Significa poco, da un certo punto di vista, il fatto di concludere un campionato molto al di sopra delle aspettative, se l’obiettivo finale non viene raggiunto, o almeno questo è il pensiero inglobato nella nuova era di football a Detroit. L’importanza è relativa, anche per una franchigia di tradizione non certo vincente, abituata alla mediocrità, allo scherno, alla mancata conoscenza del concetto basilare di cultura vincente storica, perché alla fine dei conti si gioca pur sempre per arrivare fino in fondo, e da ciò che abbiamo intuito essere il profilo personale di Dan Campbell, il grandioso risultato ottenuto dai Lions non può ritenersi completamente soddisfacente. Si contravviene dunque alla logica del progresso ricostruttivo, quando di norma si gettano i pilastri di fondazione per i campionati successivi, si accumula esperienza per giungere uno, due o tre passi più in là, e tutti sono comunque felici e contenti. Ma non è mai stato questo l’intento, leggendo nell’acre sapore della delusione provata da una squadra che ha eretto una cavalcata la quale porta con sé mille e più significati per una città abbandonata a se stessa anche in ambiti diversi da quelli sportivi, perché dal momento del suo arrivo l’head coach in oggetto non ha fatto altro che seguire minuziosamente il suo piano di conquista, mantenendo ogni promessa fatta con fermezza e attributi.

Oltre a essere un eccellente stratega tattico, capace di modificare l’assetto di squadra a partita in corso in una disciplina sportiva dove contano i dettagli più minuscoli e spesso si risponde alla mossa dell’avversario come se si fosse all’interno del piano di una scacchiera, la qualità essenziale per allenare a questi livelli è la capacità motivazionale, quell’essere leader di un gruppo di uomini compatto e volto a raggiungere lo stesso obiettivo con unione e fratellanza. Il segreto neanche tanto nascosto dei Lions di questo campionato risiede proprio qui, nel possedere un allenatore che ha saputo creare coesione, altruismo, selezionare il talento giusto per le necessità corali, e soprattutto convinto ogni singolo giocatore del roster che questa fosse una compagine degna del Super Bowl. Campbell è riuscito nel suo intento per tutto l’anno, eccetto quei fatali ultimi trenta minuti effettivi di cronometro del NFC Championship, dove a prevalere sono state la mancanza di esecuzione e la maggior esperienza dell’avversario con certi carichi di pressione da gestire. Ci sarebbe di che festeggiare, avendo riscritto libri di storia locale di cui in passato ci si è dovuti spesso vergognare: eppure, rimangono solamente tanta rabbia e delusione.

Brucia, e continuerà ad ardere a lungo, infestando qualche sogno notturno, evocando revisioni infinite di ciò che sarebbe potuto essere, e non è stato. Detroit avrebbe dovuto rappresentare la vittima sacrificale predestinata dei titolati 49ers, che giocano ad altissimi livelli da più tempo, ma chi si attendeva una lezione di football alla Davide e Golia si è ricreduto sin dai primissimi momenti del primo quarto, quando i Lions hanno fatto capire a suon di yard che non erano approdati a San Francisco per un tour panoramico del Golden Gate. Quel primo tempo disputato ai limiti della perfezione pesa nel cairco di rammarichi, e non poco: 148 yard su corsa, 7 di media per portata, Jared Goff a non sbagliare una singola decisione, un atteggiamento per nulla intimidito dalla cornice californiana sia in attacco che in difesa, e soprattutto un vantaggio di 17 punti prima di rientrare negli spogliatoi, per poi tentare di contenere la reazione che, inevitabilmente, tutti si sarebbero attesi dai caratterialmente forti Niners. Invece, nella prima frazione di gioco, il coniglietto fradicio era sembrato essere Brock Purdy, impossibilitato a mettere assieme qualcosa di buono a livello offensivo, con i soliti schemi ricchi di pre-snap motion a non dare i frutti consueti, oltre al fatto che la difesa pareva più confusa che altro nella lettura delle tentacolari finte che l’abile attacco guidato dal coordinator Ben Johnson aveva ingegnato con successo, nel tentativo di fornire alla controparte informazioni e conseguenti interpretazioni errate.

Molti sono i fattori concorrenti ai soli sette punti segnati nella ripresa, una mistura di atteggiamenti e decisioni tattiche che hanno riempito le discussioni dei maggiori esperti del settore per tutta questa porzione di settimana. Su tutto si è parlato moltissimo dell’atteggiamento caratteriale di Campbell, criticato da qualcuno per aver eccessivamente aderito alla sua natura aggressiva tentando quei due quarti down alla mano, e per non aver , al contrario, forzato maggiormente la mano tentando il touchdown allo scadere del primo tempo, anziché accontentarsi di tre punti che avevano portato a tre possessi di stacco, ma con un senso di sicurezza del tutto diverso. I Lions, però, erano stati questi per tutto l’anno, e avevano i numeri dalla loro parte: già avevano tentato la conversione di un quarto down alla mano con due o tre yard da guadagnare in 23 circostanze differenti, più di chiunque altro nel 2023, convertendo con successo il 70% di esse, quando la media NFL non andava oltre il 52%. Difficile, sapendo di dover andare per la giugulare, pensare di accantonare una delle proprie armi migliori con una posta in palio ancora più alta. Oltre a ciò, un fattore poco considerato dai detrattori è rappresentato dall’esecuzione, forse la vera responsabile di quel fallimento che ha visto svanire l’inerzia dalle mani dei Lions come fosse neve al sole, e rimpiangere quel drop commesso da Josh Reynolds in una chiamata che aveva effettivamente funzionato, la quale se realizzata non avrebbe con tutta probabilità condotto a una seconda situazione di quel genere.

Non ci è dato sapere se Detroit sia rimasta vittima della sua stessa natura, o semplicemente delle statistiche avanzate sulle probabilità di vittoria. Campbell aveva i numeri dalla sua parte, sapeva che il kicker Michael Bagdley è tutt’altro che automatico tra le 40 e le 49 yard all’aperto – situazione nella quale non calciava dalla stagione 2022, peraltro – e credeva fermamente che quel 70% di regular season avrebbe esercitato il suo potere pure in un terreno ostile, con gli sfavori del pronostico, contro la tradizione conservatrice e l’apparente buon senso. Così non è stato, per quanto corretta e in linea con i tempi fosse tale filosofia, e di fatto, il punto di svolta negativo, ha sortito le sue conseguenze da quel momento in poi, quando Detroit è andata in piena rottura prolungata.

Escluso – in quanto fatto determinato più che altro dalla sorte – il big play di 50 yard di Brandon Aiyuk con l’ovale andato prima a sbattere sul facemask del cornerback Kindle Vildor, adornando di beffa un potenziale turnover, c’è molto di cui dibattere a livello esecutivo, nel senso che Detroit, da un certo punto in poi, non ha più mantenuto la stessa identità di prima, smettendo di produrre, o forse anche solo facendosi soprassedere dall’ondata d’urto della reazione avversaria a livello psicologico, ritrovandosi inerme nel tentare di tenere stretta a sé una gara che se ne stava inesorabilmente andando. Per quanto avessero sorpreso, i Lions del primo tempo non avevano fatto altro che essere loro stessi, mantenendo quell’identità che li aveva condotti a pareggiare il punto più alto della loro esistenza nell’era del Super Bowl, e mai così vicino all’oltrepassarlo. La squadra scesa in campo nella ripresa è risultata meno concentrata e disciplinata, erronea come nel caso del fumble decisivo che Jahmyr Gibbs – autore di una stagione ben più che spettacolare – si è fatto sfuggire in territorio amico, dando il là a una svolta psicologica terrificante. Se proprio è necessario esercitare il puntiglio ai danni di Campbell pare allora corretto sottolineare l’abbandono delle corse, chiamate solamente in otto episodi per 34 yard nei due quarti conclusivi nonostante il dominio esercitato in precedenza, una decisione che ha fatto perdere l’esercizio del controllo del cronometro, pur sapendo quanto importante fosse lasciar fuori dal campo gente come Christian McCaffrey. Alcuni drop hanno ucciso i drive sul nascere, vanificando la concretezza di un Goff che ha visto la sua carriera risorgere proprio grazie allo stesso coordinator capace di renderlo un quarterback produttivo (4.575 yard e 30 mete in campionato regolare), studiando semplicemente un sistema che privilegiasse le sue qualità senza snaturarle. La difesa ha tutto sommato tenuto nelle coperture, ma nulla ha potuto nel limitare Purdy – non il primo quarterback atletico in lista – nelle scorribande in solitaria, un aspetto certamente poco conosciuto di Mr. Irrelevant, ma pungente per tutti i primi down che ha generato, nonché per i particolari momenti in cui gli stessi sono pervenuti.

L’head coach dei Lions non è uno che va tanto per il sottile, questo lo si è ampiamente compreso, e proprio per questa ragione il senso di aver deluso le proprie stesse aspettative prevale rispetto alla storicità dell’adempimento compiuto nei confronti di una fanbase che, guardando al positivo, riesce finalmente a vedere qualcosa di importante oltre l’orizzonte. La storia insegna che vincere, in NFL, è l’impresa più difficoltosa che esista, e la logica costruttiva progressiva non è un sintomo meccanico di poter sistematicamente eseguire quel passo definitivo verso il trionfo finale. A Detroit quel bruciore interiore lo si sente tuonare, tanto per l’occasione storica non concretizzata per poco, quanto per la consapevolezza che non sarà scontato ripresentarsi tra un anno a giocarsi di nuovo l’accesso al Super Bowl, nonostante una squadra giovane, un nucleo che sarà confermato per la maggior parte, e la piacevole notizia che Johnson rimarrà saldamente al suo posto di offensive coordinator avendo declinato un paio di collocazioni da head coach, a conferma del fatto che si desidera fornire continuità al lavoro svolto e le migliori opportunità possono attendere.

Ai Lions va il compito di sfatare il mito della one-year wonder, la meteora che passa, giunge al suo picco, e tramonta inesorabilmente senza che più nessuno si ricordi di lei. Il quadro complessivo del football varia rapidamente, l’anno prossimo ci sarà un calendario più difficile dato dal primo posto nella NFC North, le avversarie divisionali si attrezzeranno per migliorare, potrebbe esserci maggiore competitività. Nonostante l’amarezza, sarà comunque bene ricordare a questo gruppo il valore intrinseco di un’impresa senza paragoni, ben diversa da quel 41-10 patito al Championship che Detroit giocò a Washington nel gennaio del 1992, per poi sprofondare nell’oblio per lunghi decenni. Questi Lions sono vincenti, forti, grintosi, ben condotti, e ricchi di giovani talenti. Goff è un’altra persona, ha ritrovato fiducia in se stesso e riesce a riconoscere il suo valore. L’attacco è attrezzato di abilità e velocità con Amon-Ra St. Brown, il ritrovato Jameson Williams, il determinante David Montgomery, gli eccellenti rookie Gibbs e LaPorta, la linea condotta da Frank Ragnow e Penei Sewell è molto più che solida. La difesa possiede giovani colonne come Hutchinson, Branch, Melifonwu, Branch, tutti esempi delle ottime selezioni al Draft effettuate nell’ultimo triennio. La speranza è che sia davvero l’inizio di una nuova era, la prima veramente soddisfacente dalla notte dei tempi del football, quando la franchigia conquistò gli unici quattro titoli che risiedono oggi in bacheca, quando ancora il Super Bowl non era stato concepito, il più recente dei quali ha ben 66 anni.

Mai i Lions sono stati abbinati a un qualsiasi concetto relativo al vincente nell’era moderna, ma Dan Campbell ha convinto tutti di poter spazzare via tutto il vecchiume e di poter aprire un ciclo, prendendo residenza fissa tra le contender, e pensare finalmente in grande senza timidezze assortite. Il solo fatto che ci sia riuscito, parla da sé. Brucia lo stomaco, ma bruciano anche le tappe, e Detroit gode di una posizione impensabile con netto anticipo rispetto alla tabella di marcia. La storia è lì, in attesa di essere riscritta per sempre.

 

7 thoughts on “Detroit Lions, una sconfitta che brucerà a lungo…

    • Scelta rispettabile e pure per certi versi condivisibile, ma io voterei Ryans.

  1. da underdogs hanno fatto molto + bella figura i Lions dei ravens.
    Hanno perso ma fino ad un pò di anni fà erano una barzelletta.
    Solo applausi per tutto lo staff e Campbell compreso

  2. Quella presa sul rimbalzo dell’elmetto ed il fumble con la giocata successiva hanno fatto pendere la bilancia a favore dei 49ers.
    Sui 2 FG evitati per giocare il quarto down, i numeri erano dalla parte di Campbell quindi è stata una scelta razionale. Ma quelle due giocate negative, hanno messo l’umore dei Lions sotto i tacchi.
    Peccato perchè hanno fatto una stagione super ed il futuro pare radioso.

  3. A mio modesto parere quelle due giocate al quarto down, in particolare la prima, non erano necessarie.
    Perchè rischiare una giocata che se fallita avrebbe cambiato (come poi è stato) l’inerzia di una partita che fino a quel momento era stata tutta a favore de Lions e che con un FG avrebbe messo più di due possessi tra le squadre?
    Vero che in stagione convertivano il 70% di quarti down ma una finale di conferenze ha tutta altra tensione.
    Il big play da 50 yards “fortunoso” poi è stata la punizione a chi ha osato troppo quasi sprezzante dell’enorme posta in palio.

  4. Ora per come si erano messe le cose, la sconfitta ai Lions brucia e brucerà per un po’. Però bisogna sempre usare la razionalità: per loro è stata una grande stagione. Campbell ha fatto un lavoro grandioso.

    Sui famosi quarti down, tutte le valutazioni ci stanno: di solito li trasformano più spesso che no, il kicker da certe distanze fa quello che può eccetera. Tutti discorsi validi. Solo non si capisce, secondo me, perchè non andare per il TD quando erano a tre yard alla fine del primo tempo. Nel momento in cui sembrava riuscirgli tutto. Lì non capisco, perchè non essere aggressivi quando ti sta andando bene e invece esserlo quando gli altri ti stanno un po’ prendendo le misure. Cmq grande stagione e meno male, ai miei Niners è andata grassissima anche stavolta.

    • Secondo me a fine primo tempo se avessero dovuto ricevere loro il kickoff all’inizio del secondo avrebbero al 100% giocato il 4° down (che ci stava alla grande, se vai in endzone chiudi la partita); dovendo invece difendere nel primo possesso del secondo, la scelta di mettere comunque punti per me era quella giusta. A maggior ragione non ho condiviso il primo tentativo: il drive di SF aveva portato solo un FG e potevi ripristinare i 3 possessi di vantaggio avendo bruciato 8 minuti complessivi. Lo schema era giusto, eseguito bene ma ti ha tradito un drop, è vero, il kicker non è né Tucker né il McPherson col ghiaccio nelle vene di un paio d’anni fa, è vero, però se credi nella tua squadra credi in tutti, non in tutti a parte il kicker (e se arrivi al calcio decisivo col kicker non pronto perché i calci decisivi non glieli fai mai tirare, un po’ di colpa per me ce l’hai)

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