Siamo in quella zona grigia fra sera e notte di lunedì 17 luglio, è appena terminato il travolgente e insopportabilmente afoso concerto di Kendrick Lamar in Arena quando sguaino dalla tasca il telefono per concordare un punto di ritrovo con una mia amica dall’altra parte dell’anfiteatro per salutarla: notifica di The Athletic, ci getto velocemente lo sguardo e metto a fuoco un no e un paio di nomi.
Approfondiamo un attimo, per carità. Nessuno fra Saquon Barkley, Josh Jacobs e Tony Pollard ha raggiunto un accordo con la propria squadra per un nuovo contratto entro la deadline stabilita dalla lega: ognuno di loro dovrà giocare il 2023 sotto franchise tag, strumento inviso a tanti ma odiato in particolar modo dai running back.

Apriti cielo.
Qui sotto vi presenterò una veloce carrellata di tweet – o X? – di reazione alla notizia che mi ha riportato alla realtà dopo aver testimoniato Kendrick fare del proprio meglio per aiutarci a tirare giù l’Arena.

Non possiamo che partire dalla reazione di un re affranto per la sempre più deprimente sorte del proprio lignaggio. Ah sì, questo per lui sarà l’ultimo anno sotto il contratto firmato nell’inverosimile estate del 2020, quindi fra non troppi mesi pure lui potrebbe trovarsi costretto a nuotare in questo mare di liquame.

Jonathan Taylor, analogamente a Derrick Henry, non può dormire sonni tranquilli in quanto verso primavera sarà free agent. Il mesto promemoria di lunedì scorso non può sicuramente rasserenarlo visto che l’impressione è che nessuno sia più disposto a rompere il salvadanaio per un running back, indipendentemente da quanto forte esso sia.

Il sindacalista Austin Ekeler – che nel weekend ha organizzato una videochiamata su Zoom fra running back – invece se la prende con quelli che sono diventati a tutti gli effetti i portavoce dei front office, ossia gli analisti – sui quali a breve voglio dire due parole. Anni a indottrinarci su quanto intercambiabili siano i running back sembrano aver sortito i loro effetti. Le immateriali analytics, che altro non sono che dati raccolti ed elaborati da gente che vuole solamente corroborare la propria tesi, hanno velocemente e inesorabilmente sgretolato il valore della posizione un tempo regina.

Quella che sta finalmente per esaurirsi è stata un’offseason tragica per i running back. A gente come Dalvin Cook, Zeke Elliott e Leonard Fournette è stata mostrata la porta, Aaron Jones e Joe Mixon hanno dovuto accettare a malincuore tagli allo stipendio, Austin Ekeler ha chiesto di essere scambiato ma, una volta tastato con mano il mercato, è stato costretto a tornare a Los Angeles con la coda fra le gambe ottenendo come “premio” l’aggiunta di un paio di incentivi che non gli garantiscono la stabilità sul lungo periodo che tanto brama.

Figuratevi che il contratto più oneroso firmato da un running back è stato quello dato dai Carolina Panthers a Miles Sanders, un quadriennale da circa 25 milioni di dollari di cui 13 garantiti, gli stessi che nel medesimo intervallo temporale riceverà Matt Gay – all’anagrafe kicker – dagli Indianapolis Colts.
Solamente David Montgomery e Jamaal Williams hanno sfondato il muro della doppia cifra di milioni di dollari garantiti. Per tutti noi, per cui i duemila euro al mese continuano a costituire la più utopica ricchezza, storcere il naso davanti a cifre del genere è sciocco e irrispettoso, ma durante la lettura di questi articoli vi invito a disattivare il filtro del realismo, dobbiamo proprio cambiare modo di ragionare per comprendere la loro – a mio avviso giustificata – rabbia.

Hanno visto gente come Derek Carr, Daniel Jones e Jimmy Garoppolo firmare per cifre che in un anno surclassano quello che prenderebbero loro durante l’intera durata del contratto. Hanno pure visto Lamar Jackson e Jalen Hurts sfondare con facilità il muro dei cinquanta milioni annuali, anche se credo che per loro sia ben più difficile metabolizzare mostruosità come quella data l’anno scorso a Christian Kirk dai Jacksonville Jaguars.
Viviamo nel mondo dei quarterback e tutti ne sono pienamente al corrente, ma come mai ricevitori assolutamente nella media risultano più pagati dei migliori interpreti di una posizione ancora importante?

Nel 2022 le squadre hanno corso tanto e particolarmente bene. Una squadra qualsiasi in una partita qualsiasi ha totalizzato, in media, 27.3 portate a partita, dato più alto dal 2011. Ciò che più impressiona, però, sono le 4.5 yard a portata, comodamente miglior dato nell’intervallo temporale da me preso in esame, ossia dal 2010 a oggi.
Ogni singolo numero è dopato dalle prodezze dei vari Lamar Jackson, Justin Fields e Josh Allen, o se preferite l’intero podio nella speciale classifica yards per attempt, ma credo che sia stolto fingere che il fenomeno dei quarterback corridori sia una novità assoluta, non sono passati poi così tanti anni dai tempi delle read option di RGIII, Cam Newton e Russell Wilson.
Correre contro difese costruite per contrastare i passaggi è tanto intuitivo quanto efficace, davanti a box leggeri guadagnare cinque-sei yard in modo tutto sommato sicuro e sostenibile è sintomo di intelligenza.

In NFL, contrariamente a quanto si possa credere parlando esclusivamente di quarterback, si corre ancora e salvo che under center la tua squadra possa vantare Patrick Mahomes, poter contare su un gioco di corse perlomeno funzionale è imprescindibile. Ne parliamo ogni anno a gennaio quando il sogno dei Bills sfuma puntualmente anche a causa dell’incapacità di muovere le catene senza fare affidamento esclusivamente su Josh Allen.
Guardiamo l’interessante tweet qui sotto.

Dal 2009 a oggi, il leading rusher al Super Bowl più pagato è stato Percy Harvin che era un ricevitore. Per carità, una tabella del genere lascia il tempo che trova ma fa riflettere in quanto non ci imbattiamo in nessuna superstar, dove per superstar si intendono individui che hanno trainato la nostra squadra fantasy alla vittoria finale.
I Chiefs hanno vinto facendo affidamento sul più che economico duo Pacheco-McKinnon, i Rams su Akers sotto contratto come rookie, i Buccaneers su un Fournette scaricato dai Jaguars a pochi giorni dall’inizio della stagione, diamine, ci imbattiamo due volte pure in LeGarrette Blount, vero nomade della posizione.

Immagino che combinare quanto appena detto alle lapidarie lezioni impartite dalla storia contemporanea – approfondisco dopo il punto – abbia convinto fior di front office a ripudiare fino a spingere all’estinzione il concetto di franchise back.
Non troppi anni fa, infatti, per gente come Shaun Alexander, LaDainian Tomlinson, Adrian Peterson, Curtis Martin, Marshall Faulk, Edgerrin James e Clinton Portis – ne ho omessi tantissimi – era assolutamente normale trascorrere ben più di un lustro nella stessa squadra e, nel mentre, far scadere un paio di contratti naturalmente rinnovati.

Oggi, purtroppo per loro, ciò non è più possibile. Casi come quelli di David Johnson e Todd Gurley hanno prevedibilmente indotto molti front office a pensarci due volte prima di allocare una cinquantina di milioni su un running back. È altresì vero che per ogni Johnson e Gurley si trova un Nick Chubb o Derrick Henry che a suon di tackle rotti fa passare per genio chiunque abbia deciso di rinnovar loro il contratto, ma queste purtroppo sono diventate eccezioni: come già detto, i franchise back non esistono più.

Ciò non significa che la posizione del running back stia morendo e che a breve li paragoneremo ai dinosauri, ma sempre meno gente è disposta a investire milioni seri sugli individui più malmenati ed esposti a infortuni in assoluto.
Una delle cose che più mi ha impressionato mentre raccoglievo i dati per questo articolo viene dalla progressione del franchise tag nell’ultimo decennio. Le lezioni di informatica alle medie e superiori mi hanno permesso di assemblare questa tabella Excel che confronta il franchise tag, posizione per posizione, nel 2013 e nel 2023.

Abbastanza convinto di sapere quale sia il primo numero capace di catturare la vostra attenzione.

Scommetto che avrete immediatamente notato quel 22,77% che a primo acchito sembra essere finito lì per errore: no, purtroppo questa è la cruda realtà dei fatti. Mentre il valore assoluto di ogni singola posizione aumenta esponenzialmente – e in alcuni casi raddoppia -, quello del running back sembra essere impantanato. Se la crescita del franchise tag dei running back avesse seguito quella delle altre posizioni molto probabilmente nessun front office avrebbe interesse a usarlo, una quindicina di milioni per un running back sono uno sforzo economico che nessuno ha più intenzione di permettersi.

Il franchise tag così com’è rappresenta un mezzo di controllo perfetto per le franchigie che, a un prezzo tutto sommato competitivo, possono spremere un altro anno di produzione, senza vincolarsi per il futuro, a fenomeni come Saquon Barkley o a gente come Josh Jacobs reduce dalla stagione della vita. Si fanno male? Succede niente, ci si saluta in primavera. Jacobs non riconferma il rendimento fantascientifico dell’anno precedente? Succede niente, ci si saluta in primavera.
Prima, magari, sarebbe ideale mettere le mani su un running back al draft, farlo sviluppare con calma alle spalle del titolare sotto franchise tag e mandarlo allo sbaraglio l’anno successivo quando il suo contratto si aggirerà sui due o tre milioni di dollari l’anno.

Mentalità spietata e fredda, ne sono consapevole, ma purtroppo questa ha smesso da tempo di essere una lega per romantici.
La posizione del running back non è morta, tutt’altro, è “semplicemente” morto il concetto di franchise running back, sempre più front office sentono che il delta fra la produzione di un possibile franchise running back e un running back selezionato nei round centrali del draft non sia sufficientemente significativa da giustificare il delta fra lo stipendio di un McCaffrey qualsiasi e un running back sotto contratto come rookie.

Prima di concludere, due veloci ma necessarie parole agli analisti-barra-influencer: avete stufato.
Siamo pienamente al corrente che dare 15 milioni all’anno a un running back non sia chissà quanto intelligente da un punto di vista di costruzione del roster, ma è umanamente ripugnante glossarci sopra in nome di un «te l’avevo detto» di cui chiunque è al corrente da anni.

Tweet come quello a cui hanno risposto Derrick Henry e Austin Ekeler sono troppo odiosi per essere veri. Come mi ha detto il mio caro amico Alessandro Taraschi – mi fa sentire qualcuno nominare per intero un giornalista bravo e affermato come lui -, è decisamente antipatico “andare a dire all’orso affamato che deve stare a dieta per fare felice lo zoo”, soprattutto se si è convinti di lavorare allo zoo esclusivamente perché ne si è assidui frequentatori.

Avete seriamente stufato, sarebbe ideale se sacrificaste un paio d’ore di studio degli All-22 per utilissimi corsi di “saper stare al mondo” perché, credetemi, non state facendo una bella figura. Non siete parte attiva di una discussione che non vi riguarda, se sentite di esserlo è anche colpa nostra che cliccando distrattamente quel ‘segui’ vi abbiamo regalato un potere fittizio che ci ha messo veramente poco a darvi alla testa.
Immagino che la guerra sindacale sia solo all’inizio e che fra non molto mi troverò costretto a tornare sul luogo del delitto, ma avevo bisogno di concludere in questo modo.

4 thoughts on “Il problematico stato dei running back nella NFL di oggi

  1. Cioè Legarrette Blount ha vinto 3 anelli?!?!
    Quella sì che è una roba impressionante.

  2. Bell’articolo Mattia! Non avendo conoscenze paragonabili alle tue della lega non sono mai riuscito a formulare un argomentazione solida sulla questione RBs, ma è un po’ di tempo che ho come la sensazione di percepire un certo livello di “disdegno” verso la posizione. La cosa un po’ mi lascia l’amaro in bocca visto quanto mi piace il gioco di corsa, trovo sia ancora quello più spettacolare. Penso che l’attuale stato di venerazione dei QB sia una bolla destinata a scoppiare. In uno sport complesso e articolato come il football una posizione non fa squadra, per quanto importante possa essere. Penso che questo lo abbiano dimostrato bene i 49ers in questi anni: nonostante non abbiano mai avuto – mia opinione personale – un fuoriclasse al timone dell’attaco, sono sempre riusciti ad essere mostrosuamente competitivi come squadra.

  3. Quando ho iniziato a vedere il football, a metà anni 90, i RBs erano stelle e tra i più pagati. Vero è che c’erano Barry Sanders e Emmit Smith, tra gli altri.
    Anche io mi dichiaro di parte, trovo che le corse siano entusiasmanti, soprattutto dal vivo quando un omino (sembrano piccoli tra i linemen…) cerca un passaggio tra linee titaniche che si scontrano.
    La posizione è la più usurante (quando non corrono bloccano, per dire), quindi i general managers, che non fanno cartello per penalizzare i soli running backs, prendono logicamente la strada (lecita) del contratto da rookie + un anno di tag per assicurarsi i migliori 4/5 anni di carriera dei giocatori senza intasare il salary cap.
    Visto che l’apice della carriera è tendenzialmente presto per chi gioca nella posizione, la lega potrebbe disincentivare l’approccio dominante, magari dando ai running backs la facoltà di uscire dal contratto da rookie dopo il secondo anno per diventare free agent. Immaginate l’asta che ci sarebbe stata per uno come Taylor al 3° anno. Credo che sarebbe sufficiente per un rimbalzo.

  4. Bellissimo articolo e concordo col giudizio sugli “analisti-barra-influencer”: dannosi

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