Chi poteva immaginare, tra tutte le franchigie della nostra amata lega, che dopo 49 anni dalle loro ultime Finals fossero i St. Louis Blues ed Alex Pietrangelo, sulle note di Gloria, ad alzare la coppa di Lord Stanley?

Non ci sono riusciti con Bernie Federko e neppure con “The Golden Brett”. Non ci sono riusciti neanche con Gretzky. Ma ci sono riusciti con una squadra che, come ormai ci siamo sentiti ripetere migliaia di volte, era in fondo alla classifica della intera lega a Gennaio. Ma come ha fatto questo miracolo ad avvenire? Come ha potuto un prodotto apparentemente difettoso diventare campione?

Per prima cosa sottolineiamo come tutti i membri del roster al di fuori di Alex Pietrangelo ed Alexander Steen siano stati acquisiti dall’attuale GM, Doug Armstrong, che già però nel 2008, anno in cui Pietrangelo e Steen divennero pare del club, figurava nella dirigenza. Armstrong aveva sicuramente un preciso piano in mente per arrivare alla coppa, ma forse non si aspettava un traguardo raggiunto così sorprendentemente.

Giocatori come Tarasenko e Schwartz, Parayko, Binnington e Vince Dunn sono tutti stati selezionati dall’attuale GM, rendendo St. Louis un team costruito principalmente sul draft. Attraverso i trade poi, prima nel 2013 e poi nel 2017, Armstrong acquisisce due pezzi fondamentali: il veterano Bouwmeester da Calgary ed il centro/ala Brayden Schenn dai Philadelphia Flyers. Ma forse il trade per cui i fan di St. Louis ringrazieranno per sempre il loro GM è quello avvenuto poco meno di un anno fa.

1 Luglio 2018: il Trade di Ryan O’Reilly

Doug Armstrong era definitivamente deluso dal fatto di essere stati estromessi dai Playoff per la prima volta dopo 7 anni. Fiducioso del gruppo che ha costruito nel tempo, Armstrong ha però deciso di seguire il trend che Pittsburgh, Washington e i vari team che hanno vinto la coppa o ci sono andati vicino hanno adottato: Strength in the Middle.

Secondo il GM il segreto per una squadra pronta alla vittoria è quello di avere della profondità nel ruolo chiave dell’hockey: il Centro. Basta pensare al one-two punch di Crosby e Malkin, piuttosto che al trio Backstorm-Kuzy-Eller per gli uscenti campioni del momento, i Caps, per capire come questa potesse essere la formula giusta. Dopo essersi assicurato Bozak in Free Agency come centro per la sua checking line, la terza linea solitamente utilizzata per contenere la first line avversaria, Doug Armstrong decide di affondare il colpo e di acquisire uno dei più sottovalutati, alla luce degli eventi, centri attualmente attivi nella lega: Ryan O’Reilly.

Stufo di partecipare ai World Championship ogni anno a causa dei fallimenti dei Buffalo Sabres, Ryan O’Reilly sembrava essere destinato al trade in ogni caso. Molti team si erano interessati a lui, uno su tutti i San Jose Sharks dopo aver fallito nel portarsi a casa la superstar John Tavares, ma alla fine l’ha spuntata Doug. Due veterani come Sobotka e Berglund, il prospetto Tage Thompson e una selezione al secondo round nel 2021 ai Sabres. Vedendola adesso, questo potrebbe essere uno dei migliori trade degli ultimi vent’anni.

19 Novembre 2018: Coach Berube prende il potere in panchina

I Blues erano adrenalinici prima dell’inizio della stagione: la magica linea di Schenn, Schwartz e “The Tank” Vladimir Tarasenko, la leadership di Pietrangelo e lo strapotere fisico di Parayko, i veterani Alex Steen e Jay Bouwmeester ed il promettente rookie Robert Thomas sembravano essere tutti gli ingredienti necessari per fare bene. E poi c’era lui, O’Reilly, il nuovo arrivo pronto a dare una scintilla. Ma le cose, purtroppo, sono presto crollate.

Coach Yeo non riesce a mantenere unito uno spogliatoio che si sta innervosendo, per stessa ammissione dei giocatori dei Blues. Allen per l’ennesima volta sta offrendo una performance sotto quello che ci si aspetta e sembra che l’attesa debba andare avanti. Dopo il cambio di Coach, le cose non migliorano e quando St. Louis viene umiliata, in casa, 6-1 dai giovani Vancouver Canucks la situazione esplode: Brayden Schenn ammette la fragilità del gruppo, Tarasenko si vergogna della situazione ed i fan iniziano a scagliarsi contro i leader, chiedendo un cambiamento ed etichettando Alexander Steen ed Alex Pietrangelo come incapaci di essere leader. Un necessario shock arriva quando Armstrong decide di licenziare Yeo ed affidare ad uno dei suoi assistenti, Craig Berube, con i Blues dal 2017 e con precedente esperienza soprattutto da giocatore ma anche da head coach dei Flyers, seppur con scarsi risultati.

7 Gennaio 2018: Jordan Binnington parte da subito tra i pali

Uno shut-out contro i Philadelphia Flyers, condito da 25 saves, è il debutto ufficiale dal primo minuto da un ragazzo di 25 anni che sembrava già destinato ad essere un perenne giocatore della AHL. Jake Allen ha deluso, Chad Johnson non poteva offrire di meglio e quindi Berube ha deciso di rischiare, mandando in campo un semi-sconosciuto che ha finito per essere finalista del Calder Trophy ed eroe di un formidabile Game 7 a Boston.

Ma chi è e da dove arriva veramente questo ragazzo? Ottantottesimo pick del draft 2011, 5 anni nelle leghe minori, per la precisione in OHL negli Owen Sound Attack, Binnington si dimostra già qui un goalie da playoff: trascina nel 2011 la sua squadra alla vittoria della John Robertson Cup in una finale con tanto di game 7, neanche a farlo apposta. Nel 2013 abbandona le juniors e si trasferisce in pianta stabile nella AHL per migliorare il suo gioco, arrivando nel 2018 ad essere parte dell’All-Star Classic.

E poi, tutto d’un tratto, la chiamata di Coach Berube: Binnington non si è più fermato. Stone Cold, ecco come lo definiranno gli esperti, un goalie capace di mantenere la calma e di non farsi mai prendere dal panico o dal nervosismo, nemmeno nelle partite che contano di più.

La sicurezza maggiore tra i pali e uno dei due ingredienti che giocatori come Pat Maroon e Alex Pietrangelo citeranno come la chiave per il turnaround miracoloso della loro squadra.

Ed il secondo elemento? La filosofia di Craig Berube

Berube non è solo un allenatore, è un giocatore che ha superato le 1000 in NHL, giocando ben 1054 regular season games tra il 1986 ed il 2003. Ed il dato che più lo contraddistingue è il seguente: settimo posto nella storia per penalty minutes in carriera. Sì, Craig Berube era un enforcer di quelli veri, di quelli Old School. Neanche a farlo apposta, la sua casacca di debutto è quella dei Flyers e probabilmente non c’è nessuno che apprezzi un giocatore del genere tanto quanto chi ha tifato e vissuto i Broad Street Bullies.

Questo modo di giocare, questa rabbia ed enfasi sul gioco fisico, sulla regola di “sempre finire il tuo check sull’avversario”, su un fore-checking senza ritegno è il fondamento dell’idea di hockey di Craig che, in un’era contraddistinta da un’evoluzione moderna del gioco ci rimanda al ghiaccio di altri tempi dove a dominare era chi sapeva picchiare più forte.

Sono tanti i giovani che Berube fa sbocciare, soprattutto nei playoff: è lui a dare l’opportunità a Binnington, lui a trasformare la fourth line di St. Louis in un trio del terrore incoraggiando Sundqvist e Barbashev a cambiare il proprio gioco. È lui a decidere di spezzare la big line e di mischiare un po’ le carte in tavola.
Tutti i giocatori, alla fine della loro splendida avventura, sottolineano però un aspetto per nulla collegato al gioco: quel burbero di Berube ha fatto soprattutto una cosa per il team che era necessaria e che è stata determinante. Gli ha uniti. Il suo grande merito è stato quello di trovare di nuovo quell’armonia che si era persa e guarda dove questi ragazzi sono arrivati.

Quindi, per concludere, ecco gli ostacoli e l’incredibile percorso che i Blues hanno affrontato nella Post-Season.

First Round: Winnipeg Jets

Prima una serie combattuta ed incerta contro i Winnipeg Jets arrivati a sfiorare le finali l’anno precedente ma con un Patrik Laine irriconoscibile (si scoprirà poi di problemi fisici non indifferenti per il cannoniere dei Jets) forse anche penalizzato dai troppi aggiustamenti tentati su di lui da Paul Maurice. I Blues fanno 2 a 0 a Winnipeg, i Jets recuperano con due vittorie all’Enterprise Center. La sfida però finisce a Game 6, dopo che Winnipeg viene travolta da un third period fenomenale dei Blues al Bell MTS Place durante game 5. Sotto di 2, O’Reilly e Schenn la pareggiano e dopo un’occasione sprecata da parte di Hayes e una pessima decisione di Jacob Trouba, Schwartz devia uno shot pass di Bozak consegnando la vittoria ai Blues che poi la chiuderanno nel game successivo.

Quarter-Finals: Dallas Stars

Un’altra sorpresa, con i texani che hanno inaspettatamente freddato Nashville guidati da coach Jim Montgomery. Una squadra che, pur avendo due coach diversi sotto ogni punto di vista, giocano quasi identicamente. E questo non può altro che portare ad uno scontro senza esclusioni di colpi e ad un Game 7 da capogiro. Ben Bishop è mostruoso e i Blues non riescono a passare, ma l’eroe del giorno è il rookie Thomas: in una linea con i veterani Maroon e Bozak che si comporta egregiamente per l’intera serie, Thomas è indiavolato e nessuno lo riesce a prendere sul ghiaccio. Alla fine sarà sua la giocata definitiva: faceoff offensivo vinto da Bozak, qualche mossa per disorientare l’avversario e Thomas scaglia il disco in rete e anche se Bishop riesce a fermarlo, nulla può contro un Pat Maroon pronto e decisivo. St. Louis avanza alle Western Conference Finals dopo due overtime.

WC Finals: San Jose Sharks

Sono gli Sharks di Burns e Karlsson, di un ritornato Joe Pavelski e di un certo Jumbo Joe che non può lasciarsi sfuggire forse la sua ultima occasione. Dopo una serie pazzesca contro Vegas e dopo aver sconfitto gli Avs del magico trio McKinnon-Rantanen-Landeskog, gli Sharks sono pronti a fronteggiare i St. Louis Blues in una serie che si preannuncia fisica. Ma è in questa serie che O’Reilly si accende: se dal punto di vista difensivo Ryan ha fatto tutto quello che ci si aspettava, da quello offensivo per ora si era visto poco ma contro San Jose è stato senza dubbio il giocatore più determinante, offrendo una performance spaziale durante Game 6, l’ultimo della serie, con tre assist su cinque goal del 5-1 finale.

Stanley Cup Finals: Boston Bruins

Lo scherzo definitivo da parte del destino: il fantasma di Bobby Orr ancora aleggiava tra le fila dei tifosi di St. Louis. I Bruins sono stati la squadra che sconfisse i Blues nella loro ultima apparizione nelle Finals, nel lontano 1970. Quasi 50 anni dopo eccoli lì: Orr fortunatamente non c’è più, ma il talento non manca. “The Perfect Line”, Patrice Bergeron, Brad Marchand e David Pastrnak. Il veterano Zdeno Chara, Krug e McAvoy, David Krejci. Ed un Tuukka Rask in spolvero totale. E dopo una vittoria a Boston, i Bruins si prendono game 2 e game 3 ed è il terzo a fare male, con uno schiacciante 7-2 in casa dei Blues che manda il morale a terra. Ma ecco che il gruppo si dimostra speciale: game 4 è tutta un’altra storia e O’Reilly è ancora protagonista con due goal, il secondo game winner, che probabilmente gli hanno assicurato il Conn Smythe Trophy.

Poche franchigie sono state fedeli e pazienti tanto quanto i St. Louis Blues per vincere la loro prima Stanley Cup ed è incredibile come non solo la coppa li eludesse da 50 anni ma addirittura le Finals fossero rimaste irraggiungibili per così tanto tempo, pur vantando giocatori straordinari.

Ma l’hockey è uno sport fatto anche di tanta imprevedibilità e di momenti di assoluta sorpresa e questi ragazzi hanno regalato a tutti gli appassionati, indipendentemente dalla squadra del cuore, una post-season da urlo ed un vero “Miracle on Ice”.

 

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