In un nonnulla tutte le certezze dei Packers sono crollate.
La division che avevano monopolizzato, quella NFC North che fra 2011 e 2016 avevano conquistato in ben cinque occasioni, sembra essere definitivamente sfuggita di mano: nel 2017 se la sono aggiudicata i Vikings, nel 2018 i Bears.
A proposito, i Chicago Bears.

Trainati da una difesa così sfavillante da essere paragonata a quella dell’85 circa ogni lunedì, i Bears sembrano aver finalmente trovato una risposta ai loro problemi, anzi, due risposte: Matt Nagy e Mitch Trubisky.
Sotto la guida dell’ex offensive coordinator dei Chiefs Chicago ha vinto ben 12 partite, anche se più del numero di vittorie a riempire di speranza il cuore dei tifosi ci hanno pensato i tanti segnali incoraggianti lanciati da Mitch Trubisky che, al secondo anno fra i professionisti, ha compiuto un enorme salto di qualità valsogli una convocazione al Pro Bowl.
Per quello che può contare prendere parte al Pro Bowl nel 2018, ovviamente.

Parlare di passaggio di consegne a questo punto sembra sensato. Green Bay è implosa, Chicago sta fiorendo.
In tutto ciò i Packers devono pure sottoporsi al sempre stressante processo di individuare un nuovo allenatore, una persona con cui Aaron Rodgers possa avere una relazione sana, funzionale e adulta.
I nomi in lizza sono tanti e variegati. Jim Caldwell, Chuck Pagano, Joe Philbin – colui che ha preso il posto di McCarthy pochi mesi prima in qualità di interim coach -, Josh McDaniels, Brian Flores, Dan Campbell, Pete Carmichael, Todd Monken, Adam Gase e Matt LaFleur.

Concentriamoci un secondo sull’ultimo nome della lista, Matt LaFleur.
Una manciata d’anni più vecchio di Rodgers, più che un allenatore LaFleur sembra un cyborg creato in laboratorio per soddisfare i canoni estetici del periodo: a primo acchito lo si può definire più sintetico dei Milli Vanilli.

Reduce da un solo anno come offensive coordinator ai Tennessee Titans, LaFleur nel curriculum può vantare due esperienze d’inestimabile valore, ossia collaborazioni con Kyle Shanahan e Sean McVay, i nuovi feticci di ogni front office: allenatori di matrice offensiva giovani, ben pettinati, carismatici e tatticamente brillanti. Aver presenziato ad almeno un loro meeting è la conditio sine qua non per vincere una panchina.
Dopo aver ricondotto i Los Angeles Rams alla rilevanza in tempo record, Sean McVay è diventato presenza fissa nei sogni di ogni presidente e general manager: ogni squadra ora vuole individuare la propria versione di Sean McVay.

Oltre che estremamente creativo, LaFleur predilige la play-action, situazione in cui Rodgers eccelle – nessuno lancia meglio di lui in movimento. Sotto la guida di LaFleur si lancerebbe meno, ma ragionevolmente meglio. Per l’ex offensive coordinator il gioco di corsa è la chiave di tutto, correre efficacemente è fondamentale per sbloccare il gioco aereo acuendone la letalità.

L’otto gennaio 2019, solamente un giorno dopo il primo colloquio, il presidente e CEO Mark Murphy annuncia Matt LaFleur come quindicesimo allenatore nella storia dei Green Bay Packers.
Eccezion fatta per la sfortunata rottura del tendine d’Achille rimediata giocando a basket, il suo primo anno nel Wisconsin è un clamoroso successo.

I sorrisi sembrano essere sinceri.

Definirli rinvigoriti sarebbe un eufemismo. Trascinati dal running back Aaron Jones i Packers macinano vittorie, accumulandone addirittura 13 che valgono loro il titolo in division e il secondo seed nell’ultra-competitiva NFC. Jones è costante e incontenibile, i suoi 19 touchdown totali ci mettono davanti a una squadra che ha finalmente trovato un’alternativa ad Aaron Rodgers che, stranamente mogio, conclude la stagione con il terzo peggior passer rating della propria carriera.

Non si può in alcun modo affermare che abbia giocato male, ma non è più l’incontrastato sole nel sistema eliocentrico che in questa frase è l’attacco dei Packers. I numeri, seppur non mostruosi, ci sarebbero anche, ma la sensazione predominante è che quest’attacco non viva e muoia con Rodgers. Sta finalmente cominciando a emanciparsi dal proprio quarterback.
Va menzionato pure Jamaal Williams, autore di sei touchdown totali che insieme ad Aaron Jones dà vita a un backfield profondo e di primissima qualità. Green Bay ora sa vincere pure correndo.

Le belle notizie però non si fermano qui. L’esaltante 2018 dei Chicago Bears comincia immediatamente a puzzare di fuoco di paglia in quanto uno spietato 8-8 li riporta coi piedi per terra piuttosto in fretta. Ciò che più perplime è la velocità con cui Matt Nagy e Mitch Trubisky passino dall’essere considerati come plausibili dominatori della division per almeno un decennio a fonte inesauribile di meme. Così, di botto.

La loro stagione si conclude con una delle imbarcate più grottesche nella ricca storia della National Football League. Non è tanto il punteggio finale il problema, perdere 37 a 20 non è sicuramente un peccato mortale, ma la modalità con cui tale sconfitta è arrivata.

Contro i San Francisco 49ers a Santa Clara, Green Bay viene umiliata in mondovisione da una squadra che per annientarli chiede al proprio quarterback, il leggiadro Jimmy Garoppolo, di tentare solamente otto lanci: a cosa serve il quarterback quando il tuo gioco di corse monopolizza la contesa guadagnando 285 yard su 42 portate – poco meno di sette yard a portata?
L’hombre del partido è Raheem Mostert che con 220 yard e quattro touchdown mette a nudo tutti i difetti strutturali di una squadra che per quanto migliorata ha ancora parecchia strada da fare prima di poter essere annoverata fra le vere contender, soprattutto sul versante difensivo.
Soprattutto con un Rodgers oramai universalmente definito in fase calante.

Packers annientati ai playoff dal gioco di corse dei ‘Niners: lo abbiamo già sentito da qualche parte.

Quella che precede il 2020 è una offseason molto particolare per Aaron Rodgers – e per tutti noi.
Per prima cosa tutto ciò che sapevamo sulla vita viene messo in discussione da una pandemia che in un mondo così connesso e veloce non era nemmeno concepibile. Siamo costretti a casa in un periodo in cui la nostra unica fonte di salvezza sarebbe evitare qualsivoglia mezzo d’informazione dai quali, invece, siamo ancora più dipendenti.

Rodgers, presumibilmente prima dei vari lockdown, compie il viaggio della vita provando l’ayahuasca, una potentissima pianta allucinogena dell’America del Sud di cui non ho intenzione di approfondire troppo: state leggendo questo articolo su Internet, perciò se volete saperne di più sfruttate Internet che non voglio essere quello che vi induce in tentazione – di questi tempi non si sa mai, certi argomenti stanno tornando a essere tabù.
Negli anni successivi non avrebbe lesinato superlativi per parlare dell’importanza di tale allucinogeno per la sua carriera e vita privata.

Pochi mesi dopo, quando il giornalismo si è reinventato fra Zoom e Skype, inizia ad apparire settimanalmente al Pat McAfee Show dell’amico Pat McAfee, ex punter NFL scopertosi media mogul dopo il prematuro ritiro dall’attività agonistica.
L’ambiente da McAfee è perfetto, Rodgers può progressivamente sbottonarsi senza mai doversi preoccupare di domande scomode o fastidi vari, sono tutti così felici che abbia deciso di aprirsi a loro che le possibilità che venga messo davanti alle proprie contraddizioni sono più che nulla.

McAfee non è assolutamente una cattiva persona, tutt’altro, è l’equivalente di un golden retriever: giallo, fedelissimo, mite e così contento della tua semplice presenza da arrivare spesso a dimenticarsi del suo ruolo da cane. McAfee, estasiato dalla consapevolezza che ospitare settimanalmente Rodgers sia un qualcosa così clamoroso da aprigli le porte al giornalismo mainstream, spesso si limita ad ascoltarlo e a fornirgli assist per incanalare la conversazione su binari graditi a Rodgers.
Perdonatemi i molteplici eufemismi, definirlo leccaculo mi sembrava poco elegante.

Sia quello che sia, il decotto di ayahuasca sortisce effetti che definire miracolosi sarebbe riduttivo. Malgrado i deprimenti spalti vuoti, Green Bay conferma le tredici vittorie dell’anno precedente, questa volta però arrivate in modalità decisamente differenti: quella esibita nel 2020 è la miglior versione mai vista di Aaron Rodgers.
Ed è tutto dire per un due volte MVP.

I numeri sono fantascientifici, 48 touchdown a fronte di cinque intercetti con più del 70% di lanci completati fai fatica a replicarli su Madden NFL, ma soprattutto sembra essersi riaffermato come indiscusso faro dell’attacco.
L’anno precedente è stato il sistema a condurre Green Bay al riscatto, questa volta i meriti vanno assegnati perlopiù a Rodgers, perfetto su base settimanale, se si esclude la clamorosa batosta rimediata durante Week 6 contro i Tampa Bay Buccaneers, un 38 a 10 reso inquietante dalla facilità con cui il pass rush dei Buccaneers ha saputo mettere le mani addosso a Rodgers per tutto il pomeriggio.
Incidente di percorso? Molto probabile.

Mi sembra appropriato mettervi al corrente che tutto questo sia arrivato dopo che nel draft d’aprile il front office ha ignorato il bisogno di un ricevitore da affiancare a Davante Adams per mettere le mani su Jordan Love, grezzo quarterback da Utah per cui Green Bay ha addirittura scalato il tabellone.
Approfondiremo nel prossimo – nonché ultimo – episodio.

In un momento storico in cui qualsiasi fonte di gioia e bellezza deve essere celebrata – non dimentichiamoci che siamo pur sempre più o meno chiusi in casa -, vedere giocare Aaron Rodgers è fra i più grandi piaceri che un appassionato di questo sport possa gustare.
La telepatica intesa con Davante Adams ha dato vita all’asse quarterback-ricevitore più dominante della lega, un qualcosa di così impressionante che c’è chi si lancia in paragoni con gli inarrivabili Tom Brady e Randy Moss.
Esagerati.

L’esultanza dopo il 400esimo touchdown lanciato da Rodgers in carriera. Ovviamente a Adams.

Dopo una stagione del genere e un inevitabile MVP, la sensazione generale è che nulla e nessuno possa fermare i Packers questa volta. O almeno, non con un Rodgers del genere.
Al Divisional Round fanno quello che devono fare contro dei Los Angeles Rams guidati da un Goff più acciaccato che non e come per magia sono già al Championship Game… contro i Tampa Bay Buccaneers di Tom Brady.
Rodgers contro Brady ai playoff, finalmente.

Di motivi per temere i Buccaneers ce ne sono numerosi, ma tirare in ballo ossessivamente la sconfitta di Week 6 non ha alcun senso, anche se il recente infortunio del left tackle David Bakhtiari non può che far sudare freddo chiunque. Perdere un All-Pro a gennaio è di per sé orribile, figuriamoci perderlo con in programma la visita di una squadra che non troppi mesi prima li aveva dominati sulla linea di scrimmage.
Con o senza Bakhtiari, possono pur sempre contare sul miglior giocatore della lega, Aaron Rodgers.

Fino a questa partita il rapporto fra Rodgers e LaFleur da fuori è costantemente parso idilliaco. I due si rispettano, stimano e capiscono e sono consapevoli che dopo quanto successo con McCarthy andare d’accordo fosse imprescindibile.
Dopo questa partita, però, qualcosa sembra essere cambiato.
Come potete immaginare, per il secondo anno consecutivo la corsa dei Green Bay Packers si ferma all’NFC Championship Game, il terzo consecutivo perso da Rodgers che non ne vince uno dal gennaio 2011.

Dopo una partita alquanto bizzarra, impreziosita da touchdown sulla sirena, tre intercetti consecutivi di Tom Brady e un Davante Adams stranamente silente – solo 7.4 yard a ricezione per lui -, Green Bay si trova sotto di otto punti con poco più di due minuti rimasti da giocare.
Dopo un deprimente incompleto su terzo down reso ancora meno digeribile dal fatto che Rodgers probabilmente avrebbe potuto accompagnare il pallone in end zone con le proprie gambe, Green Bay si trova davanti a un 4&goal sulla linea delle 8 yard dei Buccaneers.

Penso che chiunque non abbia visto questa partita possa convenire che optare per la conversione del quarto down sia una decisione così sacrosanta da non poter nemmeno essere definita come tale: LaFleur opta per il calcio del meno cinque, rendendo così necessario uno stop difensivo che, ovviamente, non arriva.
Per il secondo anno consecutivo il sogno sfuma proprio sul più bello. Questa volta a termine di una partita tiratissima che con un paio di decisioni differenti…

«I didn’t have a decision on that one. It wasn’t my decision», taglia corto Rodgers nella conferenza stampa a seguito dell’incontro.
Primi scricchiolii? Troppo presto per esprimersi con sicurezza, ma è fuori questione che episodi del genere possano compromettere rapporti, soprattutto quando ti condanna alla quarta sconfitta consecutiva a un Championship Game.
Iniziano a essere veramente troppe, c’è il rischio che diventino il tratto caratterizzante della sua complessa legacy.

A lenire i dolori e i rancori ci pensa l’ennesima regular season da tredici vittorie culminata nel quarto MVP: il numero quattro sta cominciando a essere ricorrente.
Gli anni buoni cominciano ad accavallarsi fra di loro, ormai il campionato è diventato una mera formalità per Rodgers e compagni, da tutti attesi ai playoff dove ancora una volta dovranno tentare di portare a termine una missione che sembra maledetta.

Questa volta, se non altro, la loro corsa si ferma prima del Championship Game, al Divisional Round, sempre contro i soliti San Francisco 49ers che in una gelida serata del Wisconsin puniscono la sciatteria degli special team locali beffando Green Bay con un freddo 13 a 10. Dieci punti dall’attacco guidato dal tiranno delle ultime due regular season?
Tante vittorie in campionato per poi puntualmente sciogliersi ai playoff in modi così diversi e complementari fra di loro che si potrebbe quasi pensare che lo facciano volontariamente.

L’ultimo saluto di Rodgers ai fedelissimi di Lambeau Field?

Stiamo vivendo il sequel dell’era McCarthy?
Rodgers per quanto può confermarsi su questi livelli? Ma soprattutto, per quanto vuole giocare ancora?
Con un contratto da rinnovare e tanti, tantissimi dubbi sul futuro suo e dei Packers, vi saluto e vi do appuntamento a lunedì prossimo per l’ultimo episodio, quello il cui finale non vi terrà sicuramente in apprensione per una settimana visto che è sotto gli occhi di tutti.

2 thoughts on “Matt LaFleur, l’uomo che avrebbe dovuto (ri)conquistare Aaron Rodgers

  1. Buongiorno Mattia. All’inizio della serie avevi chiesto un giudizio critico. Secondo me non eravamo partiti benissimo: troppa pomposità nella prima puntata. Troppa enfasi per una situazione sì antipatica, ma che non era certo la fine del mondo. Dispiace per l’occasione persa con i Niners, ma dovrebbe dispiacere prima di tutto a loro; sfumati i rosso-oro alla pick #1, in prospettiva mi sembra preferibile venire scelti da una Green Bay bene o male sempre competitiva, che da altre franchigie nelle quali diventa difficile cavare il fatidico ragno dal buco. Anche se questo ti costringe a fare della gavetta.
    Dicevo, avevo trovato la forma della prima puntata eccessivamente ridondante in rapporto all’accaduto. Dalla seconda la trattazione è diventata più asciutta, riservando i barocchismi ai momenti culminanti. Secondo me, siamo migliorati. Comunque sempre grazie per scrivere di football. Saludos.

  2. Su McAfee aggiungerei con Rodgers ha trovato la gallina dalle uova d’oro. Sì, è vero che l’ha lasciato fare, a volte l’ha lasciato cuocere nel suo brodo, altre volte ha sbrodolato solo per la sua presenza, ma ne ha approfittato alla grande finendo per essere un punto di riferimento per le testate giornalistiche.

    È stato mitico quando, nel punto più basso della carriera di Rodgers, lo ha preso per il culo dicendo “il dottor Joe Rogan” o qualcosa del genere.

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