Siamo diventati insensibili ai Kansas City Chiefs. Frase piuttosto lapidaria, ne sono consapevole, ma è una frase oggettivamente vera. L’abitudine e la prevedibilità annacquano lo stupore fino a trasformarlo in aspettativa: noi tutti ci aspettiamo che i Kansas City Chiefs vincano, divertano e rimpinguino la bacheca. Siamo arrivati al punto in cui qualsiasi epilogo che non contempla coriandoli e Lombardi Trophy può essere bollato come delusione perché, per l’appunto, siamo diventati insensibili alla loro straordinarietà.

Fortunatamente, però, la scorsa offseason ha sparigliato le carte su più tavoli. Le dipartite di Hill, Ward e Mathieu, teoricamente, avrebbero dovuto fiaccare ulteriormente una squadra che a causa dell’ascesa dei Bengals era già stata spodestata dal trono della conference.
Il resto della AFC West, esasperato dal lustro di egemonia biancorosso, è corso ai ripari nel modo più spettacolare possibile.
I Broncos hanno aggiunto il tanto agognato franchise quarterback che, affiancato a un reparto difensivo perennemente dominante, avrebbe dovuto permettere loro di entrare nel gotha della AFC. I Chargers hanno saggiamente puntellato la difesa assicurandosi due pezzi da novanta come Khalil Mack e J.C. Jackson. I Raiders, spinti alla nevrosi dall’iperattività generale, si sono assicurati in fretta e furia Davante Adams e Chandler Jones, due giocatori che non hanno bisogno di presentazioni.
I Chiefs, mogi mogi, si sono rivolti ai vari Marques Valdes-Scantling, Juju Smith-Schuster e Justin Reid, tutti onesti mestieranti che difficilmente avranno aiutato i tifosi a digerire le dolorose perdite.

Non era assolutamente necessario avventurarsi in chissà quale riflessione, dopo quattro Championship Game consecutivi e due capatine al Super Bowl un calo di rendimento era naturale, fisiologico. Soprattutto in una division galvanizzata da un’offseason – sulla carta – eccellente.
L’andamento di una dinastia non è rappresentato da una linea retta ma da una sinusoide, i bassi sono il retro della medaglia degli alti che Kansas City aveva vissuto fino a quel punto.
Insomma, eravamo collettivamente pronti a un passo indietro dei Chiefs curiosi di vedere chi ne avrebbe preso il posto poiché la flessione sarebbe obbligatoriamente arrivata: non era una questione di se, ma di chi.
Ci ha poi pensato il campionato a ricordarci che ogni parola da noi proferita in offseason altro non sia che tedioso rumore di sottofondo.

I Kansas City Chiefs, contrariamente a quanto siamo stati spinti a credere, sono ancora i Kansas City Chiefs. Finché questa squadra potrà contare su Patrick Mahomes, Travis Kelce, Chris Jones e Andy Reid saremo costretti a eleggerli automatici favoriti indipendentemente dal contesto. Non importa quanto si sforzi il resto della division o quanto affamati possano essere i Buffalo Bills di turno, ogni nostro ragionamento deve avere come origine i Chiefs di Mahomes e Reid.
Il contesto attorno ai punti fermi appena sciorinati, però, è cambiato drasticamente.
Rimpiazzare un giocatore come Tyreek Hill è impossibile perché, molto semplicemente, nella centenaria storia di questa lega di Tyreek Hill ce n’è stato solo uno. Normalmente, quando si parla di costruzione di un roster, si tende a ragionare in termini aritmetici come se ci trovassimo davanti a un’equazione: sposti a destra, sposti a sinistra, cambi di segno, fai quello che vuoi basta che non ti salti in mente di far scomparire qualcosa. Nel caso di Hill, invece, un’incognita si è letteralmente smaterializzata, altroché cambio di segno.

Reid e Mahomes, con encomiabile maturità, non hanno battuto ciglio consapevoli dell’ovvio, ossia che avrebbero dovuto ridisegnare l’attacco attorno ai punti di forza dei giocatori a disposizione. Fortunatamente per loro potevano ancora contare su Travis Kelce, individuo che rende il successo di chi gli sta attorno una logica conseguenza della propria grandezza. Più che i Kansas City Chiefs, quelli di quest’anno mi hanno ricordato da vicino i New England Patriots per la disumana metodicità con cui si sono mossi su e giù per il campo. L’arsenale a disposizione di Patrick Mahomes non è mai stato così variegato e ciò lo si intercetta studiando la ripartizione dei target.

Il numero 15 ha dato più di 70 target a Travis Kelce, Juju Smith-Schuster, Marques Valdes-Scantling e Jerick McKinnon, tutti giocatori profondamente diversi fra di loro in quanto troviamo nella stessa frase il tight end superstar, l’archetipico ricevitore di possesso, un evanescente deep threat e il classico running back da terzo down elevato, però, a qualcosa di molto più centrale che una semplice valvola di sfogo.
Tale varietà la ritroviamo nel backfield dove ognuno fra Pacheco, Edwards-Helaire, McKinnon e Jones si è ritagliato il proprio spazio. Trovatemi un backfield con dei running back altrettanto diversi fra di loro.

Attutire gli effetti di un cambiamento avvenuto in offseason è indubbiamente più semplice che farlo in medias res durante i playoff, quel magico periodo dell’anno in cui il margine d’errore si assottiglia al punto di scomparire. Reid e Mahomes hanno realizzato piuttosto velocemente che il cambiamento, sebbene spaventoso, potesse diventare la loro nuova arma più pericolosa e non hanno avuto problema ad accogliere il cambiamento pure in offseason.
Certo, non me li immagino particolarmente entusiasti di doversi rivolgere a Marcus Kemp e Skyy Moore durante gli ultimi quindici minuti del Championship Game contro i Bengals, ma se c’è una cosa di cui questa loro versione non ha paura è saltare nel vuoto.

Ciò che li rende speciali – e in un certo senso soddisfacenti – è il fatto che questo Super Bowl non sia un affare fra i soliti noti, ma il prodotto di uno sforzo collettivo. Sono arrivati al Super Bowl anche grazie al drive di Chad Henne contro i Jaguars. Sono arrivati al Super Bowl anche grazie alle giocate di un anonimo rookie come Jaylen Watson. Senza qualche big play dei vari Skyy Moore e Justin Watson non credo sarebbero arrivati a giocarsi l’ennesimo Super Bowl. Ci spertichiamo per incensare adeguatamente Travis Kelce, ma senza il silenzioso contributo di Noah Gray, Jody Fortson e Blake Bell coach Reid non avrebbe potuto schierare l’inarrestabile formazione a tre tight end.

Il discorso è simile pure sul versante difensivo. Potrei dedicare interi articoli a Chris Jones, superstar la cui brillantezza è offuscata solamente da quella dell’indescrivibile Aaron Donald, ma andrei fuori tema. Esattamente come in attacco, giocatori insospettabili sono stati costretti a ricoprire ruoli primari: figuratevi che contro i Bengals Spagnuolo è stato costretto a rivolgersi a Trent McDuffie, Jaylen Watson e Joshua Williams, tre cornerback al primo anno fra i professionisti chiamati a marcare Ja’Marr Chase, Tee Higgins e Tyler Boyd.

Pur non senza qualche difficoltà, sono riusciti nell’impossibile e in un modo o nell’altro hanno limitato la temibile batteria di ricevitori a disposizione di Joe Burrow.
Esattamente come il picaro nella novella picaresca, questo reparto è riuscito a sopravvivere di espedienti trovando sempre e comunque un modo per portare a casa la giornata. Raramente belli, mai spettacolari o convincenti, hanno fatto quello che dovevano fare: avete presente il patriottico do your job? Una cosa del genere.

Il pacchetto preferito di Steve Spagnuolo è il dime, ossia quello in cui vengono schierati quattro defensive lineman, un linebacker e ben sei defensive back, un pacchetto leggero che contro Philadelphia difficilmente potrà portare lontano vista la fisicità della loro linea d’attacco. Pure in questo caso, quindi, Kansas City sarà costretta a reinventarsi per sopravvivere e, infine, portare a termine la propria missione.
Anche per questa ragione credo che possiamo aspettarci grandi partite delle loro superstar, nello specifico Chris Jones e Frank Clark. Starà a loro infatti rendere più facile la vita ai compagni di squadra togliendo dalle loro spalle quante più responsabilità possibili. Non sarà l’exploit del singolo a condurli al secondo Super Bowl in quattro anni, ma è terribilmente umano aggrapparsi alle proprie certezze nel momento del massimo bisogno.

Non ci sarebbe proprio nulla di scontato nella loro vittoria.
Spogliati della loro immortalità, i Chiefs sono venuti brillantemente a patti con la straniante umanità e con umiltà si sono messi in discussione al punto da rivoluzionare tutto cambiando modo di giocare e filosofia. Sono finiti tempi dei drive da una giocata, le ripetute big play su cui era fondata la loro identità hanno lasciato spazio a corse da quattro-cinque yard di Pacheco, corse che ci mettono davanti a un football fisico e cattivo che di spettacolare non ha proprio niente… almeno fino a quando la difesa avversaria, esasperata dai costanti guadagni medio-corti, non lascia loro uno spiraglio per colpire in profondità.
E con Mahomes a far volare l’ovale sapete che ogni errore tende a essere pagato a caro prezzo.

Sarà fondamentale che la linea d’attacco, ristrutturata in seguito al disastro di Tampa Bay di due anni fa, imponga la propria fisicità sull’incontenibile front seven degli Eagles. Il claudicante Mahomes non potrebbe essere fisicamente in grado di replicare le commoventi fughe per la libertà dell’ultimo Super Bowl giocato.
Nel furioso e brillante restauro della linea d’attacco è incapsulata la reattività di un front office che, mai pago, non si è adagiato sugli allori garantiti da un lustro di dominio e con estrema umiltà e autoconsapevolezza ha fatto i salti mortali per correggere nel minor tempo possibile un debilitante difetto strutturale che avrebbe potuto mettere a repentaglio la salute di Mahomes.

Multiformi e poliedrici come Ulisse, i Chiefs si sono ripresentati al Super Bowl al termine di un percorso tortuoso e nevrotico che, però, è servito a restituirceli sotto una luce diversa, quella degli underdog. Noncuranti delle tante difficoltà che sono stati costretti a superare – o raggirare – hanno ribaltato i pronostici contro gli stessi Bengals che erano riusciti a mettere in dubbio la loro egemonia sulla conference. Domenica, ancora una volta “sfavoriti”, dovranno trovare modo di imporsi su un’avversaria più sana e profonda.
I dubbi sono tanti, lo ammetto, ma sono altresì convinto che ancora una volta i loro condottieri sapranno guidare un esercito di più o meno esperti gregari alla terra promessa e riportare a casa un trofeo di cui in Missouri si sta già cominciando ad avere nostalgia.

3 thoughts on “Nel cambiamento i Kansas City Chiefs hanno ritrovato la loro normalità

  1. Tutto molto bello,diceva Pizzul….ma, permettimi una grattatina riguardo le ultime righe…

    Go Chiefs

  2. Se batte questi Eagles Reid si merita la statua di fronte all’Arrowhead, ed è un ‘se’ grosso come Fletcher Cox…

  3. Quest’anno in NFC si è corso molto in attacco, anche coi QB, e Phila è stata la migliore interprete, aprendo la strada alle giocate lunghe con Brown e Smith.
    La AFC è terra di giovani bombardieri (Burrow, Herbert, Allen, Lawrence) ma Mahomes è stato di nuovo il migliore interprete, anche pazientando e aprendo la strada alle corse del backfield.
    Il duo che forma con il tricheco Reid da 5000 yard di passaggi all’anno non si è visto tanto spesso in NFL, godiamocelo.
    Al super bowl sono arrivate le squadre giuste per rappresentare le due conference.
    GM ed allenatori sono stati pazzeschi per entrambe. Confermarsi, come ha fatto KC, oppure il rebuilding di Phila sono piccoli miracoli sportivi.
    Sarà ben rappresentata anche la famiglia Kelce. Per Jason sarà l’ultima partita? E’ da un po’ che flirta col ritiro…

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