Lo sapevamo, era una mera questione di quando, non di se.
Abbiamo avuto mesi per prepararci, venire a patti con la realtà e trovare la serenità necessaria per accettare il tutto, in quanto sì, ogni volta che un giocatore del genere si ritira noi tutti siamo costretti ad affrontare un mezzo lutto poiché il nostro mondo parallelo perde uno dei suoi abitanti più importanti: nel caso di Drew Brees il ritiro era l’unica opzione sia per lui che per i New Orleans Saints, in quanto quel maledetto 2020 ci ha messo davanti agli occhi tutte le inadeguatezze di una leggenda che ha dovuto chinare il capo al passare del tempo.

Brees lo scorso autunno è apparso irriconoscibile, i suoi lanci arrivavano spesso a destinazione qualche decimo di secondo troppo tardi e, in NFL, un intervallo temporale del genere costituisce la differenza fra un completo ed un intercetto: il suo braccio destro, essenzialmente, lo ha tradito anche se la sua testa, quella sì, operava ancora a livelli da All-Pro.
Per mesi coach Payton ha cercato modi di occultare le debolezze della propria leggenda confezionando gameplan nei quali la profondità era appannaggio di Taysom Hill, in quanto Brees, molto semplicemente, non ne aveva più per spingere la palla oltre venti yard down the field.
L’ultimo suo ricordo, lo ammetto, non è poi così felice, ma proviamo tutti insieme a chiudere gli occhi e rivivere velocemente, nella nostra testa, la carriera di questa leggenda: quest’ultimo ricordo, coincidente con la mesta sconfitta contro i rivali di Tampa Bay, viene sopraffatto da gigabyte di touchdown, yard lanciate e record e molto, moltissimo di più.

È particolarmente complicato valutare la carriera di un quarterback, soprattutto di uno leggendario, poiché si finirà sempre e comunque per compararlo a Tom Brady, giocatore la cui immensità ha più o meno reso banale ogni numero e statistica individuale: come si possono usare tonnellate di superlativi quando abbiamo davanti ai nostri occhi un quarterback che di Super Bowl ne ha vinti ben sette, l’ultimo dei quali un mesetto fa a quarantatre anni d’età?
La risposta, nel caso di Brees, è piuttosto semplice: non ha senso costruire paragoni del genere, in quanto la sua grandezza ed importanza trascendono il rettangolo di gioco.
Intendiamoci, il numero 9 dei Saints passerà alla storia come uno dei migliori dieci – o cinque? – quarterback ad aver mai calcato il gridiron, un cyborg in grado di mettere insieme stagioni oltre le 5000 yards come se fossero la norma, una pigra routine resa tale dalla fuorviante facilità con la quale superava questo traguardo, ma il curriculum di Brees è ben più che yard lanciate: troviamo infatti percentuali di completi da capogiro, montagne di touchdown lanciati e partite consecutive nelle quali almeno uno dei suoi lanci ha portato a sei punti e tanto, tantissimo altro.
Brees, in sostanza, ha reso i numeri banali grazie ad un’operazione simile a quella che sta portando avanti Patrick Mahomes dirigendo attacchi che per mettere a tabellone trenta punti spesso non necessitavano nemmeno di quattro quarti di gioco.

L’unica macchia nella sua carriera, se così si può definire, è un record ai playoff tutt’altro che leggendario reso tale da una serie di delusioni che avrebbero spinto al ritiro precoce anche l’animo più stoico: penso che tutti ricordiate il miracolo di Vernon Davis durante il Divisional Round della stagione 2011, il Minneapolis Miracle, lo scandaloso errore degli arbitri nel Championship Game con i Los Angeles Rams dell’anno seguente o la bruciante sconfitta ai supplementari sempre contro i Minnesota Vikings.
Insomma, abbastanza materiale per spingerlo a chiedersi molteplici volte «Ma chi me lo fa fare?» durante le lunghe ed introspettive offseason che avrebbero dovuto lenire i suoi dolori: Drew, la risposta ce l’ho io, è la città di New Orleans la tua motivazione.

Brees è approdato in Louisiana nel 2006, ad un anno di distanza dall’uragano Katrina, ed il compito che lo attendeva era pressoché impossibile, in quanto non solo doveva trascinare fuori dalle sabbie mobili della mediocrità i New Orleans Saints, squadra a quel punto tramutatasi in barzelletta, ma soprattutto riuscire a regalare ad un’intera città una distrazione, una parvenza di normalità dopo che la natura aveva stravolto e cambiato per sempre le loro vite: è solo football signori, una vittoria od una qualificazione ai playoff non valgono nulla dinanzi alla morte di un proprio caro od all’inagibilità della propria abitazione, ma credetemi, per qualche misera ora la domenica questo sport era capace di far scivolare in secondo piano la dura realtà della loro vita offrendo loro la possibilità di trovare una serenità che erano convinti di aver perso per sempre.
Regalare alla propria gente un modo per evadere per qualche minuto dalla propria precaria esistenza: non è questo, alla fine, lo scopo dello sport?

Brees è arrivato a New Orleans ed in un battibaleno ha trasformato una squadra da tre vittorie in una squadra da dieci capace di centrare subito la qualificazione ai playoff per la prima volta dal lontano 2000: un paio d’anni dopo riuscì a concludere quanto iniziato portando quelli che non troppo tempo prima erano soprannominati Aints sul tetto del mondo.
Vedete, è brutto – ed impossibile – cercare di dare un peso specifico ad un titolo nel tentativo di comprendere quanto – e perché – sia stato più importante rispetto ad un altro vinto da una squadra diversa, ma quel Super Bowl per i Saints, New Orleans e l’intera Louisiana fu tutto, costituì l’occasione per urlare al mondo la propria volontà di rialzarsi non accettando le imposizioni di forze esterne ed eteree: credo possiate darmi ragione se dico che viste le circostanze il significato di nessun Super Bowl sfiori quello avuto dalla quarantaquattresima edizione per la città che ne ha festeggiato la vittoria.

Non m’interessa se lui ed i Saints non sono più stati in grado di bissarne il successo, Brees il suo l’aveva già fatto caricandosi sulle spalle un’intera città e mostrando al mondo intero che New Orleans non si sarebbe arresa e che anzi, malgrado tutto avrebbe trovato la forza non solo di rinascere, ma addirittura di trasformarsi in un qualcosa di migliore riuscendo in ciò che prima nemmeno sognava di poter fare: in quel momento esatto Brees è diventato un’icona, anzi, il volto di New Orleans e credo che l’abbinamento non possa essere migliore, poiché il suo viso pulito è segnato da un’appariscente cicatrice difficilmente ignorabile, esattamente come la cicatrice che si porta dentro questa città che prima di quel maledetto 2005 era sinonimo di festa e spensieratezza.
La cicatrice che graffia la sua guancia è sempre lì, alla mercé dei nostri occhi e curiosità, ogni volta che lo vediamo senza casco il nostro sguardo, inconsciamente, va a cercarla in modo simile all’implicito accostamento che la nostra mente crea fra New Orleans e Katrina: questa cicatrice è in primo piano, ben in vista, impossibile da nascondere e sfoggiata senza alcuna vergogna.

Si ritira un uomo semplicemente straordinario, un padre di famiglia la cui prole è un’intera città, uno a cui scivoloni come quello della scorsa primavera sulla protesta attorno all’inno si perdonano immediatamente, una figura di riferimento il cui impegno nella propria comunità ha toccato, e migliorato, le vite di migliaia di sconosciuti la cui esistenza è stata resa più sopportabile e semplice dalla sola presenza di Drew Brees nella città, o regione.
In questo sito di parla di sport, è vero, ma mi piacerebbe veramente tanto se noi tutti ci sforzassimo a ricordare Brees come qualcosa più che un semplice quarterback in grado di lanciare 400 yard completando più del 70% dei lanci tentati senza alcuna difficoltà, vorrei lo ricordassimo come un eroe contemporaneo reso unico da umiltà, etica del lavoro e bontà d’animo: Brees è un uomo della gente per la gente, un essere umano così importante che a volte ci si dimentica il motivo per il quale sia diventato famoso, la sua legacy è troppo più grande rispetto al solo football.

Grazie di tutto Drew, anche se sono un po’ risentito nei tuoi confronti poiché sono pienamente consapevole che durante il corso della mia vita non vedrò mai più nessuno come te e ciò, molto egoisticamente, mi spaventa perché sono ancora tanto giovane, anche se ho appena realizzato quanta fortuna abbia avuto ad averti negli anni in cui mi sono prima avvicinato e poi innamorato di questo sport.
Grazie Drew.

3 thoughts on “Un saluto a Drew Brees, volto di una franchigia e città

  1. Il pessimo record ai playoff è colpa di Payton (e pure della miglior partita in carriera di Alex Smith).
    Pazienza. Dopo aver rischiato la pelle nella scorsa stagione era giusto voltare pagina.
    Potrebbe essere un buon allenatore, chissà.
    Di sicuro uno dei migliori testimonial di sempre del gioco più duro che esista.
    Se sapeste quanto è brutta New Orleans capireste che vuoto lascerà la casacca n°9 nei cuori dei suoi abitanti.

    • Mi pare di capire che I saints nn prenderanno nessuno dei QB free agent o scontenti che stanno nella lega , ma attingera al draft…

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