Abbiamo imparato a conoscere i New England Patriots quale organizzazione di primo livello, esemplare nella conduzione degli affari e dell’amministrazione dei costi, nonché nella gestione delle risorse presenti a roster. In queste due decadi di dominio si sono avvicendati tanti protagonisti, tanti dei quali arrivati dal nulla, firmati a basso costo, tutti utili alla causa ed uniti dalla sicurezza di poter giocare in un ambiente vincente per definizione che in ogni singolo campionato poteva fornire la possibilità di raggiungere il traguardo di tutta una carriera, il Super Bowl, all’interno di un ambiente culturale che non ha mai accontentato i capricci delle superstar e dove l’allenatore non si è mai risparmiato dal criticare il suo miglior giocatore, peraltro uno dei migliori di ogni epoca.

La vittoria di Tom Brady con l’uniforme di Tampa Bay addosso ha lasciato un solco profondo all’interno dello spirito competitivo di Bill Belichick, il cui orgoglio è stato senz’altro lacerato dalla dimostrazione pratica che il suo quarterback poteva vincere anche dissociandosi dai colori della franchigia con cui sarà in ogni caso inequivocabilmente ricordato per l’eternità. Perdere, quando la cultura installata in loco è abituata a rispettare determinati standard, è assolutamente inaccettabile. Non qualificarsi per i playoff trovandosi a dover digerire a forza l’implicita relazione tra l’assenza del numero 12 e le possibilità dei Patriots di giungere al Super Bowl, è puro bruciore allo stomaco.

Solo così è possibile spiegare l’inusuale approccio aggressivo che i Patriots hanno scelto di attuare nei confronti della free agency, invertendo i loro stessi dettami andando a sparpagliare 273 milioni di dollari nelle fortunate casse dei giocatori incaricati di colmare da subito le principali lacune cercando di migliorare immediatamente un roster buono per sole 7 vittorie, fornendo una qualità rivelatasi lontana anni luce da tutto ciò che la franchigia ha espresso durante la sua egemonia quasi totalitaria. New England è stata braccata dagli inseguitori sin dalla tragica caduta del World Trade Center, ma ora le posizioni si sono invertite: i Bills comandano ogni trend appartenente alla Afc East proponendosi come squadra di grande talento ed ottima futuribilità, e Belichick, ben sapendo che i tempi delle dieci/undici vittorie stagionali pressoché garantite sono oramai andati, desidera restringere il gap nel più breve tempo possibile, sapendo che ogni tipo di rifondazione troppo pesante del personale da schierare in campo gli farebbe solamente perdere tempo prezioso nella realizzazione delle ambizioni che insistentemente ricerca senza mai mostrare un minimo segno di sazietà. E’ dunque arrivata una costosa – il 73% della spesa totale sinora affrontata dalla dirigenza è avvenuta nelle prime otto ore di mercato – ma assolutamente necessaria iniezione di linfa vitale atta a ravvivare quella versatilità tanto ricercata dal leggendario head coach, un elemento indispensabile per attuare le basi della sua filosofia strategica, il crearsi un vantaggio costante nella possibilità di vittoria dei singoli matchup.

Dal lato offensivo gli interventi il maquillage delle cosiddette skill position si rivela necessariamente rivoluzionario rispetto a quanto osservato durante il più recente torneo. Il particolare che attrae immediatamente l’attenzione è certamente il ritorno del doppio tight end con ottime doti in ricezione, che vede in Jonnu Smith e Hunter Henry il nuovo 1-2 punch che spinge automaticamente indietro Devin Asiasi e Dalton Keene – che nessuno aveva confuso quale nuova incarnazione di Gronkowski e Hernandez – nell’ordine di preferenza stabilito dalla depth chart. Il programma prevede di impossessarsi nuovamente della zona mediana del campo, dove grazie agli squilibri di marcatura nascono i primi down più sicuri, oltre a rifornire di produzione essenziale un reparto che dal ruolo di tight end non ha goduto di alcun contributo. Henry è un tight end più tradizionale, che dopo la rottura del crociato anteriore giunta nel maggio del 2018 in allenamento si è stabilizzato sulla cinquantina abbondante di prese stagionali con 600 yard e 4.5 touchdown di media, vivendo una leggera flessione statistica soprattutto nella percentuale di ricezioni realizzate rispetto ai bersagli (il 64,5% è un career-low), aspetto probabilmente attribuibile allo sviluppo del rapporto con il rookie Justin Herbert. Smith rappresenta invece la componente atletica di questo nuovo tandem, essendo schierabile sostanzialmente in ogni punto dell’allineamento fungendo da wide receiver aggiunto, qualità grazie alle quali ha segnato 8 mete in un 2020 assai soddisfacente.

Una simile duttilità è pienamente leggibile nell’allestimento della batteria di ricevitori, molto deludente nella scorsa stagione, settore che necessitava di una forte quantità di interventi migliorativi. Le mosse dei Patriots restituiscono velocità e dinamismo in un ruolo del tutto privo di un giocatore di primo livello – questo anche a causa delle sole sei partite disputate da Julian Edelman – scommettendo in grande sull’attesa maturazione di un Nelson Agholor che continua tuttavia ad avere moltissimo da dimostrare e non può certo adagiarsi sugli allori delle 18.7 yard per ricezione compilate nell’esperienza ai Raiders, dopo una carriera in cui si è fatto ricordare solamente per i numerosi drop e le mai mantenute promesse in qualità di scelta di primo giro. Come Edelman e Myers (quest’ultimo miglior ricevitore statistico del 2020, ma con sole 793 yard) pure Agholor può conseguire danni alle secondarie partendo dallo schieramento nello slot permettendo alla creatività di Josh McDaniels di deciderne a piacere l’utilizzo, sfruttando una peculiarità insita anche in Kendrick Bourne, velocista in arrivo da San Francisco, creando una situazione dove N’Keal Harry, raro errore di valutazione di questa dirigenza in sede di primo giro, dovrà accontentarsi di raccogliere le briciole o di vedere il suo nome abbinato a qualche ipotesi di scambio, probabilmente a questo punto opportuno per rilanciare un’esperienza professionistica sinora trascorsa con l’etichetta di bust.

Nessun investimento pesante – al momento – è stato eseguito per il ruolo più critico, quello di quarterback, per il quale tornerà a disposizione Cam Newton per un altro anno a dimostrazione implicita della volontà tanto di non gettare scelte alte sul DeShaun Watson di turno quanto di non voler scommettere per più di una stagione su un regista non più così futuribile, a cui è stato sostanzialmente assegnato il ruolo di traghettatore verso la prossima epoca di regia. La posizione è ricchissima di talento ed il prossimo draft potrebbe manifestare diversi colpi di scena, e sarà interessante capire se Belichick riterrà opportuno eseguire mosse per lui rare come una trade up, oppure se deciderà di investire la quindicesima scelta assoluta, insufficiente per raggiungere la maggior parte delle primizie quest’anno disponibili, per un prospetto classificabile nel tardo primo giro. Quel che è certo è che il nuovo accordo di Newton non fermerà la franchigia dal proseguire nel guardarsi attorno, prestando la necessaria attenzione anche alla fase protettiva del gioco, altro settore dove sono state effettuate altre spese rilevanti dopo aver perso una risorsa essenziale come Joe Thuney in un panorama che ha visto la conferma quadriennale per il sempreverde David Andrews, centro di ferrea affidabilità, al quale si affiancano le acquisizioni di Ted Karras, possibile candidato per uno degli spot da guardia, e Trent Brown, tackle tornato a casa via trade dopo le esperienze a San Francisco e Las Vegas.

L’urgenza con cui ci si è mossi anche per il reparto difensivo è sintomo del bisogno di accorciare le distanze con celerità, allestendo un roster che possa permettere di coltivare un obiettivo minimo insito nella qualificazione ai playoff limitandone l’assenza ad una sola stagione. Le falle sono cristalline, i Patriots hanno difeso malissimo sulle corse racimolando la terza peggior prestazione statistica dell’era Belichick e la pressione apportata è stata avara di qualità permettendo solamente il sestultimo risultato di lega in materia di sack. La strada che porta all’atterramento del quarterback è spesso spianata dal sempre poco riconosciuto lavoro interiore, da qui il senso delle firme di Henry Anderson e Davin Godchaux, il cui assegnamento primario sarà rappresentato dalla creazione dei giusti spazi per permettere le incursioni del nuovo arrivato Matt Judon, acquisizione difensiva di spicco in quanto pass rusher in grado di migliorare istantaneamente lo stato attuale delle cose per via dei 30 sack raccolti nell’ultimo quadriennio, fatto che permetterà un adeguato prosieguo dello sviluppo di giovani come Chase Winovich in un reparto che sarà pure solidificato da un ritorno determinante, quello dell’ibrido Dont’a Hightower, e dal rientro di Kyle Van Noy dopo una campagna non del tutto convincente a Miami. Belichick potrà inoltre divertirsi nel collocare Jalen Mills in qualsiasi posizione desideri vista l’esperienza dell’ex-Eagles nel coprire tutti i ruoli di cornerback, safety, e linebacker aggiunto, in un’ottica che andrà presumibilmente a colmare il vuoto lasciato dal ritiro di Patrick Chung aggiungendovi una congrua polizza assicurativa in caso di infortuni per le altre posizioni.

Se doveva pervenire una risposta chiara ed inequivocabile in reazione alla parata celebrativa di Tampa, il messaggio è di sicuro giunto a destinazione. Mentre Tom Brady se la rideva tra un lancio del Vince Lombardi Trophy da un’imbarcazione all’altra ed un sorso di superalcolici, Bill Belichick se la stava vedendo con una natura caratteriale che non accetta di perdere, che ha sopportato a malincuore un divario di forze che non si pensava potesse divenire così largo tanto da estromettere New England dalla possibilità di giocare la postseason. E’ stato come dover chinare il capo ed ammettere un qualcosa di difficile e doloroso, un’impresa per chi individua il significato di vittoria quale parte maggioritaria nella composizione del suo orgoglio, una punzecchiatura che ha dato così tanto fastidio da indurre ad assumere un comportamento inedito, dispendioso, ma assolutamente necessario per darsi una concreta possibilità di tornare con immediatezza nel giro del football che conta.

 

One thought on “Patriots, l’inconsueta ma necessaria aggressione al mercato dei free agent

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