibilità di appello, le cosiddette must win games. Dieci gare che il leggendario centro vinse inesorabilmente. Tutte. Dieci su dieci. Nessuna sconfitta. A una media di 18 punti e 29.5 rimbalzi.
La magia, la leggenda, il folletto benigno che viveva sotto il parquet del Boston Garden, altri non erano che la sua incapacità di perdere. Un’incapacità scolpita a caratteri cubitali nel grande libro dei numeri mai come in questo caso altamente esplicativi.

Qualche giorno dopo Bill annunciò al mondo il ritiro dall’attività agonistica. Si dimise anche da allenatore. Il tutto senza preavviso, senza alcuna conferenza stampa. Chiuse alle medie di 15.1 punti, 22.5 rimbalzi, circa una decina di stoppate a partita, un numero giudicato cautamente attendibile da arbitri ed esperti statistici dell’epoca.
L’intera città di Boston, con cui i rapporti si erano fatti estremamente tesi, non la prese affatto bene. Lo accusarono di voler mettere in difficoltà la squadra. I Celtics, l’anno dopo, senza di lui, mancarono completamente l’accesso ai playoff.

Seguirono anni bui. In completa rottura con la città in cui aveva conosciuto onori e gloria, Russell non volle partecipare né alla cerimonia di ritiro della propria maglia, né a quella che lo introduceva nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame di Springfield.

Provò la carriera da allenatore, ma con alterne fortune. Si diceva che avesse poca pazienza, che non tollerasse la mancanza di spirito di sacrificio dei propri giocatori. Provò la strada da commentatore tecnico, ma anche lì non ebbe molto fortuna, poco adatto com’era ai ritmi serrati delle telecronache.

Si eclissò per qualche tempo dal mondo del basket. Eppure, nel 1981, in occasione del trentacinquesimo anniversario della NBA, fu votato miglior giocatore nella storia della lega con grande ed evidente disappunto di Chamberlain.

Nel 1997, per il cinquantennale della NBA, fu premiato a Cleveland fra i migliori giocatori della storia. In quella occasione Chamberlain e Jordan ebbero un veloce scambio di battute su chi dovesse essere considerato il migliore di sempre. Avevano arbitrariamente escluso tutti gli altri dal confronto, ma non Russell che silenziosamente assistette in prima persona alla singolar tenzone.

Il 6 Maggio del 1999, venne finalmente ricucito definitivamente lo strappo con la città di Boston. Correva il trentesimo anniversario della sua ultima partita in carriera, la storica gara 7 contro i Lakers, quando venne organizzata in suo onore una nuova cerimonia per il ritiro della leggendaria maglia numero 6, la più gloriosa nella storia della franchigia bianco-verde. Questa volta Bill non solo era presente, ma non riuscì a trattenere le lacrime per l’ovazione e per l’affetto che i tifosi gli riservarono.

Il 12 ottobre di quello stesso anno ricevette una telefonata che non avrebbe mai voluto ricevere. Era la seconda persona in assoluto cui veniva comunicata la notizia della morte di Wilt Chamberlain. In quell’occasione Bill lasciò solo una brevissima e laconica dichiarazione: “Io e Wilt saremo amici per l’eternità.”

Nel 2006 rifiutò di firmarmi un autografo, sventolandomi sotto il naso il suo ditone, neanche mi avesse stoppato.
Nel 2009 il premio di MVP delle Finali fu rinominato in “Bill Russell NBA Finals Most Valuable Player Award” in suo onore.
Nel 2011 ricevette la più alta onorificenza civile statunitense dal Presidente Barack Obama: la Medaglia Presidenziale della Libertà.

Oggi, nel 2017, a quasi 83 anni dalla sua nascita, a 48 anni dal suo ritiro, siamo qui a celebrarlo non solo come uno dei più grandi giocatori che abbiano mai attraversato il firmamento della National Basketball Association, non solo come il più vincente in assoluto di tutto lo sport a stelle e strisce, ma soprattutto come il giocatore di maggior valore che una qualsiasi squadra NBA abbia mai avuto.

E questo è il motivo per cui William Felton Russell, per gli amici Bill, per tutti Il Signore degli Anelli, a dispetto di Chamberlain, a dispetto di Jordan, a dispetto di qualsiasi altro essere umano che si sia mai cimentato con la palla a spicchi, rimarrà per sempre il Most Valuable Player per antonomasia.

12 thoughts on “3 – Bill Russell

  1. Cavolo. Vengo da una full immersion di Magic, Jabbar e Russell e davvero non ho parole. Articoli scritti benissimo, completi ma con una capacità di sintesi ammirevole e soprattutto perfetti a delineare contesto e giocatore. Davvero complimenti all’autore, forse meriterebbero maggior fortuna queste gemme.

  2. Per l’autografo: ha fatto benissimo.

    Comunque se è nato nel ’34 va per gli 83 anni

  3. L’articolo è bellissimo, Goat, però… Bill dietro a Wilt non riesco ad accettarlo.
    In 10 anni di carriera in comune non lo è (quasi) mai stato,
    non merita di esserlo in una classifica sui migliori di sempre.

    • Magari dopo il pezzo su Wilt ti ricrederai. :-D
      Scherzi a parte, opinione legittima la tua. Anche se io non sarei così radicale. La mia idea è che le prime 3 posizioni possono essere tranquillamente scambiate fra di loro.

    • Direi che è impossibile. Non perchè reputo Jordan superiore a Chamberlain è un paragone senza senso e si puo’ preferire uno o l’altro. ma perchè la classifica è stata fatta secondo dei criteri… e questi criteri portano a pensare che Mj con le sue innumerevoli vittorie, il modo in cui ha dominato un decennio non solo con prestazioni individuali ma anche con vittorie di squadra, facciano si che mj sia primo. poi si puo’ reputare tranquillamente wilt piu’ forte

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