È estate, gli argomenti scarseggiano e abbiamo di tenervi compagnia proponendovi “Non c’è tre senza quattro”, la storia dei Buffalo Bills di Jim Kelly contenuta nel libro Bisogna saper perdere: le dieci più incredibili, epiche e devastanti sconfitte nella storia dello sport scritto da Giorgio Barbareschi.
Gli episodi saranno tre e, se siete incuriositi, potete acquistare il libro a questo link.
Buona lettura!


«Non importa quante volte cadi, ma quante volte cadi e ti rialzi.» (Vince Lombardi)

Per chi non lo sapesse, anche se credo siano in pochi, il Super Bowl è la finale del campionato della NFL (National Football League), la lega professionistica statunitense di football americano. Questo sport non ha nulla a che vedere con il calcio, che oltreoceano chiamano soccer e soltanto da poco hanno imparato ad apprezzare. È più una variante del rugby, in cui due squadre composte da undici atleti di devastante potenza e velocità si affrontano cercando di conquistare il terreno avversario fino al raggiungimento della meta.

Secondo la rivista «Forbes», il Super Bowl è l’evento più ricco al mondo davanti ai Giochi Olimpici estivi, a quelli invernali e alla finale del Campionato del mondo di calcio. Nell’ultima edizione della partita, gli spazi pubblicitari da trenta secondi sono stati messi in vendita a poco più di cinque milioni e mezzo di dollari, quasi il doppio rispetto a dieci anni prima. Eppure sono andati esauriti in brevissimo tempo, perché questo evento ferma un Paese intero ed è vissuto come una vera e propria festa nazionale americana, oltre a essere trasmesso e seguito in altri centottanta Stati.

Quella del 2020 è stata la cinquantaquattresima edizione dello scontro tra i vincitori della American Football Conference e della National Football Conference, i due raggruppamenti che formano la NFL. Il primo Super Bowl venne invece disputato il 15 gennaio 1961, giorno nel quale i Green Bay Packers del leggendario coach Vince Lombardi alzarono il primo trofeo dopo aver sconfitto i Kansas City Chiefs per 35 a 10.

Da allora, solo venti delle trentadue squadre che oggi compongono la lega hanno vinto il Super Bowl: in testa ci sono i Pittsburgh Steelers e i New England Patriots con sei successi, seguiti dai San Francisco 49ers e dai Dallas Cowboys con cinque e via via le altre, ma per dodici franchigie (Arizona Cardinals, Atlanta Falcons, Buffalo Bills, Carolina Panthers, Cincinnati Bengals, Cleveland Browns, Detroit Lions, Houston Texans, Jacksonville Jaguars, Los Angeles Chargers, Minnesota Vikings e Tennessee Titans) il traguardo del Vince Lombardi Trophy non è mai stato raggiunto. Alcune (Cleveland, Detroit, Houston e Jacksonville) non hanno addirittura mai nemmeno partecipato all’appuntamento decisivo.

C’è però una squadra che non solo ha disputato ben quattro finali, ma lo ha fatto in quattro anni consecutivi, dal 1991 al 1994: si tratta dei Buffalo Bills, passati alla storia come i più grandi losers (perdenti) nella storia dello sport professionistico americano.

Il quarterback di quella squadra era Jim Kelly, introdotto nel 2002 nella Pro Football Hall of Fame come uno dei più grandi interpreti di sempre nel suo ruolo. Kelly è stato il miglior giocatore ad aver mai vestito la maglia dei Bills, ma all’inizio non era per nulla entusiasta di essere stato scelto dai dirigenti di Buffalo con la quattordicesima chiamata al draft (il meccanismo con cui ogni anno le squadre selezionano i migliori prospetti usciti dall’università) del 1983.

Non perché la squadra sia scarsa, anzi. Dopo le vittorie degli anni Settanta, legate a doppio filo alle prestazioni del sensazionale O.J. Simpson, divenuto poi tristemente noto anche per complesse vicende extra-sportive, i Bills erano rimasti una stabile formazione da playoff anche nelle stagioni seguenti. Ma dopo quattro annate vissute sotto il sole della Florida durante l’ottima carriera collegiale a Miami, l’idea di spostarsi verso l’estremo nord del Paese in una città gelida in cui in pratica nevica sei mesi all’anno non lo rende particolarmente felice.

Kelly decide quindi di rimanere al caldo e giocare per due anni a Houston nella United States Football League, lega alternativa alla NFL da poco creata da una cordata di imprenditori che comprendeva tra gli altri anche Donald Trump. Quando però due anni dopo la USFL fallisce, Kelly si ritrova costretto a trasferirsi in quella Buffalo che ancora detiene i diritti sul suo contratto, dove trova compagni di squadra di altissimo livello come il running back Thurman Thomas, il wide receiver Andre Reed e il defensive end Bruce Smith.

Un giovane Jim Kelly con la maglia degli Houston Gamblers.

Nonostante le qualità individuali, all’inizio il gruppo fa molta fatica a creare una chimica. Kelly è una vera e propria primadonna, e alcune sue dichiarazioni pubbliche sulla debolezza della linea offensiva provocano quasi subito una spaccatura nello spogliatoio.

Al gruppo viene affibbiato dalla stampa il soprannome ‘The Bickering Bills(bickering in inglese sta per battibecco/bisticcio). In particolare è l’altra superstar della squadra, Thurman Thomas, a scontrarsi a muso duro con il suo quarterback, e ben presto la società li obbliga a una conferenza stampa congiunta nella quale i due, entrambi visibilmente contrariati, dichiarano di aver sbagliato e che da lì in avanti troveranno il modo di andare d’accordo per il bene del team.

Più facile a dirsi che a farsi, ma pian piano i Bills cominciano a ingranare. La squadra allenata da coach Marv Levy cambia impostazione di gioco per passare a una variante di No Huddle Offense (un attacco gestito senza raggruppamenti pre-snap, in modo da impedire alla difesa di rifiatare e organizzare lo schieramento) definita K-Gun.

Il sistema è perfetto per lo stile di Jim Kelly, giocatore veloce e molto istintivo che mal sopporta gli schemi predeterminati dagli allenatori. La batteria di ricevitori a disposizione è ottima, e nel 1990 i Bills guidano la lega per punti segnati, chiudendo la stagione regolare con un record di tredici partite vinte e tre perse che vale il primo posto della AFC.

Ai playoff i Bills sconfiggono nel Divisional Round i Miami Dolphins per 44 a 34, prima di arrivare alla finale di Conference contro i Los Angeles Raiders. Quella partita si gioca sotto una copiosa nevicata e con una temperatura esterna di venti gradi sotto zero, ma coach Levy prima della gara dichiara: «Quando è troppo dura per gli altri, allora è perfetta per noi».

I fatti gli danno ragione, perché i Bills seppelliscono i Raiders 51 a 3, terzo divario più ampio mai registrato per una partita di playoff NFL. Troppo veloci Thomas e compagni, troppo incalzante la pressione dell’attacco guidato da Jim Kelly: dopo aver chiuso una partita comandata dall’inizio alla fine, i giocatori di Buffalo alzano al cielo il trofeo di campioni della AFC e si preparano a volare a Tampa, in Florida, per disputare il Super Bowl XXV.

Ma la vittoria così devastante sui Raiders ha il pernicioso effetto di rilassare troppo l’atmosfera. I Bills, dati per grandi favoriti da tutti gli scommettitori, invece di concentrarsi a dovere sulla partita decisiva contro i New York Giants passano l’intera settimana in Florida a rilasciare interviste, farsi scherzi e divertirsi nei locali.

Thurman Thomas festeggia l’unico – stranamente – touchdown della propria giornata: quel giorno il 34 dei Bills concluse con ben 199 yard dallo scrimmage.

Bill Belichick, in seguito straordinario allenatore dei New England Patriots con i quali arriverà a vincere ben sei Super Bowl, è il coordinatore difensivo di quei Giants, che sono guidati dall’head coach Bill Parcells. I due hanno studiato una difesa speciale per contrastare la K- Gun, con una formazione della linea di contenimento composta da due soli uomini (di norma gli schemi difensivi nel football ne prevedono tre o quattro) e spostando tutti gli altri giocatori a protezione delle zone più profonde del campo.

Il risultato è che ogni volta che un attaccante dei Bills riceve palla viene sommerso dalla pressione degli avversari, rendendo molto difficile realizzare consistenti guadagni in termini di yard. I Bills riescono comunque ad arrivare all’intervallo di metà partita avanti di due punti, ma un drive lungo quasi dieci minuti porta i Giants avanti 17 a 12 alla fine del terzo quarto. Un immediato touchdown di Thomas all’inizio dell’ultima frazione riporta in vantaggio i Bills sul 19 a 17, ma con un field goal di Matt Bahr New York torna di nuovo al comando sul 20 a 19 a circa sette minuti dal termine.

Dopo un paio di serie offensive andate a vuoto per entrambe le squadre, un eroico ultimo drive guidato da Kelly porta i Bills alla distanza utile per effettuare un field goal che, se segnato, darebbe a Buffalo i tre punti necessari per la vittoria finale.

Il kicker di quei Bills è Scott Norwood, specialista dei calci piazzati di norma molto affidabile e uomo dal carattere tranquillo in una squadra piena di ego-maniaci. Ma avere sul piede la palla che può decidere una stagione può essere una sensazione bellissima o bruttissima a seconda delle situazioni.

Il field goal da quarantasette yard è il più lungo che Norwood abbia mai calciato: la palla parte troppo a destra e finisce la sua corsa a un paio di metri di distanza dal palo che delimita il bersaglio, apparentemente spinta fuori da una folata di vento che spazza via assieme a quel calcio tutte le speranze di vittoria di Buffalo e dei suoi tifosi.

Norwood torna distrutto negli spogliatoi, ma con grande coraggio e dignità non si sottrae alla pioggia di domande e critiche che gli piovono addosso, rispondendo con professionalità ai giornalisti che lo assediano. Era un calcio difficile, ma ben pochi opinionisti sono teneri con il povero Scott.

I compagni di squadra fanno il possibile per dargli sostegno in un momento così duro. «Tutti fanno errori», dice il linebacker Darryl Talley. «Se noi non ne avessimo fatto altri prima di quello di Scott, avremmo vinto la partita ben prima di quell’ultimo calcio». Ma nella mente di tutti rimane solo il ricordo di quell’ultimo field goal sbagliato, e questo, come lo stesso Norwood avrà modo in seguito di dichiarare, «fa parte del mestiere del kicker».

È una sconfitta devastante per i Bills, che avevano dominato la stagione regolare e hanno visto le speranze di vittoria andare in fumo per un pallone uscito di pochi metri a una manciata di secondi dalla fine. Ma, nonostante la delusione, nella testa dei giocatori resta il pensiero di aver dimostrato a tutti di essere stati la squadra più forte della NFL, e che presto avranno un’altra opportunità di giocare ancora per il titolo. Al ritorno da Tampa, la gente di Buffalo accoglie i giocatori come degli eroi.

Oltre trentamila persone si riversano in piazza per ringraziare e salutare la squadra che ha regalato così tante emozioni. Guardare il video della folla che canta «We want Scott» per chiamare al microfono il kicker autore dell’errore decisivo è qualcosa che ancora oggi scalda il cuore. Norwood sul palco scoppia in un pianto a dirotto, ma il boato del pubblico riesce per un attimo a riportare un tiepido sorriso sul suo volto rigato di lacrime… (continua)

3 thoughts on “Non c’è tre senza quattro: la storia dei Buffalo Bills di Jim Kelly (prima parte)

  1. Sul calcio di Norwood e l’aria di “perdenti” storici dei Bills nel 1998 uscì anche un film di Vincent Gallo, Buffalo ’66, diventato poi un piccolo-cult.
    Sui Bills purtroppo c’è poco da dire, quella con i Giants fu l’occasione di gran lunga migliore per il V.Lombardi t., coi Redskins andò male e poi nelle successive 2 apparizioni incontrarono una delle squadre più forti di tutti i tempi della NFL, i Dallas Cowboys del trio offensivo Smith-Irving-Aikman contro i quali era difficile raccattare di più della pacca sulle spalle a fine partita e il classico “good job”.

    • Tutto vero. Infatti è ingiusto definire “perdenti” quei Bills, che anzi il miracolo lo fecero proprio nel riuscire a superare anche squadre più forti di loro per arrivare quattro volte di fila in finale. Se non è mai successo a nessun’altra squadra, tanto facile non deve essere…

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