A volte, certe notizie non si sa esattamente come interpretarle. In assenza di football giocato entra sicuramente in gioco una certa creatività nel gestire quanto perviene dai vari insider che si contendono scoop a colpi di tweet eseguiti con lo stesso tempismo della traccia di un ricevitore, ed è necessario capire approfonditamente quanto di quel vociferare che riempie ogni giorno i principali siti web sportivi al di là dell’oceano possa teoricamente tramutarsi in una notizia ufficiale.

In un momento dove ogni singolo essere vivente appassionato al gioco sta spasmodicamente attendendo di poter testimoniare l’esito della vicenda che coinvolge DeShaun Watson, fatto che potrebbe far cominciare un’inedita serie di transazioni riguardanti numerosi registi che in questo preciso momento non conoscono con precisione il loro destino, enorme attenzione è dedicata alle nozioni uscite dall’ambiente che circonda Russell Wilson ed i Seattle Seahawks, inserendo preoccupanti crepe in un sodalizio che nell’immaginario collettivo dovrebbe (doveva?) essere solidamente predisposto per durare fino al ritiro dell’immenso numero 3.

I fatti sono ben conosciuti perché la questione tiene banco oramai da qualche settimana, gli unici aggiornamenti significativi sono rappresentati dai maggiori dettagli che vanno a definire meglio il quadro di una situazione abilmente celata ma aggravatasi durante lo scorso torneo nella breve settimana di preparazione al Thursday Night contro i Cardinals, momento nel quale Wilson sarebbe uscito contrariato da una riunione svoltasi in compagnia dello staff di allenatori offensivi con il fine di cercare di arginare l’inattesa piega negativa che la regular season dei Seahawks aveva appena intrapreso. Per calcolare adeguatamente il livello di frustrazione del regista è anzitutto necessario fissare nella mente lo svolgimento della prima parte di campionato e mischiarlo con le adeguate dosi al susseguirsi delle varie stagioni nelle quali Seattle non ha più fatto ritorno al traguardo minimo della finale di Conference, evento mancato negli ultimi sette anni consecutivi nonostante le indiscusse potenzialità di gruppo, un presente certamente differente dal futuro che ci si immaginava a seguito della doppia partecipazione al Super Bowl risalente alle campagne 2013 e 2014, la prima delle quali terminata con il disfacimento di Peyton Manning e dei Denver Broncos forgiando un’epoca nella quale si poteva azzardare ad usare il termine dinastia.

Quel titolo non è mai bastato a Wilson proprio così come non potrebbe mai essere sufficiente per chi cerca di inserirsi tra i più grandi di sempre rincorrendo leggende del calibro di Tom Brady e Joe Montana, ambedue a lui molto simili in quanto titolati ma precedentemente snobbati dai primi giri del draft Nfl. Il franchise quarterback di Seattle ha portato avanti la carretta in modo esemplare e signorile, sorridendo a tutti senza mai far trapelare alcun velo di disagio, cercando di ascoltare i consigli di Pete Carroll e di avere fede nei programmi dirigenziali, che per anni hanno tentato con poco costrutto di sistemare le lunghe ed evidenti problematiche relative alla consistenza delle varie edizioni della linea offensiva che la squadra ha messo in campo negli anni successivi. Il malessere di Russ è maturato da qui, dal trascorrere infruttuoso di anni potenzialmente utili per arricchire la propria bacheca ed arrivare a soddisfare un’innegabile ambizione, quella di fare ingresso tra i massimi esponenti del ruolo di tutta la storia della lega dopo aver sostanzialmente già ipotecato il posto di figura più rilevante di sempre per il football della città di smeraldo.

In principio dello scorso campionato Wilson aveva probabilmente accantonato quelle problematiche, spinto dall’inerzia di uno strapotere offensivo da Guinness dei Primati che aveva permesso una partenza-razzo, in un contesto dove il quarterback vedeva finalmente avverarsi il sogno di essere lasciato più libero di cucinare pietanze succulente per i suoi ricevitori (“let Russ cook”) saziando le esigenze dei vari Metcalf, Lockett e Moore scrivendo cifre impressionanti, tanto da indurre la stampa ad acclamare un premio di Mvp mai vinto in precedenza ma in quel momento pienamente giustificato da un marziano che stava trasportando sulle spalle una squadra imbattuta, ed apparentemente imbattibile.

Il punto di svolta, che ha dettato il frettoloso ritorno di Carroll alle sue convinzioni più radicate, è occorso in coincidenza della duplice sconfitta con Bills e Rams, situazioni che avevano esposto l’eccessiva fragilità della difesa senza che l’attacco potesse riuscire a metterci l’ennesima pezza a causa dell’alto numero di turnover che aveva segnato la sorte negativa dei Seahawks, procedendo verso una seconda parte di campionato dove Wilson si sarebbe visto rimettere uno scomodo guinzaglio già vestito in precedenza. La natura del contrasto nasce con tutta probabilità da questo presupposto, da un head coach più che convinto di dover tornare ad imporre una filosofia con cui ha ottenuto otto accessi ai playoff in nove anni e basata sull’importanza della consistenza difensiva coadiuvata dall’imposizione del gioco di corse, il cui corretto funzionamento avrebbe automaticamente aperto le possibilità alle grandi giocate aeree che abbiamo visto in tutti questi anni giocati ad altissimi livelli di continuità. Un pensiero, questo, che Russell ha evidentemente interpretato come contrario alla sua effettiva utilità in campo allontanandolo dalla sua rincorsa ai grandissimi del ruolo, fatto conseguentemente aggravato dalle premesse di quel fondamentale Thursday Night divisionale, dove il quarterback avrebbe sostanzialmente visto cestinare le sue opinioni sul come raddrizzare quella nave precedentemente così solida.

Entrano quindi in gioco aspetti che vanno oltre il giocare a football fine a se stesso, perlomeno se si pensa che rappresentare l’elemento più importante di una squadra è oggi una questione che non può più essere interpretata come poteva esserlo un tempo. Il caso di Watson cozza difatti a puntino nell’esemplificare la potenziale scontentezza di chi possiede uno status indiscutibile nelle gerarchie di squadra ma che non viene ascoltato quand’è il momento di scegliere la miglior strategia aziendale per l’anno successivo, una situazione non certo analoga a quella di Seattle dal punto di vista delle assunzioni nello staff – Wilson ha avuto voce nella scelta di Shane Waldron quale successore di Brian Schottenheimer nella posizione di coordinatore dell’attacco – ma del tutto simile per quanto concerne il vaglio delle possibili soluzioni tattiche per la risoluzione dei problemi. Un peso, questo, che l’asso degli ‘Hawks si è portato appresso per tutto il prosieguo della stagione ponendolo in contrasto con le memorie delle sue imprese passate, visto che in fondo tre stagioni fa non c’era lo straccio di un gioco di corsa decente e Russ era risultato il miglior performer a terra di tutto il roster, segnando o facendo segnare 37 dei 38 touchdown confezionati dal reparto pur dovendo costantemente improvvisare.

Non è difficile presumere che la terra sia mancata sotto i piedi del regista ben prima di quell’incontro, dato che la frustrazione già non doveva essere poca relazionando l’improvviso ridimensionamento degli obiettivi stagionali alle due dolorose sconfitte contro Bills e Rams, durante le quali Wilson era stato atterrato 11 volte dietro la linea di scrimmage facendo riaffiorare vecchi tarli mentali e nuove problematiche legate ai turnover, ben 7 nel giro di soli 120 minuti effettivi di gare. Da quel momento in poi l’efficacia della regia ha cominciato a dare segni di cedimento toccando il fondo nell’orribile partita persa contro quei Giants costretti a schierare Colt McCoy, circostanza dove i sack non erano più solamente responsabilità delle generose concessioni del fronte a cinque ma pure frutto del tenere il pallone quei due secondi in più, mostrando un livello di panico che non aveva probabilmente ragione di esistere.

Non è certo stato d’aiuto doversi presentare a Tampa per ricevere il premio intitolato all’indimenticato Walter Payton potendo così assistere dal vivo al Super Bowl, osservando l’operato di due colleghi appartenenti a contesti che concedevano loro una maggiore influenza decisionale. In fondo Tom Brady è giunto in Florida emanando indicazioni sulla possibile composizione del roster e sul playbook offensivo, mentre Patrick Mahomes incarnava esattamente l’emblema situazionale in cui Wilson avrebbe desiderato ritrovarsi se non altro per l’ampia libertà che Andy Reid gli fornisce vincolando le sorti dell’attacco al gioco aereo, una visione che Russ aveva già partorito in precedenza individuando nell’imitazione degli esplosivi Chiefs il metodo migliore per fare ritorno al Super Bowl, a dimostrazione del fatto che lanciare spesso nei primi due down poteva far funzionare il macchinario anche se concettualmente in contrasto con la poca voglia di rischiare insita nelle idee di Carroll.

Quel worth monitoring che i più informati addetti ai lavori hanno lasciato trasparire nelle loro dichiarazioni ufficiali potrebbe essere preoccupante. Si rischia di non trovare più il punto d’incontro tra l’orgoglio ferito del quarterback e l’incontrovertibile tesi tattica del suo head coach, dando inizio a fantasie partorite dalle quattro destinazioni che Wilson sarebbe disposto ad accettare nell’ipotesi di trade in primis indicate da Adam Schefter: ai Saints troverebbe una mente offensiva indiscutibilmente straordinaria in Sean Payton, ai Bears un creativo come Matt Nagy, ai Raiders un amante del lancio profondo come Gruden, ai Cowboys un’organizzazione in grado di fornirgli le chiavi della città pur di tornare a vincere.

Se, come riportato nelle ultime ore dai siti americani, il cellulare del general manager John Schneider sta già ricevendo i primi contatti da ciascuna delle franchigie appena menzionate per meglio comprendere la portata di eventuali contropartite, allora la portata della frattura potrebbe aver già essere prossima al suo punto di non ritorno. Sarebbe comunque un peccato, essendo lecito dubitare che nessuna miscela di scelte alte e giocatori possa realmente sostituire le opportunità che Russell Wilson può fornire ai Seahawks di vincere di nuovo il Super Bowl nell’immediato.

Alla dirigenza il compito di trarre le conclusioni più opportune.

3 thoughts on “Russ vs Pete: frattura insanabile a Seattle?

  1. Tra i due, io saluterei Carroll, responsabile di “The worst call ever”.

    Oppure in caso il ciao sia per il QB tocca ricevere in cambio l’acchiappo di una superscelta per tappare il buco subito, altrimenti i già prospettati 10 anni di irrilevanza sul piano ‘contender’ potrebbero raddoppiare.

  2. Via Carroll, Lynch era carico a mille ed avrebbe chiuso il secondo Superbowl vinto. Carroll volle fare il fenomeno e l’onta di quella chiamata non la laverà più. Che le chiavi siano date a Russell e alla sua genialità.

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