Quella di domenica è stata una giornata di sano, sanissimo football americano: football americano con la effe, se posso.
In un’era nella quale quota 20 punti viene superata con una disinvoltura quasi irrispettosa, essere testimoni di ben quattro 20 a 17 è stato un qualcosa di tanto stucchevole quanto impagabile: 20 a 17 è un punteggio che compendia l’unicità del football americano e che riassume gloriosamente la secolare battaglia per la supremazia fra attacco e difesa.
Nel 20 a 17 troviamo equilibrio, errori, buone giocate e quasi sicuramente un finale al cardiopalma nel quale qualche kicker s’è elevato a eroe, 20 a 17 è quel punteggio così serrato che si può addirittura far coincidere un’intera partita, centinaia di snap e migliaia di assignment individuali con il singolo episodio.
Insomma, se non si è capito ieri mi sono finalmente divertito – anche se non è stato affatto facile resistere alla tentazione del season finale di Mina Settembre su Rai 1 – e sono così di buona che non saprei nemmeno da dove iniziare nella stesura di questo articolo.
Partiamo con una squadra che mi sta impressionando indipendentemente da tutto.

Non nutrivamo particolari aspettative nei confronti dei Chicago Bears, e non eravamo affatto irrispettosi a farlo. Il cambio d’allenatore e di general manager ci ha suggerito – correttamente – fin da subito una ricostruzione straziata dagli errori commessi dal vecchio regime che hanno costretto Ryan Poles a smerciare qua e là i propri migliori giocatori per rifornirsi di scelte al draft e decongestionare lo spazio salariale.
Ottima idea sul lungo periodo, non c’è che dire, ma è lapalissiano che una manovra del genere vada a inficiare sulla competitività di una squadra che, in realtà, forse il franchise quarterback già lo aveva in seno.
Chicago, malgrado un record assolutamente anonimo, sta impressionando giocando un football disciplinato seppur peculiare, un football incredibilmente efficace nel suo anacronismo: la partita di domenica contro i Miami Dolphins mi ha sorpreso sotto più punti di vista.

L’attacco di Miami è fra i più esplosivi della lega – nel momento in cui puoi contare sia su Hill che Waddle non potrebbe essere altrimenti – e va da sé che a questi per mettere punti a tabellone non servano poi così tante giocate: davanti a una squadra del genere la tentazione sarebbe quella di provare disperatamente a tenere il passo cercando punti nel modo più veloce possibile a scapito di metodicità ed efficacia.
Chicago, con una maturità di cui fatico a spiegarmi la provenienza, ha interpretato la partita nel migliore dei modi dominando il tempo di possesso – quasi 35 minuti – grazie a un gioco di corse persistente e sfiancante: figuratevi che hanno corso 40 volte a fronte di 28 miseri lanci tentati. Dire che dati del genere, nel 2022, vadano controtendenza sarebbe un eufemismo, questa versione dei Chicago Bears gioca un football tutto suo che sta sopperendo alla grandissima ai palesi limiti di un roster che non dovrebbe avere alcun interesse a vincere.

Nelle ultime settimane, con gli alti e bassi tipici di una squadra giovane e affatto talentuosa, Chicago ha dimostrato a sé stessa di aver già a roster molto più talento di quanto si possa credere e, qualora Justin Fields dovesse imparare a sbarazzarsi del pallone in tempi inferiori ai cinque minuti e trentadue secondi, il futuro potrebbe farsi alquanto interessante.
Almeno una volta a partita, infatti, il giovane quarterback dei Bears completa un lancio capace di spalancare anche la più restia delle bocche – guardasi il touchdown ricevuto da Mooney: è pure apprezzabile il fatto che, all’occorrenza, sappia portare a casa la pagnotta con le proprie gambe.
Le 178 rushing yard conquistate contro i Dolphins rappresentano infatti il record all-time per yard terrene guadagnate da un quarterback in una partita, un record strappato a un Michael Vick qualunque.
Il livello dell’organico dei Dolphins era troppo superiore per portare a termine l’upset, ma quanto fattoci vedere dai Bears domenica non poteva essere gettato nell’oblio della sconfitta senza ragionarci sopra un attimo.

Una partita che m’ha caricato di tristezza con la T maiuscola è stata quella andata in scena a Tampa Bay fra Buccaneers e Rams. Il punteggio finale basso non è arrivato sicuramente a seguito di prestazioni dominanti dei reparti difensivi, ma semplicemente per l’inspiegabile inettitudine di quelli offensivi.
La contesa ha seguito il copione che potevamo aspettarci: la sterilità di ambedue i giochi di corsa affossava puntualmente la squadra di turno in terzi-e-lungo che, in questo momento storico, rappresentano vette insormontabili per Stafford e Brady.
Eravamo collettivamente pronti a cantare la vittoria dei Rams chiedendoci se potesse essere questa la svolta di cui necessitavano disperatamente, ma a separarci da questo flusso di pensieri c’erano 44 secondi – senza alcun timeout.

Non posso fingermi sorpreso, se Brady è il più grande di tutti i tempi è proprio perché ha rimodellato l’impossibile piegandolo alle sue esigenze, ma immaginare che i Buccaneers, dopo l’ennesimo pomeriggio di deprimente asetticità, trovassero modo di mettere a segno il primo touchdown della loro partita in una situazione del genere era pressoché impossibile per chiunque.
Con più cuore che cervello, invece, Brady e soci hanno tirato fuori dal cilindro un drive vecchia scuola – leggasi biennio 20/21 – nel quale sono stati letali, metodici ed estremamente ben coordinati come quando Scottie Miller bruciava Kevin King lungo la sideline. Per una volta tutto è andato come ci si aspettava, i lanci di Brady erano perfetti, le mani dei ricevitori finalmente sicure e la gestione del cronometro enciclopedica.

Non basta una vittoria contro l’ombra dei campioni in carica per rilanciare una stagione del genere e venderci la loro miracolosa guarigione, ma credo che quest’ultimo drive possa avere ripercussioni che trascendono i limiti della partita. Solo il tempo saprà deliberare se tale meraviglia costituisse tutto ciò di cui avevano veramente bisogno per tornare a essere i Tampa Bay Buccaneers – e Tom Brady -, ma permettetemi di essere impressionato dalla forza mentale del numero 12 che nel momento più complicato della propria carriera ha ribadito che quando la situazione è nuclearmente delicata nessuno sa gestirla meglio di lui.

Sono apparentemente incapace di scrivere un articolo di questa rubrica senza parlare di New York Jets, ma cosa posso farci se ci hanno abituati così male che ogni loro vittoria può essere elevata a possibile momento di svolta per l’intera franchigia?
Nella guida settimanale vi avevo detto che ciò che mi interessava veramente era vederli giocarsela ad armi (quasi) pari coi primi della classe Buffalo Bills: New York non si è limitata a vincere, ma ha pure costretto Josh Allen alla peggior partita del suo campionato – ciò nonostante ha comunque guadagnato quasi 100 rushing yard e messo a segno due touchdown su corsa.
Questi Jets sono da playoff?
Probabilmente sì, soprattutto in un anno in cui nessuna squadra in AFC sembra volersi sedere sul trono per più di una settimana, anche se nutro ancora dubbi importanti sul reparto offensivo.

New York sta dimostrando di poter vincere consistentemente quando la difesa mette insieme prestazioni che flirtano con la perfezione e ciò, oltre che ingiusto, è semplicemente insostenibile in una conference in cui militano i vari Lamar Jackson, Patrick Mahomes, Josh Allen, Joe Burrow, Justin Herbert e Deshaun Watson – avessi scritto questa frase qualche mese fa avrei inserito pure i nomi di Derek Carr e Russell Wilson.
L’attacco, fino a non troppo tempo fa trainato da Breece Hall, non può semplicemente limitarsi a commettere il minor numero d’errori possibili e sfruttare le buone posizioni di campo regalategli dalla difesa, per competere seriamente sarebbe imprescindibile un vero salto di qualità che garantisca a Wilson e compagni consistenza ed efficienza – che a onor del vero stavano raggiungendo cavalcando Hall.
Quando dall’altra estremità del pallone si trova la difesa dei Bills prestazioni come quelle di ieri sono più che convincenti, ma in generale ho l’impressione che troppo spesso le vittorie dei Jets passino quasi esclusivamente dal rendimento del reparto difensivo: attacco, per favore diventa adulto.

È notizia dell’ultima ora il licenziamento di Frank Reich dagli Indianapolis Colts.
Non ho assolutamente nulla da dirvi sulla partita di domenica contro i Patriots, malgrado l’ottimo sforzo del reparto difensivo – che ha quasi annullato l’attacco dei Patriots – Ehlinger e compagni si sono dimostrati assolutamente incapaci di muovere le catene: per “assolutamente incapaci” intendo letteralmente “assolutamente incapaci” ché fra terzi e quarti down tentati ne hanno convertiti zero.
Sì esatto, 0 su 14 su terzo down a cui va sommato un più accettabile 0 su 2 su quarto per un fetido 0 su 16: zero su sedici.
Non sto scherzando.

Frank Reich non è chiaramente un Kyle Shanahan, ma a mio avviso è un buonissimo allenatore trovatosi vittima delle circostanze in una situazione disastrosa. È colpa sua se ha potuto contare su Andrew Luck solamente per una stagione – nella quale hanno tra l’altro vinto una partita ai playoff? È colpa sua se i quarterback messigli a disposizione rispondono al nome di Jacoby Brissett, Philip Rivers a fine carriera, Carson Wentz – da lui voluto, a onor del vero – e un Matt Ryan nella propria fase “Rivers ai Colts” della carriera?
È colpa sua se il front office si ostina, anno dopo anno, a non investire sui free agent malgrado l’abbondante spazio salariale immancabilmente a disposizione?
Una prestazione come quella di domenica è assolutamente inaccettabile, soprattutto per uno che dovrebbe tirare fuori il meglio da qualsiasi reparto offensivo, ma potevamo seriamente pretendere che i Colts guidati da Sam Ehlinger potessero battere i New England Patriots di quel Bill Belichick che si nutre del sangue dei quarterback inesperti?

Ehlinger domenica ha dato l’handoff a Deon Jackson, ha indirizzato l’ovale al rookie Alec Pierce, all’eterno incompiuto Parris Campbell, a Mo Alie-Cox, a Jelani Woods: il miglior ricevitore dei Colts nell’ultimo triennio è sempre e comunque stato Michael Pittman, buon giocatore ma non certamente quel Julio Jones – ai tempi dei Falcons – attorno a cui costruire un intero reparto offensivo.
Arrivati a questo punto credo che detonare l’intero roster e ripartire da capo sia l’unica soluzione sensata, soprattutto perché non possono umanamente permettersi di continuare a navigare a vista cercando di sopperire all’assenza di Luck con veterani che non ne hanno veramente più – soprattutto se poi non sembrano aver voglia di ottimizzare il poco tempo a loro disposizione per vincere investendo in free agency.
Già che ci sono non possono provare a imbastire una trade per Aaron Rodgers? L’Aaron Rodgers del 2022 è sufficientemente finito e demotivato per essere visto come il profilo perfetto per gli Indianapolis Colts.

A proposito di Rodgers, spero che prima della visitina settimanale dall’amichetto McAfee – altra persona che ha abbastanza stufato – si renda conto che nella categoria delle persone che “dovrebbero essere spedite in panchina” a causa dei troppi errori ci cade dentro pure lui.
Lo psichedelico domenica è riuscito a far passare la difesa dei Detroit Lions come la reincarnazione della Legion Of Boom: per me quest’impresa supera di gran lunga qualsiasi Hail Mary.
Che sta succedendo in NFL quest’anno? È come se l’intera lega fosse sotto ayahuasca.

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