Vivere all’interno dei Canadiens non deve essere mai stato facile per giocatori, allenatori e general manager, soprattutto dopo la gloriosa e ultima stagione del 1992/93, anno nel quale alzarono la loro ultima e 24° Stanley Cup i “padrini” Patrick Roy e Guy Carbonneau.

Nati nel Quebec come molti dei loro compagni, sono stati, allo stesso modo dei tifosi e conterranei, attenti a “verificare” la provenienza dei loro futuri colleghi. E’ importante questa precisazione perché tra le difficoltà di cui abbiamo precedentemente accennato c’è anche l’orgoglio della “mètropole”, nel quale gli “stranieri” presenti in rosa devono sottostare alle ferree e tacite leggi di un mondo praticamente a parte che spesso ha creato nella NHL un “tutti contro Montreal”.

Oltre al capitano e l’alternato, tra i grandissimi idoli che rimarranno indelebili nella mente dei loro fan di quella grande epoca possiamo notare infatti come quasi tutti, allora giovanissimi, fossero di stanza nella seconda provincia più popolosa canadese: Denis Savard, Vincent Damphousse, Stephan Lebeau, Eric Desjardins e Patrice Brisebois.

Una squadra quasi tutta a foglia d’acero dove l’unico grande giocatore statunitense, comunque draftato e sbocciato in casa, fu John LeClair, successivamente bandiera a Philadelphia. Sarebbe stato impensabile a quei tempi immaginare di poter un giorno vedere sul ghiaccio del Centre Bell la C nella casacca di un giocatore del Connecticut, come avvenuto fino a ieri.

Purtroppo come sappiamo le disparità economiche tra team canadesi e quelli a stelle e strisce hanno permesso la “migrazione” della maggior parte dei propri talenti negli USA “mischiando” le squadre e togliendo la vecchia tradizione presente fino agli anni 80 ed inizio 90 dove in pratica il dominio era netto.

Basti pensare che dal 1944 al 1993 furono ben 35 le volte in cui la coppa venne alzata da un team a bandiera biancorossa. Gli Habs ancora oggi si vantano di essere gli ultimi ad aver trionfato “alla vecchia maniera”.

Questo porta da due decenni a critiche, distacco e molta diffidenza verso chi si avvicina da queste parti specie perché i risultati scarseggiano, anche per errori tecnici e scelte sbagliate.

Da qualche anno però si è ricominciato a guardare (forse troppo) in grande con quattro vittorie divisionali aumentando così le aspettative verso il lavoro di Marc Bergevin, GM al settimo anno e artefice di ottime mosse che hanno portato a vincere con lui al timone tre volte l’Atlantic sia col vecchio head coach Michel Therrien che con Claude Julien.

Quest’anno comunque, reduci da una stagione chiusa amaramente al sesto posto di girone con 71 punti e l’impossibilità di competere per i vertici di Conference visti la presenza di funambolici attacchi (Lightning, Capitals e Maple Leafs) e di top team sempre in vetta (Bruins, Penguins, Flyers e Devils), non si avevano ambizioni da playoff, in particolar modo dopo le non convincenti acquisizioni di mercato come la scelta al draft per Jesperi Kotkaniemi, la cessione di Max Pacioretty ai Golden Knights con l’arrivo di Tomas Tatar e la trade che ha portato Alex Galchenyuk – qui da sempre – ad Arizona e Max Domi nel Quebec, con un biennale da 6,3 milioni di dollari.

Ad oggi il rookie se la cava alla grande in terza linea come assist man e nella prima powerplay unit, l’ex capitano a Vegas spesso ai box non si sta dimostrando un fattore e il centro ai Coyotes è in regressione mentre MD#13 è semplicemente la star offensiva qui a Montreal primeggiando in ogni statistica d’attacco e il ceco ha quadruplicato i numeri dello scorso anno a poco più di un terzo del cammino generando con Danault e Gallagher una second line di cecchini.

Se aggiungiamo che la squadra è tra le prime sei della Eastern Conference con un discreto margine sull’ultimo posto utile per la postseason, possiamo tranquillamente affermare che il 2018/19 per i Canadiens si sta rivelando una piacevole sorpresa. Il tutto nonostante, come detto, le aspettative e le pressioni iniziali dei media fossero inferiori al recente passato.

Questo anche grazie al coach, intelligente e coraggioso nel riportare Jonathan Drouin nel suo ruolo di ala al fianco del numero 13 nella top line, tanto da permettere al ventitreenne nato proprio da queste parti di avvicinarsi a ripetere le prestazioni di Tampa, quando nella sua migliore stagione (2016) realizzò 53 punti in 73 partite. Inoltre non si è tirato indietro nel proporre come visto matricole o profili da leghe minori.

Oltre a Pacioretty e Tatar la trade ha riguardato il giovane prospetto Nick Suzuki e una scelta al 2° turno dell’Entry Draft 2019. Il talentuoso Joel Armia, ala dai Jets, firmato a 1,85 milioni a contratto annuale, insieme al difensore francese Xavier Ouellet ed al free agent e “rientrante alla base” Tomas Plekanek, fanno rifiatare i titolari.

Ottimo il contributo dei nuovi Matthew Peca dai Lightning, Kenny Agostino, left wing da Boston e Michael Chaput, preso da Vancouver, parcheggiato in AHL e ora a roster, decisivo insieme ai due colleghi in una quarta linea molto calda con la bellezza di 14 pts solo a Dicembre.

Un attacco bilanciato nelle realizzazioni è da sempre nelle corde di questa franchigia, famosa più per una lotta di gruppo rispetto che alle prestazioni offensive di solisti. Gallagher, Shaw, Danault e Lehkonen allungano la prolificità dell’attacco arrivando quasi tutti a 20 punti, ai quali si aggiunge il sempre utile alternate Paul Byron con 12.

Dopo tanta attesa è finalmente rientrato Shea Weber. Difatti, a seguito dell’infortunio al ginocchio destro nel dicembre scorso, è andato di nuovo sotto i ferri questa estate per la pulizia del menisco allungando i tempi di recupero. Col ritorno del 30° capitano nella storia Habs, grandissimo per tutta la sua gloriosa carriera ad abbinare le due fasi, Jeff Petry – alla sua miglior stagione – sta ricevendo quell’aiuto prima assente dalle altre defensive pairs. Tra i due e Mike Reilly, il terzo scorer tra i difensori, c’è infatti un abisso.

Shea viene sovente accoppiato a Brett Kulak, ex Flames, urgentemente richiamato dai Laval Rocket in American Hockey League per fronteggiare nella first DL l’assenza del mancino Juulsen. Quest’ultimo, una volta rientrato, è stato retrocesso in terza per estendere la profondità di una retroguardia non proprio registrata e punto debole finora, almeno per quel che riguarda i gol subiti, nonostante un mostro sacro come Carey Price a proteggere quella che come detto è stata la porta di una leggenda NHL: Patrick Roy.

Unico con più di 10 milioni di stipendio (fino al 2024), la bandiera trentunenne, al dodicesimo anno sempre a tinte red, white & blue, si ritrova infatti con la più bassa Save Percentage in carriera e la più alta media per reti a partita.

Come detto, ad una cinquantina di partite dal termine, l’ambiente da sempre caldo ed esigente può ritenersi soddisfatto a prescindere; le scelte impopolari ma coraggiose fatte per ringiovanire e scommettere sul futuro hanno smosso un team depresso dai recenti insuccessi portando inaspettatamente risultati positivi sin da subito.

Certo, guardare in alto a Est ci sembra francamente troppo, ma giocarsi l’accesso ai playoff pare nelle corde dei ragazzi di Julien, anche alla luce delle attuali stecche di Flyers e Devils.

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