Da oggi al Super Bowl, ogni martedì, mi lancerò in lunghi epitaffi – così lunghi che non ha nemmeno senso chiamarli così – sulle squadre le cui ossa andranno a lastricare la strada che ci porterà alla “partita che ferma l’America” – organizziamo un gioco alcolico in cui ci si scola uno shot ogni volta che una testata giornalistica utilizza la sopracitata locuzione?
Non tutte le sconfitte sono ovviamente uguali, ci sono squadre per le quali la elle è più digeribile non solo per la modalità con cui è arrivata ma, soprattutto, perché solamente aver preso parte alla postseason ci basta per classificare la loro stagione come clamoroso successo: in altri casi, come vedremo, la sconfitta altro non è che un segnale dall’alto che è arrivato il momento di prendere decisioni dolorose.
A inizio playoff il menù non può che essere variegato, perciò permettetemi di seguire l’ordine cronologico e di partire dai Seattle Seahawks.

Il rischio qua è quello di spellarsi le mani.
Il 2022 dei Seattle Seahawks, malgrado l’epilogo tutt’altro che lieto e glorioso, credo abbia tutto il necessario per sopravvivere all’oblio del tempo ed elevarsi a qualcosa da raccontare per anni: la loro stagione, molto semplicemente, può essere classificata come un mezzo miracolo.
Il volto di questo miracolo non può che essere quello di Geno Smith che pure sabato sera, in alcune istanze, mi ha impressionato – non sicuramente una novità in questi ultimi mesi. Non voglio prendervi in giro, non mi servirò di intricati artifici retorici per gonfiare la sua prestazione e vendervela come impresa erculea, ma permettetemi di affermare di essere restato estasiato dalla tranquillità con cui è risalito dal baratro di un inizio da due three n’ out consecutivi: prima con un drive autoritario e poi con una perla in profondità a Metcalf – mica banale contro questa difesa – Smith ha portato i suoi in vantaggio cancellando immediatamente il 10 a 0 con cui San Francisco ha provato a prendere il largo.

Nella seconda metà è successo quello che successo e i ‘Niners, chiaramente superiori, hanno schiaffeggiato i Seahawks su entrambi i lati del pallone, ma ciò non cambia di una virgola il fatto che nessuno al di fuori del loro spogliatoio potesse immaginarseli ancora in gioco a questo punto dell’anno.
Per mesi vi ho parlato di Seattle come cantiere a cielo aperto, come squadra in totale ricostruzione destinata a un 2022 da tre, massimo cinque vittorie: sono sgattaiolati ai playoff e per metà partita hanno risposto colpo su colpo ai San Francisco 49ers, una delle migliori squadre di questo campionato.
Non saprei dirvi se una stagione del genere sia replicabile, ma ciò che è fuori discussione è che Smith si sia meritato il rinnovo contrattuale. Nulla di faraonico, per carità, ma credo che possa essere il loro quarterback titolare per i prossimi due o tre anni: il front office sarebbe molto intelligente a investire su un rookie da mettergli alle spalle e lasciarlo maturare sotto l’ala protettiva di un veterano come Geno.

La cosa più importante, se vogliono togliersi una soddisfazione simile pure nel 2023, è investire sul reparto difensivo. Dovranno obbligatoriamente rimpolpare il front seven, sabato travolto dalla fisicità dei 49ers: sono eccessivamente permeabili alle corse, non possono pensare di andare avanti così, soprattutto in luce dell’insipidità della secondaria. Lasciamo perdere l’insostenibile eredità della Legion of Boom, sono troppo inconsistenti e lacunosi.
Come potete intuire di lavoro da fare ce n’è tanto, ma immagino che mettersi all’opera dopo una stagione così soddisfacente sia ben più facile e stimolante di quanto lo sarebbe stato a seguito di un 3-14.
Chapeau.

L’eliminazione dei Los Angeles Chargers è sicuramente quella che fa più male perché non esiste una ragione valida per perdere una partita in cui si è stati sul 27 a 0.
Una sconfitta del genere non passa in una settimana o in un mese, dura un’eternità finendo poi per definire l’identità di una franchigia: nel caso dei Chargers quest’ennesima beffa va a inserirsi in una ricca tradizione di traumi provocati ai tifosi. L’unica cosa che può lenire marginalmente le ferite è fare tesoro della dolorosa lezione e prendere una decisione che non può più essere procrastinata: Staley e Lombardi devono essere cacciati.
Staley non è in grado di fare l’allenatore in questa lega. La sua gestione della partita è scellerata e nevrotica, il numero di rischi presi è sempre spropositato se lo si rapporta ai successi e in tutta sincerità non ricordo una decisione più stolta di aver mandato allo sbaraglio Mike Williams e i titolari durante l’insignificante Week 18.
Williams ha saltato la partita per un infortunio – abbastanza grave – alla schiena rimediato proprio domenica scorsa.

I Chargers non hanno perso per l’assenza di Mike Williams, ma questo episodio è sintomatico. Ricordate il folle quarto down contro i Cleveland Browns? Non sempre nella vita c’è un Cade York pronto a graziarti.
Joe Lombardi ha in mano le chiavi per scatenare una delle più grandi armi di distruzione di massa che la lega abbia mai visto, Justin Herbert. No, meglio costringerlo a giocare in orizzontale e rifornire Ekeler di palloni che, se non altro, rende felici milioni di utenti fantasy. Mahomes è diventato Mahomes anche grazie ad Andy Reid che ha capito immediatamente come esaltarne il talento. Il contesto, non so più come dirlo, è tutto in questo sport.
Hanno clamorosamente fallito, questo roster non era stato costruito per sgattaiolare ai playoff e una volta dentro vedere cosa succede, era stato assemblato per spodestare i Chiefs: non ci sono nemmeno andati vicini.
La settimana prossima avrebbero potuto affrontare i Chiefs che, nonostante tutto, fanno sempre fatica a spuntarla sui Chargers. Di solito vincono, ma non è mai banale la vicenda. Invece niente da fare, hanno buttato la loro stagione nel modo più clamoroso e goffo possibile.

Nulla è per sempre in questa lega, soprattutto il contratto da rookie di un quarterback. Herbert stava giocando essenzialmente gratis e, come testimoniato dall’ultima offseason, il front office ha provato a bruciare le tappe investendo massicciamente per competere ora: nessuno pretendeva di più da questo roster del loro front office.
Non mi aspettavo arrivassero fino al Super Bowl, non sono chiaramente pronti per palcoscenici del genere, ma che alzassero un po’ la voce in questa conference sì. Invece no, passivi e svogliati tutto l’anno sono navigati nella mediocrità accontentandosi spesso del compitino: questa mentalità non porta lontano, un anno ti può aiutare a infiltrarti ai playoff, quello dopo non è detto. Lo abbiamo visto l’anno scorso.
Alcune chiamate sono sicuramente rivedibili, ma la debacle di sabato notte non deve essere analizzata da un punto di vista tattico, ma bensì psicologico: questa è una squadra perennemente confusa e in totale crisi d’identità. Sono consapevoli di poter essere grandi, ma non sembrano voler venire a patti con l’obbligo morale di maturare: Staley, in due anni, non è minimamente maturato.
Potenziale illimitato, un roster accattivante, un fenomeno under center, il tempo che passa e i risultati che restano sempre gli stessi. Staley ci ha provato, a modo suo, ma ha fallito. Non importa il modo, l’importante è che venga cacciato. Anche a seguito di una scelta dettata esclusivamente dall’emotività indotta dall’ultima, impossibile umiliazione.

Andando oltre allo strazio di evento televisivo che è stato, l’addio dei Miami Dolphins alla postseason non può che essere accolto da applausi. In una situazione impossibile, contro un avversario chiaramente superiore, Miami è arrivata a tanto così da fare l’impresa. Immagino debbano ringraziare anche la preoccupante superficialità e mollezza dei Buffalo Bills, adagiatisi senza alcuna giustificazione sul 17 a 0: caro Josh, è socialmente accettabile limitarsi a chiudere il down e non cercare il touchdown lungo a ogni snap. Non avessero tolto il piede dal gas magari la partita sarebbe durata solamente tre ore.
In ogni caso, con un quarterback inadatto under center Miami ha spinto al limite i Buffalo Bills. Chapeau al reparto difensivo e agli special team che, in maniera picaresca, si sono creati più e più opportunità per tenere in gioco un attacco troppo debilitato per punire adeguatamente gli errori avversari.
Complimenti a tutti, veramente.

Il futuro dei Dolphins, nonostante il sapore dolciastro lasciatoci in bocca dalla bella figura di domenica, è però turbolento.
La questione Tagovailoa non sembra contemplare soluzioni semplici. Con lui in campo Miami ha divertito e convinto – seppur mai del tutto. Senza di lui l’attacco collassa, anche se Hill e Waddle contro avversari di caratura inferiore a Buffalo possono anche bastare. Sullo stato fisico di Tua, però, nessuno sa nulla. A partire da lui.
Non può avere un futuro da essere umano su questo pianeta se ogni mese rimedia una commozione cerebrale. Qui si parla tanto di giocatori, allenatori e squadre ma alla fine dobbiamo ricordare che quei ruoli sono rivestiti pur sempre da uomini, persone, esseri umani. Il fatto che sia così suscettibile alle commozioni cerebrali che ne può rimediare una senza che a nessuno venga il sospetto di cosa sia successo è terribile. Sono molto preoccupato per le sue prospettive come persona.
Chiaramente si trova davanti a una scelta, una scelta che potrebbe definire il futuro prossimo di questa franchigia.
Al momento non ci è dato sapere assolutamente nulla – com’è giusto che sia -, ma se volete vi consegno la mia opinione ultra-ermetica: se fisicamente in grado, devono andare avanti con lui.

Quanto successo ai Minnesota Vikings ha invece senso.
Qui non si tratta di godere delle disgrazie altrui – anche perché ne ho già abbastanza delle mie disgrazie violacee -, ma di conti che finalmente tornano, oltre che di storia: sono i Vikings, il dolore è l’unico loro orizzonte. È quindi naturale, e in un certo senso appropriato, che la causa del decesso della loro stagione sia una sconfitta di un possesso nell’anno in cui hanno vinto ogni singola partita decisa da un possesso. Prima di domenica, quando la differenza nel punteggio finale di un match dei Vikings era inferiore a otto, Minnesota è sempre uscita dal campo trionfante.
In quanto Vikings, era naturale che ai playoff la più affidabile freccia nella loro faretra finisse per giustiziarli.

Qua in Italia non si ha una sana cultura della sconfitta e, purtroppo, è raro assumersi le proprie responsabilità a seguito di un insuccesso. In questo caso non c’è molto da fare se non inchinarsi al cospetto dei New York Giants e di Brian Daboll che, molto semplicemente, hanno preparato e giocato la partita perfetta, l’esatto tipo di partita di cui avevano bisogno per battere i Minnesota Vikings alle Wild Card.
Vedendo Daniel Jones manovrare l’attacco con la spigliatezza di un Tom Brady qualunque, avrete sicuramente notato la curiosa presenza di divise viola in campo: quella era la difesa dei Minnesota Vikings.
I nomi ci sono, Hicks, Hunter, i due Smith, Kendricks e Peterson sulla carta danno vita a un’unità di tutto rispetto, ma nella pratica la difesa dei Vikings è fra le più insipide che possiate trovare. Hanno sempre concesso tantissimo, solo i Lions hanno chiuso la stagione con un numero di yard totali concesse più alto, ma l’effetto anestetico delle vittorie ha sempre mascherato egregiamente i dolori che attanagliavano il reparto. Gli episodi, per una volta, sono sempre girati dalla loro parte.
Fino a quando hanno smesso di farlo.

Il capro espiatorio oggi sembra essere il defensive coordinator Ed Donatell, ma siamo sicuri che sia sufficente la sua testa per restaurare la competenza?
Ho come l’impressione che l’intero reparto abbia bisogno di uno svecchiamento totale, di una piccola ricostruzione e di smettere immediatamente di – tentare di – risolvere problemi con toppe veterane. Serve tempo che probabilmente non hanno dato che sembrano voler vincere ora, ma a questo punto sorge spontanea la seconda domanda: si può vincere veramente con Kirk Cousins?
La risposta, seppur non ancora definita e definitiva, non sembra essere quella in cui hanno sperato.

Credevo molto peggio.
Anzi, non credevo niente, non avevo alcun tipo di aspettativa per i Baltimore Ravens. Per fortuna, dico io, sennò starei impazzendo. Baltimore avrebbe meritato di vincere contro Cincinnati e, senza forzarla eccessivamente, si può affermare che come spesso quest’anno abbiano regalato la partita agli avversari.
Le modalità con cui è arrivata la sconfitta sono epiche, il touchdown di Wilson e il drop di Proche all’ultimo respiro hanno contribuito a dar vita a un finale che probabilmente soggiornerà nella nostra memoria per mesi. Se non altro questa volta le aspettative erano così basse che non ci si può che dichiarare fieri del commovente sforzo.
Sono esasperato da queste sconfitte onorevoli/vittorie morali, mi sembra di essere un tifoso della Roma negli anni in cui in un modo o nell’altro l’Inter concludeva sempre davanti.

Come sempre la partita è stata decisa da episodi e come sempre gli episodi hanno sorriso agli avversari.
La difesa ha fatto quello che non sembrava possibile, rallentare Joe Burrow ed esporre al mondo che la linea d’attacco dei Bengals – a causa di assenze pesantissime – non è poi così migliorata. In attacco hanno mosso le catene con sorprendente efficienza, Huntley ha giocato una partita da quarterback professionista – mai banale quaggiù – e ogni volta che il pallone veniva affidato a Dobbins succedeva qualcosa di bello: perché non mettere la palla in mano a lui sulla goal line?
È ironico che la squadra che ha fatto del muovere le catene via terra la propria identità non sia in grado di convertire un quarterback sneak – soprattutto nell’anno in cui si è elevato a giocata più devastante in assoluto.
In ogni caso, taglierò corto: Greg Roman deve essere licenziato. Lo ringrazio di cuore per i suoi servigi, è il principale autore del magico 2019 e dell’adattamento che ha permesso a Lamar Jackson di affermarsi in questa lega, ma da quell’anno non ha più saputo adattarsi.
Dopo la sconfitta al Divisional Round contro i Tennessee Titans Roman non è più stato lo stesso.

Potete avere tutti i dubbi – più o meno legittimi – che volete su Lamar Jackson, ma occorre dire che non ha mai avuto un’opportunità di dimostrare il suo valore. Le mani a sua disposizione, eccezion fatta per quelle di Andrews, sono sempre state fra le peggiori che questa lega abbia mai visto. Non è mai stato messo nella posizione di avere chissà quale successo come lanciatore di palloni, Roman ha sempre dato priorità al gioco di corse, specialità della casa che ha finito per rendere Baltimore una squadra monotona, incapace di adattarsi alla situazione.
Jackson ha dimostrato di poter vincere con il proprio braccio destro, non è colpa sua se chi gli sta sopra non ha mai voluto aumentargli le responsabilità.
Non sono pronto a vivere una offseason di speculazioni sul suo futuro e cinguettii a mezza bocca, la mia speranza è ovviamente che rimanga anche se purtroppo per lui il contratto totalmente garantito à la Watson che tanto brama è inconcepibile. Scervellarsi su questo, però, non ha particolare senso finché al comando delle operazioni ci sarà Greg Roman.

Nessuna redenzione, nessuna rimonta della domenica per i Tampa Bay Buccaneers che hanno concluso la propria stagione in modo a mio avviso appropriato, schiacciati da una squadra più affamata ed esplosiva: complimenti ai Dallas Cowboys e a Dak Prescott che hanno giocato la partita perfetta. Nelle ultime settimane non erano mai stati in grado di convincermi, ma la squadra vista questa notte ha tutte le carte in regola per arrivare fino in fondo.
Si poteva vedere arrivare da lontano.
I Buccaneers, nonostante il titolo divisionale, hanno boccheggiato per tutta la stagione. Dietro una linea d’attacco costantemente rimaneggiata il più grande di tutti i tempi non è mai apparso veramente a proprio agio e il feroce pass rush dei Cowboys non ha avuto alcuna difficoltà a mettere a nudo ogni loro debolezza. Hanno faticato per mesi a trovare modi di creare big play o anche solo semplicemente a correre in modo efficiente: ci eravamo illusi che l’ultimo quarto furioso contro i Panthers potesse essere replicato contro avversarie di maggior caratura, ma sbagliavamo. Quella sfuriata non ha rappresentato un punto di partenza, ma una semplice deviazione dalla nuova, sterile norma.

Chiaramente l’offseason dei Bucs – e della NFL intera – sarà definita dalla nuova scelta di Tom Brady che, nella conferenza stampa dopo la partita, ha salutato e ringraziato la stampa locale: la voce e il linguaggio corporeo erano quelli di una persona consapevole di essere arrivato ai titoli di coda di un’avventura che, malgrado il mesto esito di questa notte, non può non essere considerata un clamoroso successo.
Vista l’età lo spettro del (secondo) ritiro si può intravedere a occhio nudo, ma non credo che un vincente come lui possa andarsene così, nel modo più anonimo possibile dopo una batosta al primo round dei playoff. Le opzioni non mancano, c’è chi considera i Raiders partner perfetti per la sua ultima scappatella: l’allenatore lo conosce meglio di chiunque altro in NFL, la batteria di ricevitori potrebbe essere la migliore della lega e la semplice associazione di Brady alla città di Las Vegas genera migliaia di spunti narrativi.
I Buccaneers, chiaramente a un bivio, a mio avviso farebbero bene a rivolgersi a un veterano capace di sfruttare gli ultimi anni di competitività di un ottimo roster – anche se dopo quanto fatto vedere negli ultimi mesi è piuttosto facile dimenticarsene. Un Carr, o anche solo un Garoppolo, potrebbero a mio avviso rappresentare una soluzione intelligente, soprattutto se decideranno di investire su qualcuno al draft a cui dare tempo per maturare.

La grandezza di Brady sta anche nell’averci abituato al miracolo e all’insensato, quindi non può che stupire vederlo soccombere nella più desolante impotenza. Ho la netta sensazione che parleremo di lui per tutto il resto dei playoff, non però per i motivi che avremmo voluto – o non avremmo voluto, dipende dai punti di vista.
I Buccaneers come abbiamo imparato a conoscerli nell’ultimo triennio appartengono ufficialmente a un passato che nonostante la contiguità temporale appare ora più lontano che mai: a volte è stato bello, a volte meno, ma non lasciamoci condizionare dal recency bias, questa squadra la propria missione l’ha portata a termine un paio d’anni fa e nulla e nessuno potrà cambiare questo fatto.

5 thoughts on “NFL: lo stato di salute delle perdenti al Super Wild Card Weekend 2022

  1. Se Brady volesse fare il capolavoro della carriera andrebbe a fare il viceallenatore (magari a ‘casa’, a LA) prima di prendere possesso della sideline per conto suo. Ormai è pronto. Altri anni sul gridiron servirebbero solo a ottundere le percezioni.
    Potrebbe continuare la vita di campo e spogliatoio evitando le botte.
    Io poi, da sceneggiatore, lo vedo portare i Chargers al titolo con Rodgers all’ultimo anno in regia, figuratevi un po’.

  2. Sarebbe intrigante…
    Cmq mi chiedo quale società punti su un 45 enne anche se si chiama TB12 e per poco tempo.. una stagione credo e nulla più… a sto punto all in ai Raiders e vediamo che succede

  3. Rivedendo i vari highlights a mio modo di pensare in Bengals Ravens è successa una cosa molto grave. Quando Hubbard un DE non certo un fulmine di guerra ha iniziato a riportare in meta la palla cadutagli casualmente in mano, perché Edwards RB quindi molto più veloce si è praticamente fermato lasciando il peso dell’inseguimento poi non andato a buon fine sulle spalle di Andrews, pari stazza di Hubbard? Il suo tentativo pur con tutti i bloccanti che scortavano Hubbard poteva avere un esito migliore. Non mi è per niente piaciuto tale atteggiamento. Poteva lasciare ancora aperta la partita. Ricordo due tre anni fa in una situazione simile Matcalfe con più svantaggio e meno spazio a disposizione si mise all’inseguimento di colui che stava volando in pick six dopo un intercetto raggiungendolo ed abbattendolo a 5 yards dal touchdown.

  4. Dallas Cowboys usciti rafforzati da questa wild card ma attenzione, più avanti lungo il cammino quelle quattro trasformazioni sbagliate potrebbero pesare, e molto. Una cosa che ho capito di questo sport così bello ed emozionante, il migliore di tutti, è che a volte un particolare benché minimo può fare la differenza tra il proseguire e l’andare a casa. Urge un kicker meno emozionato, o erano addirittura due?

  5. Alla fine, come si prevedeva, l’avventura di Greg Roman ai Ravens è finita, da oggi inizia la rifondazione dell’attacco.
    Anche se ormai non ne potevo più, un po’ mi dispiace; è stato l’allenatore che ha plasmato il gioco dei Ravens in questi anni e la sua parabola è legata a Lamar Jackson.
    Se le cose sono andate cosí le responsabilitá non sono solo sue, anche il GM ne ha, con draft mediocri e uno sviluppo del reparto wr fallimentare.

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