A questo punto della storia NFL vedere i Los Angeles Rams come semplice squadra di football americano sarebbe impreciso, riduttivo e miope: certo, alla fine dei conti pure il loro roster è costituito da 53 giocatori, la loro sideline è popolata di allenatori e assistenti esattamente come qualsiasi altra, ma la filosofia con la quale questa squadra è stata assemblata è tanto affascinante quanto rischiosa, una vera e propria sfida alla logica con cui speculiamo con apprezzabile consapevolezza durante l’offseason.
No, abbracciare il concetto di win now mode non rappresenta in alcun modo una novità nel panorama NFL, ma permettetemi di dire che l’originalità del tutto la si rintraccia nell’approccio a tale filosofia dei Rams, squadra da anni disposta a sacrificare con un’aggressività senza eguali il proprio futuro – che ad un certo punto si è trasformato inevitabilmente in presente – in funzione dell’hic et nunc.

Dal 2016, l’anno in cui selezionarono Jared Goff con la prima scelta assoluta, Los Angeles non ha più scelto un giocatore al primo round del draft: negli anni seguenti, durante l’offseason, sono arrivati in California via trade o free agency individui del calibro di Ndamukong Suh, Marcus Peters, Brandin Cooks, Dante Fowler, Eric Weddle, Clay Matthews e molti altri nella speranza di aggiungere un mix d’esperienza e di talento sufficiente per arrivare fino in fondo.
Nei primi giorni del 2019 andarono molto vicini a portare a termine la propria missione, ma sciaguratamente al Super Bowl si trovarono di fronte una delle migliori versioni di Bill Belichick che, replicando quanto fatto una ventina d’anni prima contro gli allora Saint Louis Rams, inceppò i ben oliati ingranaggi dell’attacco dei Rams limitandolo a tre ridicoli punti.

Nelle ripercussioni di quella sconfitta troviamo parte della origin story di questa versione dei Los Angeles Rams, squadra ed organizzazione che, se possibile, hanno deciso all’unanimità di rincarare la dose giocandosi un tutto per tutto ancor più folle e spettacolare: eccoli spedire due scelte al primo round ai Jacksonville Jaguars per assicurarsi l’allora scontento Jalen Ramsey – al quale hanno dovuto pure dare un contratto che ha resettato il mercato dei cornerback – che ritrova sorriso e forma, ma non basta.
Vedete, in questo momento storico è molto difficile vincere in NFL senza un quarterback di primissimo livello, pensare di arrivare fino in fondo con Trent Dilfer o Brad Johnson under center è sintomo di pazzia, e malgrado qualcuno possa riprendermi facendomi presente che i Philadelphia Eagles abbiano vinto il loro unico Super Bowl con Nick Foles, devo precisare che quel Nick Foles era in missione per conto di Dio, tipo Flacco nei playoff del 2012.

Dopo la mesta eliminazione ai playoff arrivata per mano dei Green Bay Packers, il front office ha messo insieme una delle trade più controverse e clamorose della storia contemporanea spedendo Jared Goff – e il suo contrattone – ai Detroit Lions insieme al solito bancale di scelte alte al draft per Matthew Stafford, eterno incompiuto salvato dall’incompetenza patologica dei Detroit Lions.
Questa mossa mi era piaciuta, Stafford è sempre stato uno dei miei quarterback preferiti, un eroe romantico costretto a combattere da solo contro tutti e tutto – non dimentichiamoci che i Lions sono quelli che hanno costretto al ritiro precoce fenomeni generazionali come Calvin Johnson e Barry Sanders -, ma le implicazioni di tali scambio trascendevano frivolezze come il numero di touchdown lanciati o la spettacolarità di lanci che il povero Jared Goff può solo sognare: in ballo c’era l’ethos dei Rams come franchigia e la carriera di Matthew Stafford, qualsiasi cosa diversa dal Lombardi avrebbe rappresentato un clamoroso fallimento.

Credo che nessun giocatore si sia approcciato alla stagione 2021 con una pressione maggiore rispetto a quella che gravava sulle larghe spalle di Matthew Stafford: sarebbe stato in grado di trascinare sul tetto del mondo una squadra finalmente competente?
I nostri giudizi prevalentemente positivi sul suo conto altro non erano che sfoghi empatici per un essere umano in una situazione professionale tutt’altro che ideale?
Il margine d’errore era minimo, se non nullo, i Rams, squadra perennemente da playoff, con Stafford under center avrebbero dovuto compiere il passo definitivo e arrivare finalmente fino in fondo, qualsiasi altro risultato avrebbe rappresentato un fallimento perché, diciamoci la verità, Stafford è stato preso proprio per vincere il Super Bowl, non per aumentare un grado di competitività già comunque apprezzabilmente alto.

Per valutare trade del genere la pazienza è tassativa, non possiamo basare il nostro giudizio sull’esito di una sola stagione, ma un’eventuale sconfitta alle Wild Card o al Divisional Round – dove morì il loro 2020 – avrebbe spinto molta gente ad urlare al fallimento perché per quello andava più che bene Jared Goff.
Ciò che rende il loro percorso incredibilmente soddisfacente è il fatto che sia stato tutto fuorché netto e lineare, Los Angeles nell’ultimo autunno si è resa protagonista di alti e bassi che ci hanno catapultato su delle montagne russe mentali che un giorno ci spingevano ad affermare con assoluta categoricità a identificare in Stafford il tassello mancante, salvo poi rimangiarci ogni parola a seguito di un paio di sconfitte consecutive.

L’esaltante vittoria sui Tampa Bay Buccaneers sembrava volerci convincere a vederli come favoritissimi per il Super Bowl… fino alla settimana seguente quando furono triturati dagli Arizona Cardinals che li rigettarono nel purgatorio dell’incertezza: una serie positiva resa possibile anche dal livello medio piuttosto basso delle avversarie ha permesso loro di tornare a correre, ma tre sconfitte consecutive contro Tennessee, San Francisco e Green Bay sembravano volerci suggerire che, dopo tutto, pure Stafford fosse parte del problema a Detroit.
Le vittorie dell’ultimo mese, arrivate nonostante uno Stafford piuttosto grossolano con il pallone, li hanno fatti entrare ai playoff tutto fuorché da favoriti: per fare strada a gennaio è necessario essere pressoché perfetti e prendersi cura del pallone come se la propria vita dipendesse esclusivamente da quello.
Los Angeles, dunque, si è presentata alla postseason con il proprio franchise quarterback ancora vergine di vittorie ai playoff in un momento di forma non particolarmente esaltante – eufemismo se si considerano gli otto intercetti lanciati nelle ultime quattro partite: a quel punto, però, Stafford ha trovato il modo, ancora una volta, di stupirci.

Nelle tre partite giocate in postseason l’ex-Lions ha completato il 72% dei lanci tentati raccogliendo in media 301 yard a partita conditi da otto touchdown totali: ciò che più impressiona è il fatto che in queste tre partite abbia commesso un solo turnover – anche se Tartt… lasciamo perdere – dando prova di una tranquillità tipica di uno che ha già preso parte ad un centinaio di partite del genere.
Dopo essersi tolto la debilitante scimmia dal groppone raccogliendo la prima vittoria in postseason della carriera, è apparso chiaro che quarterback e squadra fossero in missione per assicurarsi l’opportunità di giocarsi il Super Bowl fra le rassicuranti mura amiche del SoFi Stadium: battendo i campioni in carica di Tampa Bay ed i San Francisco 49ers di Kyle Shanahan Stafford, McVay ed i Rams in generale hanno esorcizzato i propri demoni dimostrando in primo luogo a sé stessi che la trade di un anno fa era esattamente ciò di cui tutte le parti coinvolte avevano bisogno per cambiare una volta per tutte la narrativa sul loro conto.

Guardando il roster dei Los Angeles Rams è possibile sentire l’eco delle parole «win» e «now» poiché difficilmente troverete una squadra altrettanto equipaggiata e profonda, l’attacco può contare su individui di primissimo livello come il divino Cooper Kupp, il rigenerato Odell Beckham Jr., il sottovalutato Robert Woods – ai box da mesi per la rottura del legamento crociato – e l’eroico Cam Akers, rientrato in campo solamente sei mesi dopo essersi rotto il tendine d’Achille: insomma, Matthew Stafford è stato calato in un contesto ideale dove lui, da franchise quarterback qual è, ha trovato modo di sfruttare la brillantezza di ogni singolo playmaker messogli a disposizione.
Non è un caso che Cooper Kupp abbia messo insieme una stagione che indipendentemente dall’esito del Super Bowl finirà nei libri di storia, non è un caso che Odell Beckham Jr. una volta fuori da Cleveland sia tornato ad essere Odell Beckham Jr.: Stafford è stato trapiantato in California proprio per questa ragione, per ottimizzare le massicce dosi di talento già presenti in un roster che con Goff under center da anni non era più capace di ingranare certe marce.

Ciò che più mi ha impressionato è che Los Angeles sia stata in grado di segnarne più di 27 a partita malgrado l’assenza di Cam Akers, vero e proprio cuore pulsante del reparto offensivo poiché malgrado l’enorme sforzo profuso per arrivare a Stafford non bisogna dimenticare la primaria importanza delle corse nello schema offensivo di Sean McVay: in un modo o nell’altro Los Angeles si è adattata caricando Stafford di ulteriori responsabilità che, come già visto, lo hanno indotto più volte all’errore.
A differenza dei Cincinnati Bengals, l’attacco dei Los Angeles Rams non ha un vero e proprio punto debole individuabile con assoluta precisione, il livello medio è molto alto e la linea d’attacco ha sempre garantito a Stafford una protezione più che adeguata.

Malgrado l’innesto di Stafford gli abbia rubato la luce di qualche riflettore, in questa squadra tutto ruota attorno ad Aaron Donald, a mio avviso il miglior giocatore attualmente in NFL: pure quest’anno il numero 99 si è reso protagonista della solita stagione da Aaron Donald portando la solita insensata pressione al quarterback avversario malgrado raddoppi pressoché sistematici.
Quando si parla di Donald ogni superlativo, a questo punto, è già stato usato poiché molto semplicemente un interior lineman non dovrebbe arrivare al quarterback avversario con altrettanta facilità ed assiduità: Cincinnati, per aver una speranza di vincere, dovrà riuscire a limitare Donald analogamente a quanto fatto da Belichick qualche anno fa durante Super Bowl LIII.

Ciò che li rende estremamente pericolosi è il fatto che allocare perennemente due o tre uomini su Aaron Donald permette a Leonard Floyd e Von Miller di godere di una pletora di uno contro uno che, solitamente, non hanno problemi a sfruttare nel migliore dei modi: questa difesa si esalta su terzo e lungo quando in ovvie situazioni di passaggio Aaron Donald porta pressione al quarterback avversario nel 20.7% degli snap.
Ma non azzardatevi ad immaginare che basti qualche lode al pass rush per compendiare la grandezza della difesa dei Rams: questa sarebbe un’enorme mancanza di rispetto ad un All-Pro come Jalen Ramsey, rigenerato dall’approdo a Los Angeles, od a gente come Leonard Floyd, Von Miller e Darious Williams.
Durante la regular season la secondaria di L.A. è stata una fra le pochissime che ha concesso un numero di touchdown su passaggio minore rispetto a quello degli intercetti e a tal proposito non possiamo che leccarci i baffi nell’attesa del testa a testa fra Chase e Ramsey: la profondità del corpo ricevitori dei Bengals costringerà tutta la secondaria dei Rams a mantenere altissima la guardia, non basta rallentare Ja’Marr Chase per imbrigliare il gioco aereo gestito da Joe Burrow, Boyd e Higgins sono sempre pronti a punire la presuntuosità avversaria.

Questa è un’occasione più unica che rara per i Los Angeles Rams, una vittoria domenica legittimerebbe la loro rischiosissima strategia ripulendo definitivamente la reputazione di Sean McVay deturpata dall’umiliazione inflittagli da Belichick qualche anno fa e, soprattutto, di Matthew Stafford, quarterback “finalmente” vincente.
Los Angeles si trova ad una vittoria di distanza dal poter finalmente tirare uno dei più grandi sospiri di sollievo nella storia NFL: per portare a termine la missione sarà prima di tutto necessario che Los Angeles non batta sé stessa complicandosi la vita con sciatti turnover – vedasi la partita contro i Buccaneers – o decisioni di McVay inutilmente rischiose.

In una magnifica intervista rilasciata a Seth Wickersham la scorsa estate, Stafford disse di essere approdato ai Rams principalmente per giocare partite del genere, partite importanti che attirino l’attenzione di tutta l’America grazie alle quali si sarebbe ritagliato definitivamente un posticino nell’Olimpo dei quarterback: domenica, con gli occhi di tutto il mondo incollati a schermi di ogni tipologia, Stafford avrà la ghiottissima occasione di guadagnare l’immortalità sportiva e ciò non sarebbe affatto male per un ragazzo che solamente dodici mesi fa per portare a casa mezza dozzina di vittorie a stagione doveva prodigarsi in rimonte che non hanno mai avuto nulla da invidiare a quelle di Tom Brady.
Una sola partita potrebbe definire parecchie legacy: esiste qualcosa di meglio del Super Bowl?

One thought on “Road to Super Bowl LVI: Los Angeles Rams

  1. Penso che considerati gli sforzi dei Bengals per contenere Donald e compagnia i Rams avranno tante opportunità per blitzare su Burrow, poi si vedrà.

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