Tra tutte le possibili squadre accreditate per una partecipazione al Super Bowl, i Kansas City Chiefs figuravano quest’anno tra le realtà sorprendentemente meno considerabili. Pare quasi strano a scriverlo, ma poco più di un mese fa tale considerazione era quanto mai reale, frutto di un giocattolo offensivo in precedenza perfetto, ora inevitabilmente rotto. Già, perché a guardare le statistiche dell’attacco condotto dall’indistruttibile Patrick Mahomes, ci si rendeva facilmente conto di come le stesse fossero le peggiori mai scritte da quando il numero 15 in rosso è stato posto alla guida di un timone ricco di successi prestigiosi, sovente collezionando numeri da capogiro, appartenenti alla fascia d’élite della NFL. Eppure, in quello scorso Natale così avaro di gustosi dolciumi, i Chiefs parevano prede di una rottura prolungata e privi di una chiara soluzione per il rimedio, per rimettersi in carreggiata e dimostrare di valere la detenzione del titolo di campioni in carica. Parevano persi, privi di idee, energie, personale offensivo adatto, e stavano vivendo un pericoloso momento di distonia nel quale una franchigia rischia tipicamente di perdere gli equilibri interni, tanto eroicamente stava giocando la difesa, tanto misero era il livello prestazionale offensivo.

I campioni veri emergono in queste circostanze. I Chiefs sono rinati esattamente lì, dopo quell’effimero 20-14 patito contro gli odiati Raiders, in una settimana dove le critiche verso la poca attenzione rivolta al settore ricevitori durante la scorsa free agency si sono nuovamente accese, dettando i limiti delle reali velleità di una squadra che sembrava pronta a cedere il testimone a qualcun altro. E mai Mahomes era stato visto giocare così male, un segnale preoccupante per un reparto che, in perfetta solitudine, aveva condotto in solitaria Kansas City più volte sul Mount Rushmore della National Football League, aprendo un ciclo che stiamo ancora oggi testimoniando. Andy Reid, il management, il roster tutto, ciascuna di queste persone ha dovuto cancellare e ripartire da zero dopo un’accurata osservazione allo specchio, cercando di analizzare cosa non funzionasse, senza perdere la calma e trovare gli aggiustamenti necessari per rimettere in piedi una cavalcata vincente. Perché, alla fine dei conti, chi ha il DNA del campione dentro sé, possiede questa capacità di reset, di non guardarsi più indietro, e di perseguire nel credere in sé al punto da convincere anche gli altri. Solo così è stato possibile ritrovare la compagine del Missouri quale rappresentante della AFC alla finalissima per la terza occasione dell’ultimo quadriennio, come pure al sesto Championship di Conference consecutivo, un traguardo che come paragone di recenti tempistiche regge solamente con la dinastia eretta da Sir Bill Belichick e The Goat.

Proprio i Patriots si sono spesso iscritti all’albo dei vincenti insegnando il come una squadra possa completamente mutare la sua natura, e ottenere un egual risultato. Tale metamorfosi, nel caso dei Chiefs giunta a stagione in corso e non tra un anno e il successivo, ha circoscritto la chiave di volta necessaria per tornare a pensare di essere grandi, inscalfibili, campioni. Non è questo il momento di assistere a ulteriori 50 passaggi da touchdown firmati da Mahomes in regular season, com’era accaduto nel suo meraviglioso e sorprendente primo anno da titolare fisso, d’altra parte le alcune a roster non si possono certo rimediare a gennaio, momento dell’anno in cui è invece necessario lavorare al meglio con ciò che si ha in casa, consci delle proprie decisioni di offseason e dei limiti imposti dalla disponibilità di giocatori liberi, o dallo spazio salariale. Questo è invece il momento della difesa, che per anni a Kansas City è stata un non fattore, un punto di labilità, un settore progredito nel corso del tempo, certo, ma mai dominante come lo si è invece potuto definire quest’anno.

Le operazioni condotte nel mercato primaverile dal general manager Brett Veach avevano rappresentato tanto una croce quanto una delizia per l’organico che aveva poi messo piede in campo lo scorso settembre, perdendo l’esordio contro i Lions per un punto, per quanto la sconfitta fosse un preludio a una serie di sei affermazioni consecutive che non dava adito alle preoccupazioni vissute da metà stagione in poi. Nessun ricevitore di rilievo, JuJu Smith-Schuster in partenza dato il titolo ottenuto nella sua annuale permanenza in loco, il fantasma di Cheetah ad aleggiare a suon di balzi felini, e molte speranze riposte sull’istantanea crescita dei nuovi innesti al primo e secondo anno di esperienza, con il solo Rashee Rice a portare con impegno la croce in una batteria sin troppo plagiata dai palloni droppati a terra, dalla poca disciplina, dagli allineamenti errati in situazioni determinanti, chiamando sul banco degli imputati contribuenti invisibili quali Skyy Moore e Marquez Valdez-Scantling, nonché i disastri combinati da Kadarius Toney.

Veach aveva tuttavia assolto a un compito essenziale, quello di ringiovanire un reparto difensivo altrimenti non più sostenibile per continuare a giocare ai livelli desiderati. La seconda ondata di free agency, vale a dire quella successiva alla firma dei pezzi più succulenti del mercato, aveva portato elementi sottostimati come il linebacker Drue Tranquil, il safety Mike Edwards, il defensive end Charles Omenihu, determinanti nell’inserirsi in uno schieramento quasi interamente costruito attraverso eccellenti scelte al Draft, altro merito che il management detiene nella costruzione progressiva di quella che è stata quest’anno la seconda miglior difesa NFL per punti e yard al passivo. Proprio grazie a questa, i Chiefs sono riusciti a reggere l’urto di quella parte centrale di campionato così critica, e a percorrere così tanta strada nei playoff, mostrando una nuova essenza, del tutto differente, ma ugualmente vincente.

Una dopo l’altra, sono cadute al loro cospetto tutte le principali contendenti della AFC. Uno dopo l’altro, si sono arresi tutti quei possibili Mvp della Conference subentrati a Mahomes nel cuore degli addetti ai lavori. Quei Miami Dolphins, primatisti offensivi, considerati quasi dei nuovi Kansas City Chiefs per innovazione e prolificità statistica, demoliti per 24-7 nel freezer dell’Arrowhead Stadium (sì, non si chiama più così, ma tal è nel nostro romanticismo sportivo), con tanti saluti a Cheetah e al suo non-sarete-più-gli-stessi-senza-me. Quella gloriosa resistenza contro i Buffalo Bills, la compagine più incandescente di tutte da novembre in poi, una squadra in missione per conto delle divinità del football, tuttavia incapace di mantenersi lucida nel momento clou della gara, al contrario degli avversari, che avevano invece disputato una contesa in pieno controllo, forgiata dall’esperienza accumulata in postseason, eccellendo in fase esecutiva quando più contava. Quel sogno mandato in frantumi a Lamar Jackson nella partita più sentita di sempre a Baltimore, in un clima dove i Ravens parevano predestinati al Lombardi’s dimenticando di fare i conti con il baffo sulla sideline, che assieme a Spags, il fidato Steve Spagnuolo, aveva allestito uno stratosferico gameplan difensivo per limitare le migliori qualità dei corvacci.

Delle tre gare disputate dai Chiefs nel mese scorso, rimane infatti impressa in memoria l’efficienza della difesa, ovvero il pilastro su cui tutte le speranze di squadra si sono aggrappate nel momento del bisogno. Il reparto ha dato la possibilità all’attacco di ricomporsi, capire la nuova strada da percorrere, di correggere il tiro e mutare pelle. Edwards, Tranquil, Omenihu – quest’ultimo salterà purtroppo il Super Bowl per la rottura del crociato anteriore – hanno effettuato tutti almeno una giocata determinante per ciascuna gara di playoff, incidendo sull’inerzia, sull’esito finale, sulla riuscita di quel piano di contenimento di attacchi più forti, concedendo a Mahomes il tempo necessario per leggere le situazioni, modificare l’atteggiamento offensivo di conseguenza, e scovare il punto debole avversario senza necessariamente andare sotto nel punteggio. Reid conosce fin troppo i limiti della sua bestia, destinata a soffrire a meno di un Kelce in devastante forma playoff; lo dimostrano le cinque circostanze consecutive terminate con un punt durante il Championship, situazione nella quale, senza una difesa all’altezza, Kansas City sarebbe stata spazzata via. Solo così i Chiefs hanno potuto liberare la loro versione migliore, quella capace di controllare il cronometro e chiudere le partite grazie alle corse di Isiah Pacheco, altra gemma pescata dai bassifondi del Draft, emerso un anno fa quale titolare inamovibile dopo che lo staff aveva gettato la spugna su una delusione come Edwards-Helaire, sigillando con puntuali primi down ogni desiderio di chiudere i discorsi, con quello stile di corsa alla rombo di tuono, perfetto per un ragazzo che nella vita ne ha dovute passare tante ed è dovuto partire dal basso del roster prima di vedere una luce che non gli aveva garantito nessuno, se non la sua stessa dedizione.

Così, Andy Reid ha perfezionato una lezione che avevamo già appreso a tempo debito da Belichick: mai sottovalutare né lui, né la squadra che allena. I criticati, menomati, diversificati Chiefs sono ancora una volta approdati al Super Bowl, dinanzi a loro i San Francisco 49ers, gli stessi che piegarono nel sommo epilogo della stagione 2019 dopo aver recuperato uno svantaggio di 21-10 nel quarto periodo. Allora aveva risolto tutto Tyreek Hill, oggi invece i Chiefs contano su un Mahomes ulteriormente progredito nella lettura delle difese, nel riconoscimento schematico, immutato nel talento naturale di passatore, nonché su un Kelce tornato a essere incontenibile, fresco del record di ricezioni in postseason ai danni di Jerry Rice, il solito incubo nel singolo matchup, in particolare per i Niners, abituati a giocare a zona quand’è fin troppo chiaro che Travis necessiti di qualcuno che ne sia l’ombra a ogni snap, ed il solo che venga a mente è Charvarius Ward. Non sarà tutto rose e viole, per carità, ci sono adeguati conteggi da eseguirsi sullo stato di salute di una linea offensiva nella quale Joe Thuney è più fuori che dentro, con il sostituto Nick Allegretti un tantino propenso a concedere pressione, con un occhio alla possibile prestazione di Jawaan Taylor, forse la decisione di free agency più discutibile in relazione alla quantità di pass rush fatta passare in direzione del quarterback, in un’equazione che Nick Bosa rischia di poter risolvere a suo favore. Le corse di Pacheco (e McKinnon, qualora dovesse essere in salute accettabile per giocare) saranno determinanti contro l’aggressività del fronte di San Francisco, a volte fuori controllo nel colpire il gap, con il rischio di essere tagliato fuori dall’azione.

L’ago della bilancia sarà tuttavia rappresentato da quel protagonista inatteso: la difesa, che dovrà accerchiare quel diavolo di un McCaffrey. Quella linea così pericolosa, con il solito Chris Jones in doppia cifra di sack, così esperto e scafato in postseason, e quella minaccia di George Karlaftis III, 10.5 atterramenti del quarterback pure lui, così prezioso contro Baltimore, che dovrà tuttavia essere coadiuvato adeguatamente dai backup, Malik Herring e Felix Anudike-Uzomah, i quali si prenderanno gli snap che sarebbero spettati a Omenihu. Quei linebacker, con Tranquil a giocare ovunque gli venga chiesto di posizionarsi, Bolton a fungere da macchina da placcaggio. Quelle secondarie, il reparto meglio assemblato, cariche della consistenza di Trent McDuffie e La’Jarius Sneed, nonché della versatilità di Edwards e Reid.

I Kansas City Chiefs non dovevano essere qui, ma la squadra da battere, gira e rigira, sono sempre loro. Hanno i loro pregi, posseggono più difetti che in passato, ma non hanno dimenticato quel famoso mantra, find a way to win, un qualcosa di intangibile, impossibile da insegnare. Guai, dunque, osare metterli da parte: domenica, nel palcoscenico più prestigioso del football americano, c’è la possibilità di assistere all’ennesima lezione sull’argomento. Garantisce Pat, per tutti quanti.

8 thoughts on “Road To Super Bowl LVIII: Kansas City Chiefs

  1. Riflettevo che a questo punto il premio di MVP, e di seguito anche gli altri ma con meno importanza, ha poco valore se si prende come periodo la sola regular season.
    Si può condurre una stagione strepitosa e poi uscire alla prima partita che conta, togliendo quindi parte del valore di quanto fatto.
    Essendo i playoff composti da 2/3 partite, non infinite serie, direi che si potrebbe tranquillamente considerare anche quelle per il premio finale, visto che viene anche consegnato solo prima del Superbowl.

    • Sempre pensato questo. L’MVP è un gustoso intermezzo, essendo il football merce così rara. Ma i Playoff sono un altro sport (in quanto ancora, di parecchio più rari) per cui l’MVP della stagione non c’entra una beneamata.
      Molto meglio l’MVP del SB, anche se si sa, 999 su mille è già assegnato al QB che vince.

      • No perché poi anni dopo si scorre l albo e vedi un MVP di stagione e tutt altre squadre al Super Bowl magari e ti chiedi perché, perché di tante cose.
        Quest’ anno con questi criteri lo avrei dato a CMC, ringrazio non sia andata così per una scommessa in antepost, ma per ironia devo dire che il primo premiato che ho visto è stato Malcolm Smith e ricordo bene Kupp (l avevo preso quell’ anno) anche se lo meritava Donald. Siamo tutti per l uguaglianza soprattutto nei premi.

      • 58 Superbowl ad oggi, 28 vincitori NON erano quarterback (48%). Mi sa che sei un po’ indietro con le statistiche. Se il quarterback lo vince è perchè ha fatto il suo lavoro in maniera egregia: tant’è vero che persino Brady, Wilson, Manning hanno saltato i loro giri pur incassando l’anello.

        • Io ho senz’altro problemi con le stats; ma qualcun altro ha problemi a contare, dato che il SB n. 58, o come scrivono loro LVIII, si deve ancora disputare😁😁😁🫵

          Sai che c’è anche qualcuno che è convinto che l’ironia sua una remota regione della Bulgaria?😁😁😁

          • Figura di merda non è ‘ironia’ ma sorvoliamo 😌

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