C’è chi parla di destino, chi di sortilegio, chi intasa i social network di inutili minacce assortite, chi impreca e basta. Trentatré giri attorno al sole e non è cambiato niente da quella maledetta sera di Tampa quando, in quel gremito impianto all’epoca conosciuto come The Sombrero, Frank Reich – sì, quel Frank Reich – ricevette lo snap e posizionò l’ovale in verticale, prima dell’impatto del piede di Scott Norwood, il quale avrebbe dovuto regalare la prima felicità della storia ai tifosi di Buffalo. Mancavano pochi secondi, i Giants erano quasi alle corde, Thurman Thomas aveva appena preso un primo down fondamentale, e lo scenario pareva dipinto nella maniera più consona. No, niente da fare, la sorte aveva deciso il contrario. L’ovale se ne andò verso destra, uscendo dalla traiettoria del palo di pochi centimetri, consegnando il Super Bowl XXV a New York, aprendo una ferita che i Bills tuttora tentano di suturare in tutti i modi, fallendo con preoccupante puntualità ciascun tentativo.

Passa una generazione, muta il sottofondo, ma non varia la conclusione. Tra allora e oggi sono successe tante, tantissime cose: quattro Super Bowl persi consecutivamente, anni di anonimato trascorso nel limbo del football americano, quel luogo particolare dove non si è né una brutta squadra da top ten al Draft ma nemmeno si raggiungono i playoff, e poi arriva Josh Allen, la nuova speranza dal poco blasonato college di Wyoming, un ragazzo per molti troppo grezzo per diventare a breve un franchise quarterback, e invece oggi superstar indiscussa della NFL. I Bills non sono più riusciti ad agguantare la presenza alla finalissima, ma hanno comunque vissuto nuove situazioni di crepacuore, spesso e volentieri per colpa di Patrick Mahomes e dei suoi gloriosi Kansas City Chiefs, una nemesi apparentemente insuperabile, l’avversario che guarda da uno scalino più alto del tuo, la rappresentazione dell’eccellenza che Buffalo non riesce a toccare con mano, delegando le speranze di farlo alla preparazione per il campionato successivo.

Doveva andare diversamente, perché si sa, quando si gioca in casa il supporto del pubblico – e a Buffalo di entusiasmo e rumore sugli spalti ne hanno davvero da vendere – può rappresentare la chiave di volta corretta, così come supportare adeguatamente quell’aura di sicurezza insita nei giocatori nell’avere quella briciola di sicurezza in più. Ma non è andata diversamente. E’ andata wide right. Ancora una volta.

I Bills hanno perso per il calcio sbagliato da Tyler Bass, la differenza nel punteggio sta tutta lì, tuttavia sarebbe fin troppo facile additare l’ennesima delusione all’esecuzione di una sola persona, non conoscendo le possibili alternative nell’esito della gara. In fondo, se il kicker di Buffalo avesse centrato i pali si sarebbe potuto assistere all’ennesimo drive della vittoria di Mahomes, a un supplementare quanto mai incerto, o a chissà quale altra alternativa scritta dal fato espresso dalle somme divinità del football, e se la difesa avesse fermato Isiah Pacheco lontano dalla linea del primo down, forse ci sarebbe stata una serie di giochi aggiuntiva. Con possibilità di vittoria ridotte al lumicino, visto il tempo rimasto sul cronometro, ma se non altro Allen avrebbe potuto perlomeno tentare di estrarre qualcosa dalla borsa del prestigiatore.

La sconfitta ci suggerisce che i Bills sono progrediti, ma non ancora al punto di essere diventati dei veri contendenti al trono. Eppure l’atmosfera sembrava quella giusta, e la squadra che aveva terminato la regular season passando dall’undicesimo al secondo posto della AFC concludendo una clamorosa rincorsa su Miami, pareva nettamente differente da quella desolatamente ferma a quota 6-6, con un piede e mezzo fuori dalla postseason e l’obbligo di vincere tutto ciò che c’era da lì in poi, comprese tre sfide contro altrettante avversarie poi qualificatesi per i playoff. Un calendario ostico, improbabile, certamente aiutato dai passi falsi di numerose concorrenti che hanno diversificato la griglia della Conference più e più volte nel corso dell’ultimo mese di gioco, ma che i Bills hanno affrontato come veri e propri uomini in missione, ritrovando se stessi, la loro natura, la loro mancanza di arrendevolezza dinanzi agli innumerevoli infortuni patiti dalla difesa, nonché la bravura nel sopportare il licenziamento a stagione in corso di un offensive coordinator precedentemente determinante nel costruire le fortune di Josh Allen, vale a dire Ken Dorsey. Era logico, da un certo punto di vista, restare diffidenti verso una compagine che aveva performato sotto il par in un numero di circostanze troppo alto per poter pensare al Super Bowl, ma i Bills hanno saputo rivoltare la loro stagione come il più classico dei calzini, giocando più fisicamente sulle corse affidando un peso non indifferente alle giovani e capaci spalle di James Cook, aggiungendo determinanti schemi di successo per le ricezioni del medesimo running back, nonché togliendo il guinzaglio dalle corse personali di Allen, un carro armato in movimento ogni volta che parte con il pallone sotto il braccio, assecondando i suoi istinti cercando di non pensare al cumulo di colpi da prendere, relazionandoli – comprensibilmente – ai possibili gravi infortuni sempre dietro l’angolo.

In gare di questo livello, e di tale tensione emotiva, il risultato è deciso dai dettagli del momento, quando l’ovale pesa più del doppio del normale. Buffalo ha intepretato la contesa per lunghi tratti in maniera perfetta, rispondendo colpo su colpo a quella titolata rivale che ha messo fine a tre delle loro ultime quattro postseason, nonostante la linea difensiva non riuscisse a impattare nel limitare Pacheco, e i linebacker non riuscissero a tenere a bada il turbolento Travis Kelce. Offensivamente i tempi di possesso sono stati gestiti molto bene, con serie di giochi durature, fruttuose, costanti nel prendere sette-otto yard al primo down facilitandosi il compito nei due tentativi successivi, aprendo il ventaglio offensivo a disposizione, tenendo gli errori al minimo. Solo così si è arrivati a poter osservare 51 minuti di football entusiasmante, da battaglia tra colossi, fatto di cinque cambi nella conduzione del punteggio e una lotta che non ha più visto segnare nessuno negli ultimi 14 giri di orologio, esibendosi in una tensione palpabile. Tuttavia, proprio in quegli istanti decisivi, la fretta di mettere sotto i Chiefs ha sortito effetti contrari a quelli desiderati. Le squadre davvero grandi, in quei momenti, non sbagliano nulla.

Al di là della precedente e iper-discussa decisione di eseguire una finta di punt in territorio sin troppo favorevole a Kansas City, altro sintomo di un’impellenza nel chiudere i discorsi con tempistiche non corrette o semplicemente dell’intimorimento nel restare con le spalle al muro, rimangono nella memoria tutte quelle piccole imperfezioni di quei decisivi ultimi due minuti di partita, dei quali il calcio di Bass è stato semplicemente l’epilogo emotivamente più duro da digerire. Forse sarà questa la grande lezione da assorbire nella lunga pausa che Buffalo dovrà trascorrere da qui a settembre, vale a dire l’esercizio di quella pazienza metodica venuta a mancare per paura, per ricordo di quei 13 fatali secondi del Divisional Playoff di due anni fa che sembrava aver messo per le terre il gigante in rosso, quando Mahomes aveva percorso la porzione di campo necessaria per il pareggio di Harrison Butker, nella gara poi vinta dai Chiefs al supplementare. Da un lato l’ultima serie dei Bills ha evidenziato la creatività nel disegno schematico di Joe Brady, il sostituto di Dorsey nelle chiamate offensive, in particolar modo in quel quarto tentativo alla mano con Khalil Shakir a effettuare quella ghost motion così critica per la difesa a uomo degli avversari, tanto da agire indisturbato al momento di una ricezione che – se fallita – avrebbe quasi certamente visto terminare anzitempo le velleità dei padroni di casa. Dall’altro, proporzionalmente all’avvicinamento alla zona utile per segnare, è aumentata l’urgenza di segnare quel dannato touchdown, dimenticandosi di uno Stefon Diggs completamente libero che avrebbe potuto facilmente raggiungere le 15 yard, per non parlare dei due colpi in profondità preferiti a un paio di ricezioni facili nell’intermedio, spingendo troppo sul pedale del colpo mortifero, che non avrebbe tra l’altro eliminato il tempo a disposizione di Mahomes per tentare la contro-risposta. Sarebbe stato sufficiente accontentarsi di ciò che la difesa proponeva nell’ambito degli spazi liberi, dato che i Chiefs avevano ottimamente pattugliato i possibili big play per tutta la partita, ottenendo una posizione più favorevole per Bass, o potendo tentare una delle corse che Allen aveva portato a termine con eccellente costanza nei guadagni, in una gara che aveva visto i Bills confezionare ben 182 yard a terra.

Rimane invece l’amaro, solo quello, e la consapevolezza che neanche stavolta era l’anno giusto, per quanto lo spogliatoio sentisse che lo fosse. Rimangono i dubbi, le frustrazioni di tifosi che si sentono perseguitati da un malocchio inestinguibile, le grosse decisioni della prossima offseason, nella quale il general manager Brandon Beane dovrà eseguire salti mortali per tagliare quel disavanzo di quasi 50 milioni di dollari che la sommatoria degli stipendi porrà in eccesso nei confronti dei limiti del salary cap. Rimane la necessità di affrontare il futuro di uno spento Diggs – uno dei due colpi in profondità in fase finale poteva essere agguantabile da un ricevitore del suo calibro – e del suo oneroso contratto, nonostante i tre mesi senza collezionare una partita da 100 yard, e soprattutto da considerare l’età avanzata di una difesa che rischia di perdere i pezzi, tra infortuni gravi come quelli di Matt Milano, Tre’Davious White e Micah Hyde, nonché l’età e il calo di rendimento di Jordan Poyer e Von Miller, il quale graverà per 24 milioni nella contabilità del prossimo anno senza aver ottenuto un singolo sack in questo.

Di questa ennesima cavalcata possibilmente vincente non resta che polvere, e rimangono le speranze disattese atte a regalare alla franchigia una soddisfazione in grado di cancellare per sempre quell’identità di choker – non del tutto condivisibile se non altro per la grandezza di quei Bills degli anni novanta – che resta fatalmente attaccata come la più scomoda delle etichette, di cambiare una volta per tutte il corso degli eventi, e, una volta tanto, trascorrere il gelido inverno nei paraggi delle Niagara Falls a festeggiare, anziché leccarsi di nuovo ferite riaperte. Se sia questo l’apice di quest’epoca dei Bills non ci è dato sapere, ma è chiaro che la situazione, così com’è, ancora richiede cautela prima di permettersi di pensare in grande. A Beane il compito di assemblare i pezzi corretti per assolvere al compito navigando nella difficoltosa contabilità dell’organizzazione, rimpinzando il roster di ricevitori di talento e soprattutto svecchiando la difesa. Il tempo corre, e non aspetta nessuno, e nel frattempo le sconfitte impossibili da dimenticare si accumulano.

 

9 thoughts on “Buffalo Bills, il presagio continua…

  1. Grazie per questo ricco articolo sulla squadra più bella del mondo. La mia opinione l’ho già espressa sotto gli articoli dei giorni scorsi, ma vorrei aggiungere due cose:

    Sinceramente, non avevo la sensazione che questo fosse l’anno giusto, anche se avessimo battuto i Chiefs: la difesa era troppo incerottata per pensare poi di battere Ravens e 49ers/Lions. Due anni fa, invece, c’era la sensazione che battendo Kansas City poi saremmo arrivati sino in fondo.

    Il field goal finale al “Super bowl” del 1990 (o 1991 che dir si voglia) non era poi così scontato, anzi, per gli standard dell’epoca era abbastanza difficile: siamo abituati oggigiorno a vedere kicker che la mettono costantemente da oltre 50, a volte anche da 60, ma all’epoca 47 yard erano tante. Sono andato a vedere le statistiche di Norwood in quella stagione: il field goal più lungo che aveva tentato era da 48 yard; quindi si è trovato all’ultimo secondo del “Super bowl”, con la comprensibile tensione del momento, a dover calciare il secondo field goal più lungo della stagione.

    Guardando le statistiche di tutta la Nfl, nel 1990 i kicker siglarono un 28/78 (35.9%) da oltre le 50 yard; nel 2023, hanno siglato un 158/230 (68.7%). Se prendiamo in esame i calci tra le 40 e le 49 yard, nel 1990 troviamo un 146/235 (62.1%), nel 2023 un 219/275 (79.6%). Non so quale sia la motivazione tecnica per questo miglioramento, fatto sta che non possiamo giudicare un calcio dalle 47 yard del 1990 con gli occhi di uno spettatore del 2023.

    • Anche io leggendo i commenti di questi giorni, sono andato a vedere le stats del tempo. Norwood ad esempio si posiziona sul 72% in carriera. Insomma, l’eventualità di sbagliare è tangibile. E al tempo, 47 yard erano tante. Fossi un tifoso Bills, mi peserebbero ben di più i titoli persi successivamente, in occasioni nelle quali sinceramente i Bills non mi parvero dare sempre il loro meglio.

      Esattamente come metterei in prospettiva quest’anno. Per come si era messa, è stata una stagione che nella seconda parte ha dato dei segnali molto incoraggianti. Mi dorrei ben di più per l’indecorosa uscita dell’anno scorso. Lì sì che secondo me possono esserci i rimpianti.

      • Da qualche parte avevo letto (mi pare Wikipedia) che le statistiche di Norwood erano pessime sull’erba naturale.
        Potrebbe anche essere che il miglioramento delle statistiche attuali dei calciatori sia dovuto a campi sintetici e stadi coperti. Bisognerebbe fare una comparazione in tal senso probabilmente.

  2. C’è anche da dire che dal 6-6 le hanno vinte tutte in regular season e avrebbero dovuto vincere anche tutte le partite di playoff e arrivare a una decina in fila. Mi sembra eccessivo per una squadra così discontinua anche all interno di una stessa partita. Legge dei grandi numeri, livelli che si alzano e tutti i vari contorni. Mi sembrava piuttosto complicato.

    • giusta disamina Steven, era praticamente impossibile fare un filotto del genere ..

  3. Quello che hanno fatto i Chiefs rasenta l’incredibile.Una vittoria contro tutto e tutti,nonostante il funball (molto dubbio ) di Hardman che sembrava fosse un segno del destino.
    Grandissimo Spagnuolo che li ha lasciati correre per tutta la partita,facendo arrivare alla fine la loro linea d’attacco distrutta.
    Domenica un altra partita sulla carta segnata,ma chissà…
    Go Chiefs!!

    • segnata dalla vittoria dei Chiefs dirai…loro sono i campioni ed anno un mostro in regia (sportivamente parlando). GO RAVENS I..I

  4. Analisi che condivido.
    Tutta la gara a fare le formichine e poi due pallacce tirate in end zone invece di prendersi quello che c’era sul tavolo.
    Col risultato di lasciare il povero Bass, un rookie non dimentichiamoci, a tirare dalle 44 un calcio difficilissimo per condizioni climatiche, ambientali, emotive…
    Un vero peccato.

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