Ho troppe cose da dire per perdere tempo con uno dei miei incipit nonsense.

Non credo sia possibile avere acredine verso Jaguars e Giants. Ad agosto nessuno di noi, a partire dai loro tifosi, poteva immaginarseli fra le migliori otto squadre della lega, eppure eccoci qua. Entrambe all’anno zero di un progetto tecnico che avrebbe dovuto richiedere almeno un paio di stagioni di assestamento prima di produrre risultati, non solo sono sgattaiolate ai playoff ma, una volta dentro, si sono addirittura tolte lo sfizio di vincere una partita.
Risultati del genere attestano che la strada intrapresa sia quella giusta, che la freccia stia puntando verso l’alto, scegliete voi l’immagine che preferite. La cosa più importante, a mio avviso, è che entrambi i front office possano affrontare l’offseason con la consapevolezza di poter contare su allenatori di livello, individui in cui un acume tattico sopra la media è coniugato alla leadership necessaria per troncare con un passato di mediocrità, inedia e disfunzionalità.
Seguiamo l’ordine cronologico.

Forse è stato l’infortunio di Mahomes a permettere ai Jaguars di restare in partita – circa – fino all’ultimo, la difesa è apparsa assolutamente impotente al 15 a pieno regime che, finché ha potuto giocare su due gambe, ci ha deliziati con l’assurda gamma di lanci che solo lui è in grado di completare. Quanto appena detto, però, oltre che ingeneroso nei confronti dei ragazzi di Pederson potrebbe essere sbugiardato dalla risposta al potenzialmente devastante primo drive dei Chiefs. In uno scenario per molti di loro assolutamente nuovo, hanno avuto la forza mentale e la classe necessarie per rimettere al proprio posto i monarchi della AFC, mettendo in chiaro che la vittoria se la sarebbero dovuta sudare fino al fischio finale. Tante squadre, contro i Chiefs, perdono la partita ben prima del kickoff.
È inutile gonfiare di significato un misero drive, ma sabato i Jaguars mi sono piaciuti, giocarsela a viso aperto contro i Chiefs è tutt’altro che scontato per una squadra così giovane e inesperta.
L’atteggiamento con cui hanno affrontato una partita che solo due mesi fa nemmeno potevano sognare di giocare mi è piaciuto, questa è una squadra che sembra poter contare su uno spogliatoio coeso e unito che ha trovato in Pederson un valido condottiero da seguire e di cui fidarsi ciecamente. Mica banale a poco più di un anno di distanza dall’incubo Meyer.

L’obiettivo del loro 2022 doveva essere “semplicemente” quello di eliminare le scorie della sciagurata gestione Meyer, restaurare l’autostima di Trevor Lawrence e constatare la bontà dei tanti innesti della scorsa offseason: missione compiuta, compiuta e più che compiuta. Il quarterback visto da novembre in avanti non ha nulla da condividere con quello che da rookie ha concluso una partita lanciando più di un touchdown solamente in due occasioni, o se preferite un quarto di quelle terminate a bocca asciutta. In un paio di mesi ha spinto all’evaporazione molti dubbi esibendo tutte le virtù cardinali di un grande quarterback, a partire da un braccio destro capace di trovare ogni centimetro di campo.

Jacksonville sembra essere pronta a sfruttare il momento di grande incertezza dei Tennessee Titans ed egemonizzare la AFC South, terra desolata alla disperata ricerca di un nuovo padrone.
Abbiamo ragionevoli motivazioni per aspettarci un ulteriore salto di qualità – anche se si potrebbe usare il plurale – garantito, in caso, dalle esplosioni di gente come Walker, Lloyd, Cisco e perché no, pure un ulteriore passo in avanti del già impressionante Etienne. Sono una delle squadre più giovani della lega, il futuro è per forza di cose loro fedele alleato.

Le eventuali perdite in free agency non saranno sicuramente massicce, l’unico di cui non potranno privarsi è a mio avviso Evan Engram, il più sorprendente co-protagonista della resurrezione nella seconda metà di stagione. Il roster è tutt’altro che perfetto, il pass rush ha bisogno di profondità e incisività – non bastano gli sprazzi di Josh Allen – e la linea d’attacco, seppur non certamente inadeguata, ha ampi margini di miglioramento.
Indipendentemente dalla lunghezza della lista della spesa, Jacksonville può guardare al futuro con fiducia e serenità perché ha tutti gli ingredienti più importanti per un successo che può durare nel tempo, ossia un franchise quarterback, un allenatore esperto e amato dal proprio spogliatoio e un front office che finalmente ha potuto constatare dei progressi che, si spera, possono aiutare ad abbandonare una volta per tutte quel modus operandi nevrotico e inconsistente al quale ci hanno abituati.

Sulla partita in sé, nel caso dei New York Giants, non c’è molto da dire. Philadelphia, squadra nettamente superiore, li ha triturati sotto ogni possibile punto di vista mettendo in evidenza, in mondovisione, tutti i limiti strutturali di un roster non sicuramente progettato per palcoscenici simili.
In una sola, mesta notte la banda di Sirianni ha messo in chiaro che Jones non si sia trasformato miracolosamente in Montana, che la linea d’attacco resti ancora un cantiere a cielo aperto, che con James e Hodgins come ricevitori titolari creare separazione è pressoché impossibile e che la difesa, seppur opportunista e generalmente solida, abbia palesi limiti.
Il bollettino di guerra che vi ho appena sciorinato non deve però indurvi al panico ma, al contrario, a una gioia tanto razionale quanto rassicurante: in luce del quadro appena delineato la loro stagione brilla di una luce ancora più intensa.

Quella umiliata da Philadelphia non è la squadra di Brian Daboll, ma bensì di Dave Gettleman.
I Giants che abbiamo ammirato negli ultimi mesi, infatti, non possono essere visti come prodotto degli intelletti di Schoen e Daboll, ma come le rovine dell’ancien regime. Il nuovo front office è stato calato in un contesto quasi apocalittico con pochissime certezze e un numero spropositato di pessimi contratti – elargiti da Gettleman per salvare il posto – come quello di Golladay: figuratevi che l’affare più oneroso è stato il triennale da 18 milioni dato a Mark Glowinski.
Ripeto, l’input di Schoen e Daboll su questo roster è minimo, quasi nullo.

Prima di pensare ai rinforzi, però, sarà necessario capire attorno a chi costruire.
Gran parte dei protagonisti della magica cavalcata conclusasi un paio di giorno fa saranno a breve free agent. Daniel Jones, Saquon Barkley e Julian Love potranno tutti cambiare casacca e gente come Dexter Lawrence, Andrew Thomas e Xavier McKinney può cominciare a battere cassa per l’estensione contrattuale. Sia Jones che Barkley appaiono intenzionati a restare ed entrambi sembrano essere al corrente del fatto di non poter ambire a chissà quale contratto.
Io, in tutta sincerità, proverei a dare continuità al roster del 2022 rinnovando quanti più giocatori possibile, primo fra tutti Daniel Jones. Non credo diventerà mai uno dei migliori cinque quarterback della lega ma ha dato prova di poter essere funzionale in un contesto tutt’altro che ideale. Il front office dovrà provare a migliorare la qualità del supporting cast, è impensabile presentarsi a settembre con James e Hodgins come punti focali del gioco aereo.

La partita che più mi ha sorpreso è stata quella a cui hanno partecipato, con opinabile convinzione, i Buffalo Bills – mi rendo conto che utilizzare il termine “partita” sia alquanto ingannevole visto che restituisce un’idea di competitività che, di fatto, non c’è mai stata.
Qua è dura fare i democristiani e applaudire lo sforzo, la bella stagione e mostrare gratitudine per averci regalato del football sotto la neve, questi Buffalo Bills sono stati costruiti per battere i Chiefs e arrivare fino in fondo una volta per tutte. Non ci sono nemmeno andati vicini.

I playoff dei Bills sono semplicemente stati un incubo. L’esordio contro Miami ha inutilmente assunto i contorni di un inquietante thriller, un qualcosa di inaccettabile per una squadra del genere: contro Cincinnati, invece, siamo stati testimoni di un monologo, di suspence nemmeno l’ombra.
I Bengals li hanno dominati dal kickoff al fischio finale. Cincinnati è apparsa più concentrata, motivata e cattiva. Arrivavano prima su ogni pallone, sia in attacco che in difesa, hanno immediatamente guadagnato il controllo della linea di scrimmage e, in generale, il coaching staff di Taylor ha surclassato quello di McDermott.

Ci sono tantissime chiavi di lettura tecniche per spiegare questo disastro.
Ha indubbiamente pesato l’assenza di Von Miller, colpo da novanta della scorsa offseason messo sotto contratto proprio per partite del genere: senza di lui il pass rush si è lentamente spento fino a diventare irrilevante. Pure la perenne incapacità di imporre un gioco di corse convenzionale ed efficiente ha sicuramente influito: a Burrow è tornato comodo poter fare affidamento su un Mixon in grande spolvero, Allen se vuole muovere le catene via terra deve farlo con le proprie gambe. Il front seven, reparto su cui stanno investendo pesantemente da anni, è stato malmenato per diverse ore dalla brutta copia della linea d’attacco dei Bengals. Sono stati piallati da uno dei peggiori run game della lega – fra i pochi ad aver guadagnato meno di 4.0 yard a portata in regular season – a casa loro, davanti al loro pubblico.

Sarebbe ingeneroso classificare la loro stagione come completo fallimento, ma parliamoci chiaro, è da un paio di anni che sono in modalità Super Bowl or bust e questa volta non hanno nemmeno l’alibi di essersi trovati contro l’onnipotente Mahomes.
Hanno fatto il possibile per togliere le big play a Burrow e lui, saggio come non avrebbe alcuna ragione d’essere un ventiseienne, è stato al gioco bombardandoli sul corto-medio raggio. Avrebbero dovuto dominare il mismatch con la rimaneggiata linea d’attacco dei Bengals, invece non hanno nemmeno sfiorato il quarterback avversario.
Nel mentre, i ricevitori erano perennemente liberi.

È un fallimento che fa male e deve fare male, il tempo passa, il roster invecchia e i contratti scadono. Poter contare su un quarterback del calibro di Josh Allen indubbiamente li terrà competitivi a lungo, ma non ho idea di cosa possa fare di più il front office – oltre che a investire seriamente sul backfield, anche se la loro inefficienza mi sembra causata dalle scelte del coaching staff più che dalla bassa qualità dei running back.
Seriamente, cosa può fare di più Beane? C’è chi gli rinfaccia “errori” al draft che, personalmente, non definirei errori. I vari Epenesa, Basham e Rousseau non stanno mantenendo le promesse con cui hanno varcato le porte NFL, ma in sede di draft chiunque aveva cantato la bontà di queste scelte.

Immagino riusciranno a convincere qualcuno fra Poyer, Phillips, Edmunds, Lawson e Singletary ad accettare un contratto team friendly per tentare un nuovo arrembaggio al Lombardi, ma ovviamente il margine di manovra – leggasi spazio salariale – è minimo e non potrebbe essere altrimenti vista la qualità media del roster.
Questa è la sconfitta che fa più male di tutte perché per rispondere alle innumerevoli domande generate da una sconfitta a questo punto della stagione non potranno limitarsi a coprire d’oro l’anello mancante di turno.

Quanto appena detto si può applicare anche al caso dei Dallas Cowboys, altra squadra che a mio avviso avrebbe già il necessario per arrivare fino in fondo.
Per carità, a differenza dei Bills loro se la sono giocata fino all’ultimo respiro, ma può bastare quest’inutile consolazione? Cambia qualcosa saper di essere stati competitivi? Dall’altra parte c’era un quarterback rookie finalmente (a tratti) sopraffatto dal momento e dal miglior reparto difensivo incontrato nel proprio cammino fra i professionisti: questa era l’occasione per qualificarsi finalmente al Championship Game che li elude da poco meno di trent’anni.
Niente da fare, pure questa volta il loro campionato è terminato molto prima di quanto sperassero.

Come da tradizione dopo una sconfitta ai playoff, è partito il processo sommario al quarterback della squadra perdente. Prescott non è assolutamente comparabile a Mahomes o Burrow, ma sapete anche voi che i Mahomes e i Burrow non crescono sugli alberi. Cosa dovrebbero fare i Cowboys? Cercare qualcuno a cui scaricare Prescott e il suo contratto? E poi?
Coprire d’oro gente come Carr e Cousins? Cosa danno in più rispetto a Prescott? Strapagare Jackson con soldi che non hanno? Affidarsi a Tom Brady?
Non credo abbia senso investire su un quarterback al draft, Dallas vuole vincere e vuole farlo ora, non ha assolutamente il tempo da perdere ad aspettare che un giovane impari a vincere in NFL.
Prescott non è esente da colpe, i due pessimi intercetti hanno costituito il delta fra la vittoria e la bruciante sconfitta, ma non credo che attualmente sul mercato ci siano alternative migliori, o anche solo verosimili.
Con il senno di poi possiamo affermare che Amari Cooper sarebbe sicuramente tornato comodo, è inquietante che Lamb abbia ricevuto circa il 57% delle 206 yard lanciate da Prescott, questa dipendenza ci dice più della scarsa profondità del loro receiving corp che dell’enorme bravura di Lamb.

Hanno perso per colpa dell’allenatore? No, ma da quando è arrivato in Texas non credo abbiano mai vinto grazie a lui – l’esatto contrario di ciò che sta accadendo negli ultimi anni ai ‘Niners.
McCarthy non è sicuramente il problema, ma non è neanche la soluzione. A proposito di problemi, le probabilità che Dan Quinn – il responsabile della resurrezione difensiva dell’ultimo biennio – torni a ricoprire il ruolo di head coach sono molto alte e la sua perdita potrebbe avere effetti disastrosi su questa squadra.
Pure in questo caso la free agency non sarà clemente, perdere uno o più giocatori fra i vari Pollard, Steele, McGovern, Schultz e Wilson non è un rischio ma una certezza.
Che il Divisional Round si sia trasformato nelle colonne d’Ercole di una squadra del genere non ha alcun senso, il logo dei Dallas Cowboys a breve potrebbe essere trovato a fianco del lemma “underachiever” sul dizionario Merriam-Webster della lingua inglese.

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