Prima di iniziare a digitare quest’articolo sono andato a farmi la mia meritatissima camminata di decompressione e, fra una maledizione ai Baltimore Ravens e l’altra, ho avuto modo di connettere fra di loro il grigiore captato dai miei occhi e il freddo che avvolgeva la mia pelle e trarre l’ovvia conclusione: siamo a dicembre signori, siamo finalmente arrivati a dicembre.
Mi sembra sciocco spiegarvi come mai quello che stiamo per vivere debba essere considerato il mese più importante del calendario NFL, così come mi sembra sciocco dedicare da qui in avanti troppe parole a vere e proprie cause perse: oggi, infatti, l’idea è quella di parlarvi di squadre la cui stagione si può considerare – salvo veri e propri miracoli – finita a tutti gli effetti.
Non prenderò in esame i casi dei vari Bears, Texans o Panthers, compagini chiaramente in ricostruzione la cui stagione per quello che mi riguarda era da considerarsi conclusa già a luglio: insomma, come d’abitudine vi parlerò di delusioni.

A questo punto è impossibile inquadrare la situazione Broncos da un nuovo angolo, il loro fallimento sta entrando di prepotenza nei libri di storia ed è lecito affermare che sarà molto difficile per chiunque vivere una stagione peggiore di quella di cui si stanno rendendo protagonisti i Broncos, soprattutto viste le esaltanti premesse con le quali si era aperta.
Il putridume dell’attacco è sotto gli occhi – e il naso – di chiunque, non ha alcun senso cercare nuove proporzioni attraverso le quali ripartire le colpe fra allenatore e quarterback, finiamola di fare i salti mortali per essere razionali e analitici quando si parla di loro: limitiamoci ad apprezzare ciò che ci stanno regalando settimana dopo settimana, ovverosia incompetenza senza eguali.

Andiamo in ordine.
Domenica i Denver Broncos hanno perso l’ottava partita su undici giocate, questa volta contro i Carolina Panthers, una squadra che con quell’attacco non avrebbe dovuto essere fisiologicamente in grado di mettere a tabellone punti contro la terrificante difesa dei Broncos: insomma, l’equazione attacchi putridi più difese tanto competenti quanto malservite avrebbe dovuto metterci davanti a una partita così marcia e radioattiva da rovinarci l’intera domenica.
È successo esattamente il contrario perché Broncos contro Panthers è stato un capolavoro decadentista e metafisico, un qualcosa di così irripetibile che l’unica spiegazione possibile era l’allucinazione collettiva di centinaia di milioni di persone sparse per il mondo, quel genere d’evento che fra vent’anni liquideremo con un orgoglioso ed efficace «io c’ero».
Riviviamo qualche momento magico.
(Se volete un assaggio vi raccomando di premere play sul video qui sotto, a mio avviso questa è una giocata storica.)

Per avere ragione dei Denver Broncos di Russell Wilson ai Carolina Panthers di Sam Darnold sono bastati 11 miseri completi. Rileggete la frase precedente. Un’altra volta, per favore. Anzi no, ho sbagliato: per umiliare i Denver Broncos ai Carolina Panthers di Sam Darnold sono bastati 11 miseri completi.
Proposizioni del genere a fine agosto mi sarebbero costate un TSO.
I Denver Broncos sono comedy gold perché, sotto 23 a 3, hanno segnato il primo touchdown della propria giornata a tre minuti dal termine, dopo un drive di cinque minuti abbondanti giocato in ovvia hurry up offense. Il primo snap in situazione goal-to-go e il touchdown realizzato da Brandon Johnson sono stati intervallati da sette snap, numero così inspiegabile che secondo me Carolina, essendo sopra di tre possessi, a una certa ha optato per lasciarli segnare per andare in panchina a rifiatare.

Dopo il touchdown, però, l’inerzia s’era spostata con così tanta decisione dalla loro parte che hanno pure recuperato l’onside kick: attenzione, questi sono ancora in part… scusatemi, errore mio. Dopo aver recuperato l’onside kick Denver non è semplicemente stata costretta a un anonimo turnover on down, ma a un turnover on down figlio di quattro incompleti consecutivi: quattro giocate, zero yard guadagnate, com’è giusto che sia.

La situazione si sta facendo così imbarazzante che i tifosi stanno provando a mettere in piedi trade bislacche per sbarazzarsi immediatamente di quello che sarebbe dovuto essere il salvatore di una franchigia, il capitano da seguire durante l’ardua conquista della AFC West, l’ago della bi… non ce la faccio più, scusatemi.
I Broncos sono purissima comedy gold e il fatto che domenica si incrocino con i miei Baltimore Ravens ci mette davanti a quella che potrebbe essere la partita del millennio, un verosimile 5 a 3 Broncos in extremis grazie a un piazzato di McManus a completare la rimonta dopo che Baltimore ha messo a segno i primi punti della giornata a un paio di minuti dal fischio finale.
L’unico modo per non impazzire dinanzi a questa squadra è accettare il meme: a voi la libertà di decidere di quale squadra stia parlando.

La stagione dei Rams ci mette davanti a un caso veramente interessante.
Parlare attraverso proverbi è da anziani nella vita reale e da boomer su Internet, ma permettetemi di dire che nel loro caso la verità del fallimento si trovi nel proverbiale mezzo fra una serie insormontabile di infortuni e, ovviamente, il più umano dei Super Bowl hangover.

I ben documentati disastri lungo la linea d’attacco hanno innescato una reazione a catena che come prima vittima ha visto Matthew Stafford, infortunato e potenzialmente compromesso come essere umano nella vita reale e nevrotico come nei migliori giorni in Michigan sul campo, e successivamente un reparto difensivo sovraesposto che molto semplicemente non sta giocando bene come nell’ultimo biennio. Il pass rush non arriva più al quarterback con la costanza a cui ci avevano abituati e sfrattare dal campo l’attacco avversario su terzo down non è più semplice come ai playoff: durante la cavalcata dello scorso febbraio Los Angeles ha permesso all’opposizione di convertire solamente il 19.6% dei terzi down giocati.
Nulla a che vedere con il quasi 41% di quest’anno.

A condannarli alla più avvilente mediocrità ci pensano i moltissimi infortuni abbinati a un paio d’errori nella costruzione del roster, fra cui spiccano la mancanza di un vero running back titolare – soprattutto viste le inconciliabili differenze filosofiche fra McVay e Akers – e l’innesto di quell’Allen Robinson che, per un motivo o per l’altro, non è stato capace di guadagnare la fiducia di Matthew Stafford. Pesa tantissimo, ovviamente, pure l’assenza di Von Miller, un veterano di storico spessore che sarebbe tornato indubbiamente comodo pure in spogliatoio visto l’andazzo che ha preso la stagione.
Sto sicuramente esagerando a scrivere ciò che state per leggere, ma ricordate che per qualche settimana durante l’offseason si era vociferato di un possibile ritiro di McVay? Dopo una stagione del genere, con un quarterback trentacinquenne padre di quattro bambine vittima di due commozioni cerebrali in altrettante settimane e un allenatore e un difensore generazionali che fra marzo e aprile sono stati accostati a più riprese alla parola “ritiro”, siamo sicuri che l’anno prossimo vedremo una versione dei Rams simile a quella di cui stiamo commentando i fallimenti?

Il loro 2022 è finito, fossi in loro metterei nel freezer Matthew Stafford che a questo punto non ha alcuna ragione di scendere in campo ed esporsi a ulteriori rischi dietro una linea d’attacco del genere.
La loro è una situazione veramente intrigante perché le variabili in gioco sono veramente tante, a partire da un paio di scelte sul proprio futuro da parte di gente come McVay, Stafford e Donald fino ad arrivare alla più mondana salute, la principale indiziata dietro il loro fallimento: l’unica certezza che ho è che una stagione del genere dopo un Lombardi non capita tutti i giorni.

Ho visto squadre perdere partite in modi molto più scandalosi di quello che è costato la vittoria sui Chargers ai Cardinals, quindi non commettete l’errore di pensare che quanto state per leggere sia il frutto di un irrazionale sfogo – per cosa, poi? – dettato da una contingenza: gli Arizona Cardinals sono la franchigia più inetta della National Football League perché ostaggi di un general manager ancora in carica grazie al compianto Bill O’Brien.
Gli Arizona Cardinals sono proprio una brutta squadra di football americano, non c’è molto da dire.

Steve Keim, general manager che sono certo pianifichi le proprie strategie – se così si possono chiamare – servendosi dei vari ranking di Pro Football Focus, ha assemblato un roster a trazione anteriore – anche se nel football questa espressione non ha senso – che, di fatto, deve vincere le partite segnando un punto in più degli avversari.
Questo ragionamento mi andrebbe anche bene, possono contare su un quarterback elettrizzante come Kyler Murray, un ricevitore generazionale come DeAndre Hopkins e uno dei più pericolosi deep threat della lega, Hollywood Brown e… Zach Ertz a fine carriera? A.J. Green ancor più a fine carriera? Una linea d’attacco al massimo mediocre nei giorni migliori? Un running back incapace di restare sano?

Va bene, va bene, ora mi calmo, avete ragione a farmi presente che a tirare fuori il meglio da un reparto non poi così forte ci debba pensare un allenatore creato in laboratorio mischiando l’acume tattico di Andy Reid, l’età di McVay e lo swag di Pete Carroll, la doppia kappa del nostro cuore ché tre poi diventerebbero un problema, Kliff Kingsbury.
Kliff Kingsbury, l’allenatore che con la stagione appesa a un filo durante Week 17 del 2020 contro i Rams di Wolford, su 3&18 sotto di due possessi a un paio di minuti dal termine ha optato per una read option che ha portato a un guadagno di meno tre yard. Esatto, proprio lui, l’allenatore che in tre anni è migliorato così tanto da rotolare ai playoff per inerzia e una volta dentro essere umiliato dai Los Angeles Rams.

O se preferite, l’allenatore le cui squadre si sciolgono nella seconda metà di stagione, anche se mi rendo conto solo ora che almeno questo problema sia riuscito a risolverlo: come puoi scioglierti fra novembre e dicembre se non sei nemmeno in grado di vincere due partite consecutive?
L’allenatore che secondo vari report s’è servito delle due settimane d’assenza del proprio franchise quarterback per tentare di salvare un rapporto sempre più compromesso con il ragazzo che avrebbe dovuto rendere grande – e viceversa: almeno quello, dai!

Non ho nulla da rimproverare al reparto difensivo, non è colpa loro se la principale fonte di pass rush è un J.J. Watt agli sgoccioli e se l’unico defensive back decente oltre a Budda Baker è quel Byron Murphy che a febbraio sarà free agent: che colpa ne ha gente come Simmons e Collins se vengono selezionati al draft da una squadra che non ha idea di come utilizzarli? Stiamo parlando degli Arizona Cardinals, quelli che investono scelte al primo round su safety/linebacker/trequartisti tipo Deone Bucannon e Haason Reddick – oltre che ai sopracitati Collins e Simmons – per poi continuare a sballottarli fra un ruolo e l’altro: guardate Reddick che giocatore è diventato una volta che gli è stato trovato un ruolo fisso.
E in tutto ciò i contratti di Keim e Kingsbury sono recentemente stati rinnovati fino al 2027: parola d’ordine crescita.

Dei Packers a questo punto non saprei più cosa dirvi, credo di aver dedicato decisamente troppe parole alla banda dell’omeopatico: penso che nemmeno vincere tutte e cinque le partite rimanenti garantirebbe loro il settimo seed in NFC, accedere ai playoff con un 9-8 in un campionato in cui ci alla vigilia di Week 13 ci sono i Commanders già sul 7-5 è molto difficile.

L’unica cosa che mi sento di dire è che arrivati a questo punto dare una possibilità a Jordan Love sia nel loro miglior interesse perché, dopo tutto quello che è successo in questi mesi, fatico a immaginare Rodgers under center pure il prossimo settembre. Un contratto del genere abbinato a quanto fatto vedere in campo rende estremamente difficile anche solo pensare a una trade, ma finché viviamo in un mondo in cui i Colts un anno tradano per Carson Wentz e quello dopo per Matt Ryan tutto è veramente possibile.
Nel campione limitatissimo di domenica, Love se l’è cavata alla grande regalando ai tifosi qualcosa per cui trattenere un po’ il respiro da qui a fine stagione che, considerata la piega che ha preso, non è poco.

L’era Rodgers sta volgendo al termine, Green Bay deve avere il coraggio – indipendentemente dalla diagnosi – di giocare d’anticipo e tutelarsi in vista del futuro, anche se le delusioni che mi sta dando un reparto difensivo che credevo sarebbe potuto diventare dominante vanno ben oltre Rodgers – non dimentichiamo che hanno investito una preziosa scelta al primo round per lui.
Vista la penuria di ricevitori di livello e lo stato della linea d’attacco il contesto in cui muovere i primi passi è tutto fuorché idilliaco, ma stagione persa per stagione persa tanto vale sperimentare.
Direi che per oggi vi abbia depresso abbastanza.

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.