Il settimo appuntamento della nostra rubrica di riflessione non poteva che essere dedicato alle squadre in crisi: dal momento in cui la nostra società ha deciso di attribuire al settimo anno di matrimonio il potere di mandare tutto in frantumi a mandare il rapporto, io ho deciso di fare altrettanto con un paio di sconfitte che hanno aperto crisi – più o meno gravi – che non mi sarei mai aspettato di essere costretto a commentare.

Non possiamo che partire dai Tampa Bay Buccaneers.
Fino a ieri eravamo sicuri che non potesse esistere umiliazione peggiore di essere sculacciati dagli Steelers di Mitch Trubisky ma sbagliavamo, siamo stati messi davanti a qualcosa di così imbarazzante che la sconfitta di domenica scorsa guadagna onore e dignità con il semplice passare dei minuti: i Tampa Bay Buccaneers di Tom Brady sono stati surclassati dai Carolina Panthers di PJ Walker a un paio di giorni dalla trade che ha spedito Christian McCaffrey in California da Kyle Shanahan.
La cosa ancora più triste, se mi permettete, è che l‘orribile 3-4 su cui stazionano i Buccaneers sia al momento sufficiente per garantirsi la prima posizione in una NFC South insopportabilmente mediocre.

Forse se Mike Evans avesse completato una ricezione che avrà portato a termine mille volte su milleuno tentativi la partita avrebbe preso una piega diversa, ma non possiamo nasconderci dietro la singola giocata ed elevarla sia a giustificazione che a causa, i Buccaneers stavano deludendo da ben prima di buscarsi la più grande umiliazione dell’era Brady.

 

La difesa, forza motrice nelle primissime settimane, ha smesso di produrre turnover a ritmi industriali – e quindi di segnare – e togliere costantemente le castagne dal fuoco compensando a un attacco inspiegabilmente sterile, il pass rush non è più assatanato come a settembre e qualche infortunio di troppo sta costando brillantezza alla secondaria.
Non sono sicuro di potermi avvalere dell’alibi degli infortuni, tutte le squadre arrivate a questo punto del campionato sono malconce e claudicanti e sebbene pretendere i numeri degli ultimi due anni non fosse particolarmente giusto nei loro confronti a causa dello stato della linea d’attacco, fare il necessario per battere Steelers e Panthers è letteralmente chiedere il minimo sindacale: nulla da fare, i loro drive si spengono inevitabilmente o a ridosso della metà campo o, ancora peggio, in red zone.

Nonostante la sovrabbondanza d’armi Tampa Bay fatica tremendamente a tramutare in touchdown i numerosi viaggi nella porzione più importante del gridiron: solamente McManus ha tentato un numero di field goal superiore a quello di Succop e credo che in luce della gloriosa inettitudine offensiva dei Broncos questo sia un dato piuttosto eloquente. Non deve quindi sorprendere la ventiseiesima posizione nella speciale graduatoria della percentuale di touchdown realizzati in red zone in quanto i Bucs, finora, si sono portati a casa i sei punti solamente nel 47.37% delle visite in red zone, un dato piuttosto impetuoso reso ancora meno digeribile dal 30% nelle ultime tre partite.

La perenne emergenza in linea d’attacco sta costringendo Brady a sbarazzarsi del pallone troppo in fretta per cercare giocate diverse da noiosi passaggi in orizzontale nei quali il ricevitore è puntualmente costretto a – provare a – ubriacare di finte l’orda inferocita di difensori pronta a mettergli le mani addosso. Nello specifico, appare evidente che Chris Godwin debba ancora scrollarsi di dosso parte della ruggine causata dal grave infortunio dello scorso anno: a mio avviso Godwin è sempre stato il cuore pulsante del reparto offensivo guidato da Brady e il fatto che per la prima volta dal 2018 stia mettendo a segno una ricezione in meno del 70% dei target a lui devoluti è alquanto emblematico.
Fournette corre tanto e male – 3.5 yard a portata -, la linea d’attacco è profondamente diversa da quella che nell’ultimo biennio aveva protetto Brady con ineccepibile efficacia e Russell Gage e Cade Otton non sono sicuramente Antonio Brown e Rob Gronkowski: le chiavi di lettura dietro il sorprendente flop sono tante, ma sono altresì convinto che Tampa Bay disponga del talento – e della division – necessario per ribaltare la situazione, rimettersi in carreggiata e scaldarsi giusto in tempo per i playoff.

Le speranze, invece, stanno cominciando a svanire a Green Bay, dove Aaron Rodgers sta giocando come fosse un quarterback che, vinto il proprio patetico braccio di ferro con il front office, sente di non aver assolutamente più nulla da dimostrare e che oltre a non fidarsi minimamente dei suoi ricevitori sembra aggiungere un po’ di risentimento a ogni suo lancio, come volesse dimostrare ulteriormente la propria ragione: ah, ho descritto con discreta accuratezza la situazione dei Packers.
Intendiamoci, Aaron Rodgers non è l’unico problema di questa squadra, ma è naturale aspettarsi qualcosa in più da uno con il suo curriculum e il suo contratto: offensivamente parlando, i Packers sono inguardabili.
Il loro gioco aereo è ancor più orizzontale di quello dei Buccaneers – quasi un terzo dei suoi lanci finiscono dietro la linea di scrimmage – e la voluta semplicità del riadattato schema offensivo li rende prevedibili e asettici. È un peccato che il duo Jones-Dillon non sia maggiormente coinvolto, capisco e ho ben presenti i problemi lungo la linea d’attacco ma non prendiamoci in giro, dar loro complessivamente 12 portate in una partita per gran parte condotta o trascorsa alle calcagna dei Commanders è inaccettabile, soprattutto con il gioco aereo così in difficoltà.

Fa impressione constatare che le uniche conversioni su terzo down del loro pomeriggio siano arrivate grazie a penalità avversarie, così come fa raggelare il sangue l’impresentabile 5.5 sotto la voce yard per tentativo: gli sono serviti 35 tentativi per guadagnare la miseria di 194 yard, una cifra che nelle ultime due stagioni non avrebbe avuto problemi a raggiungere prima della pausa lunga.
Ripeto, l’attacco non è l’unico problema, poiché lo special team – ehm ehm, Amari Rodgers – ha ricominciato a commettere gli errori che lo scorso anno sono costati loro la stagione e la difesa, malgrado lo smisurato quantitativo di talento a disposizione, non riesce a opporsi ai giochi di corsa avversari.

Ciò che a mio avviso rende la loro situazione ben più grave di quella dei Buccaneers è la palpabile apatia di Aaron Rodgers, sempre più visibilmente disinteressato e alienato dalla propria squadra e franchigia. Nei suoi occhi non vedo la disperazione e preoccupazione di uno reduce da tre sconfitte consecutive contro Giants, Jets e Commanders, non sicuramente Bills, Chiefs ed Eagles, nelle sue parole non intercetto tracce di leadership o, addirittura, interesse per l’oggettiva gravità della situazione: quando lo sento parlare mi sembra di essere catapultato in un episodio di Seinfeld in cui George Costanza spiega a Jerry le assurde ragioni che lo hanno portato a troncare con una ragazza, nelle sue parole non c’è né senso né coerenza, sembrano messe in sequenza da uno sceneggiatore il cui fine ultimo è confondere lo spettatore, altroché leadership.

La buona notizia è che l’ultima volta che ha promesso il filotto – ve lo ricordate il famoso «I think we can run the table»? – è stato capace di concretizzarlo, ma quelli erano altri tempi e i Packers, almeno in attacco, erano decisamente più attrezzati.
Ciò che mi preme mettere in chiaro è che le loro difficoltà non vadano imputate solamente alla dipartita di Davante Adams, non credo che a separarli da ciò che sono stati nell’ultimo biennio sia un solo ricevitore – indipendentemente dal suo valore -, ho come l’impressione che in spogliatoio si sia rotto qualcosa e che la sempiterna tensione fra Rodgers e la dirigenza abbia solo catalizzato la plausibile fine di un ciclo statisticamente esaltante ma che, nel concreto, non ha poi portato le vittorie come avrebbe potuto e dovuto.

Potrei esporvi i casi di squadre come ‘Niners, Rams, Browns e Raiders ma tra bye week, impegni abbastanza proibitivi e circostanze più o meno variegate mi sento sufficientemente a mio agio ad accantonarli per ora.
Se si parla di “delusioni” tanto vale spendere qualche parola pure sul sinonimo di questo sostantivo, ossia “Denver Broncos”: la situazione in Colorado sta cominciando a farsi irreparabilmente grave e quella che sarebbe dovuta essere la stagione in cui tutti i conti sarebbero tornati s’è trasformata in un vero e proprio incubo a puntate.
Contro i New York Jets i Denver Broncos hanno giocato la classica partita da Denver Broncos, ed è stato tremendo non constatare alcuna differenza fra il rendimento di un attacco guidato da Russell Wilson e dall’undrafted free agent Brett Rypien, poveretto a cui sono serviti 46 tentativi per superare (a fatica) quota 200 yard.

Deprime vedere pure quest’anno il potenziale di un grandissimo reparto difensivo essere sprecato dall’inettitudine di un attacco che, in sette partite, ha messo a segno la bellezza di 100 punti, ossia 14.3 a uscita: dal 1970, anno della fusione fra AFL e NFL, l’attacco di Denver non era mai partito così male.
Tutto questo dopo aver spedito un bilico di scelte al draft – e giocatori – ai Seattle Seahawks, che nel frattempo se la spassano al primo posto della NFC West guidati da Geno Smith: non doveva essere Russell Wilson la risposta? Non doveva essere lui il tassello mancante che avrebbe dovuto innescare una sorta di reazione chimica che come per magia li avrebbe catapultati nell’élite della National Football League?
Per il momento no, anzi, se possibile l’attacco non è girato così male nemmeno nell’ultimo anno di Peyton Manning quando il deterioramento del braccio destro dell’Hall of Famer era talmente avanzato che schierare titolare Brock Osweiler garantiva loro maggior competitività.

In sette partite hanno segnato più di un touchdown solamente una volta.
In sette partite, di contro, la difesa ha tenuto gli avversari sotto i 20 punti in sei occasioni.
Vedete qual è il problema? È sempre la stessa identica storia, non sembra essere cambiato assolutamente niente dai tempi di Vic Fangio, la difesa costruisce e l’attacco disfa, a separarli dalla competitività ci pensa l’assenza di un franchise quarterback degno di nome et cetera et cetera: vorrei confessarvi un pigro copia-incolla da un mio qualche articolo degli ultimi tre anni, ma purtroppo non è così.
La difesa ha concesso lo stesso numero di touchdown segnati dall’attacco e vi confesso che non riesco a capire se ho citato questa statistica per complimentarmi con loro o per gettare ulteriore – e meritato – fango sul reparto guidato da Wilson.
Ciò che fa veramente male è essere testimoni del distacco e dell’indifferenza che stanno calando sopra Mile High, i tifosi oramai esauriti abbandonano lo stadio all’inizio del quarto periodo, indipendentemente dal punteggio: al via degli ultimi quindici minuti di gioco Denver era sotto solamente di un punto.

Quella che stanno vivendo sembra essere l’ennesima – di una vasta collezione – annata buttata e dopo aver investito così massicciamente su Wilson credo che la prima testa a saltare sarà obbligatoriamente quella di Hackett, anche se sto iniziando a chiedermi quanto ne abbia ancora l’icona dei Seattle Seahawks a cui è stata regalata un’estensione contrattuale a scatola chiusa quest’estate che lo lega ai Broncos fino al termine del 2028.
C’è troppo talento per continuare a giocare così male, ma non vi nascondo che giro a vuoto offensivo dopo giro a vuoto offensivo io stia cominciando a perdere la speranza e bollarli definitivamente come causa persa.

Pure per questa settimana è tutto, ci sentiamo fra quattordici giorni ché la settimana prossima sfrutto il ponte di Ognissanti per redigere il pagellone di metà stagione nel quale, volente o nolente, dovrò parlare di tutte le trentadue sorelle: lo so che tecnicamente la metà perfetta della stagione cadrebbe la settimana dopo, ma purtroppo ora sono diventato adulto a tutti gli effetti e il mio tempo libero è regolamentato dal mio lavoro.

6 thoughts on “Considerazioni (il più possibile) lucide su Week 7 del 2022 NFL

  1. Seattle e Kansas City hanno perso pezzi da 90 ma ora stanno andando fortissimo. Io personalmente Wilson lo vedevo già un po’ smorto da qualche stagione. Perdere T. Hill non può essere piacevole ma, che crescita Hardmann, che forza Ju Ju, che utilità Valdes-Scantling quando Mahomes lo chiama in causa. E poi… Kelce, dico solo una cosa, come bloccatore forse un po’ meno efficace ma come ricevitore mi pare sia ai livelli se non meglio di Gronkowski. Domenica lo hanno un po’ limitato ma ciò ha concesso più libertà ai tre WR e reso più efficace il gioco di corse. Mi aspetto una finale di conference monumentale e leggendaria contro i Bills. Ciao Mattia, grazie per tutti i tuoi scritti.

    • Ciao Lema, grazie a te per il commento.
      La costanza a cui ci sta abituando Travis Kelce credo non abbia eguali fra i tight end, gli anni passano, contesti e compagni cambiano ma lui non smetterà mai di rendere come uno dei migliori dieci giocatori della lega: in tutto ciò ha appena compiuto 33 anni! Giocatore veramente generazionale.

  2. …immagino che quando si parlerà dei 49rs, ci sarà la solita sfilza di dotte (ma mai suffragate da dati sul medio/lungo periodo) critiche a Jimmy G: la sua è stata certamente una pessima partita ma i problemi sono più d’uno e anche altrove… I forty niners hanno subito cinque sack! Vi sfido a trovare nelle statistiche una qualsiasi squadra che con cinque sack abbia vinto la partita. A proposito, se ritenete che le statistiche abbiano qualche importanza vedrete anche che è stato il quinto miglior lanciatore della giornata…

  3. È una QB League… e la cosa non mi piace troppo, dato che la “rosa” è di più di 50 giocatori e ognuno ha la sua importanza, ma è innegabile che il QB rivesta un ruolo fondamentale, anche da un punto di vista mediatico.
    Quindi, parlando di QB, penso che TB e AR siano alle prese con grossi problemi personali fuori dal campo che non permettano loro di performare come saprebbero. Poi il talento c’è e magari tra qualche settimana ci dimenticheremo di tutto, ammaliati dalle loro prestazioni, ma al momento TB sembra un giocatore che si è pentito della scelta di uscire dal ritiro e spesso la sua espressione sembra quella di “ma chi me lo ha fatto fare?”.
    AR invece è troppo pieno di sé, evidentemente i numerosi encomi personali ricevuti in questi anni lo hanno fatto sentire onnipotente e immortale. Mi chiedo se mai tornerà sulla terra, anche perché per il momento se si dovesse ritirare ora sarebbe ricordato più come un perdente di successo piuttosto che un eroe che ha riportato il Lombardi a Green Bay.
    E Russell Wilson? Fino a metà della scorsa stagione giocava da MVP… che è successo???

    • Ero convinto che il rientro dalla pensione di TB12 dipendesse anche dalla permanenza di Arians in panchina.. ed invece… il football è gioco corale ed alla sua età non so se possa ancora fare i miracoli … spiaze

  4. Wilson secondo me ha sofferto il cambio di ambiente, dopo 2 anni che a Seattle sapeva di non dovere portare i Seahawks ai playoff, ora ha sulle spalle il peso di dover trascinare i Broncos in postseason.

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