Il football americano, come avrete avuto modo di intuire, è il mio sport preferito e se mi chiedeste quale sia il motivo probabilmente non saprei rispondervi: amo vedere gli schemi svilupparsi, amo alla follia il mix di intelligenza e forza bruta dietro ogni singolo movimento – o spintone – di un giocatore in campo, amo l’inumano atletismo di persone che non fosse per il fatto che pure loro, poveri disgraziati, sentono il dolore penserei fossero cyborg.
Ciò che invece più odio di questo sport è quella frazione di secondo dopo un tackle, dopo il fischio dell’arbitro, quella frazione di secondo nella quale un giocatore deve fare la cosa più semplice della giocata, rialzarsi e prepararsi alla successiva: l’intrinseca violenza del football rende quelle maledette frazioni di secondo terribilmente ansiogene, incerte ed imprevedibili, in quanto normalmente ci si dovrebbe rialzare ma, siccome stiamo pur sempre parlando di football, a volte rialzarsi non è possibile.
Qualora non ci si dovesse rialzare, a compensare la mancanza di dolore fantasticamente occultato dall’adrenalina ed altre sostanze chimiche magnificamente orchestrate dal nostro sottovalutato corpo umano, accorreranno migliaia di dubbi sul proprio presente e, soprattutto, futuro: a Dak Prescott, domenica, è successo proprio questo.

Un tackle di routine si è trasformato in tragedia, concretizzando tutti i “nel peggiore dei casi” in cui sarà incappato nelle sue riflessioni estive, stagione nella quale non è riuscito a trovare un accordo con i Dallas Cowboys per il meritatissimo rinnovo contrattuale: siamo nel 2020, le fake news sono oramai pane quotidiano anche di chi non sa cosa significhi il termine, pertanto vi anticipo che non credo minimamente a tutti i sedicenti report su possibili cifre rifiutate dal numero quattro dei Cowboys, ergo non perdete tempo a tentare cinicamente di convincermi che chi troppo vuole nulla stringe.
Prescott è stato selezionato al quarto round e fino allo scorso dicembre ha giocato sotto il proprio contratto da rookie a cifre irrisorie regalando a Dallas 42 vittorie in 69 partite, lanciando 106 touchdown a fronte di soli 40 intercetti e, soprattutto, dando alla franchigia più sotto scrutinio d’America certezza nella posizione più importante del gioco: serve altro?
Non voglio tentare di convincervi che Dak Prescott sia il miglior quarterback della NFL, ciò non è assolutamente vero sotto nessun punto di vista, ma un quarterback da top ten che, in quanto tale, merita di essere pagato secondo i meccanismi seguiti dai contratti firmati quarterback da top ten: prima del contratto firmato da Mahomes, da un decennio a questa parte, il quarterback più pagato della NFL non è – quasi – mai coinciso con il miglior quarterback della NFL.
Funziona così e non ci si può fare niente.

Dallas, inutile nascondersi dietro un dito, fino a metà del terzo quarto di domenica stava deludendo, e non poco, non per colpa del proprio quarterback incappato in un anno nero nel peggior momento possibile, ma a causa di un reparto difensivo capace di permettere al putrido attacco dei Giants di mettere a segno più di 30 punti in una partita di football americano: esiste un singolo fatto isolato in grado di descrivere più esaurientemente l’inettitudine difensiva dei Cowboys?
Prescott, come da anni a questa parte, stava facendo il possibile per tenere a galla una squadra che, apparentemente, per vincere con consistenza doveva – e dovrà – trovare modi per scollinare il quarantello ogni singola domenica, condizione certamente non ideale per valutare il proprio franchise quarterback: a mio avviso questa valutazione deve essere considerata conclusa da tempo, poiché come già detto a più riprese sono convinto che Dak abbia dimostrato di meritare l’opportunità di riferirsi a Dallas come “casa sua” per la prossimo decade – o almeno lustro – e che la scelta dei Cowboys, nel lontano 2016, di spendere una scelta al quarto round per il poco hypato quarterback sia stata una manna dal cielo, visto ciò che stava per accadere a Romo.
Serve consistenza nella vita, la discriminante per la firma del contratto non può coincidere con le vittorie esclusivamente nell’anno in cui Dallas sta faticando ad accumularne per ragioni che non riguardano minimamente il proprio quarterback.

Non siete ancora convinti che Dak Prescott possa essere visto come franchise quarterback?
Proverò a convincervi del contrario.
Oltre che al sopracitato numero di vittorie – comodamente uno dei migliori in NFL dal 2016 in poi -, Dak ha dimostrato di possedere l’affidabilità necessaria per poter essere la soluzione sul lungo termine al più grande problema di un general manager, trovare un franchise quarterback, in quanto prima di domenica non aveva perso una singola partita.
Le statistiche, cari lettori, non sono mai state un problema, in quanto quest’anno, nel disastro che qualcuno aveva avuto il coraggio di imputare a lui, aveva una concretissima opportunità di stracciare il record di yards lanciate in stagione da Peyton Manning: certo, lanciare così tanto implicava che Dallas si trovasse spesso e volentieri a rincorrere, ma come già sottolineato prima le imbarazzanti performance del reparto difensivo non sono dipese dal suo rendimento.

Ciò che più mi preme mettere in evidenza di Prescott e che, a mio avviso, contribuisce a renderlo un franchise quarterback ideale è l’irreprensibile comportamento tenuto fuori dal campo: nonostante una vita costellata da lutti e dolore, Prescott da quando è entrato in NFL non ha smesso per un secondo di comportarsi da ineccepibile professionista, restando lontano da guai, distrazioni e controversie ed anzi, diventando punto di riferimento nella comunità e, soprattutto, mettendo in luce l’umanità di un quarterback, atleta scambiato spesso e volentieri come entità mitologica assolutamente immune dai dolori della vita.
Come già saprete non ha avuto alcun problema a parlare di depressione e salute mentale in uno stato represso come gli Stati Uniti d’America, in uno stato in cui se l’uomo normale non deve mostrare debolezza figuriamoci il quarterback dell’America’s Team: Prescott, non curante di tali visioni anacronistiche, non ha avuto problemi a metterci al corrente della propria mortalità e, una volta che è stato criticato da idioti come Skip Bayless, ha dato prova di maturità senza eguali rinunciando all’opportunità più unica che rara di demolirlo con qualche dichiarazione – o post – al vetriolo, preferendo invece rimarcare con una più esaustiva spiegazione il fatto che per essere leader sia necessario prima di tutto essere a proprio agio con sé stessi e, pertanto, non vergognarsi del proprio dolore ma mostrare al mondo come tale dolore non debba procurare nessuna vergogna nel cuore martoriato che offre a lui dimora.

Prescott è uno di quei giocatori per cui è difficile non tifare, un ragazzo che indipendentemente dalla propria fede sportiva speri che abbia tutto il successo del mondo, uno che nella vita ha abbattuto tanti ostacoli per mettersi nella posizione di diventare uno dei quarterback più ricchi della storia NFL, un ventisettenne che ha già affrontato la morte di affetti imprescindibili come madre e fratello: non tifare per Prescott non significa essere brutte persone, assolutamente, potrebbe piuttosto indicare la presenza di un bias contro di lui o la franchigia che rappresenta.

L’infortunio di domenica, brutto da vedere come poche cose al mondo, non ne compromette assolutamente la carriera, in quanto non stiamo parlando della rottura del tendine d’Achille o, peggio, di quanto capitato ad Alex Smith, verso primavera Dak sarà pronto e motivato come non mai a riprendere da dove si era fermato e Stephen Jones, persona ben più lungimirante e lucida del padre, ha dichiarato che il futuro dei Dallas Cowboys sarà ancora Dak Prescott e viceversa, in quanto assicurarsi un quarterback e persona del genere è veramente difficile ed immagino che ci siano un numero consistente di franchigie pronte a sostenere tale argomentazione.
Il dispiacere per quanto successogli, e per il fatto che volente e nolente tale infortunio si rifletterà sul contratto che mi aspetto comunque firmi nei prossimi mesi, rimane, anche se con tutto quello che ha passato fino a questo punto della propria esistenza riprendersi da questo infortunio sarà poco più che una passeggiata di salute per lui.

La stagione dei Cowboys, con l’espertissimo Dalton under center, non credo sia in alcun modo considerabile da buttare poiché stiamo pur sempre parlando di una squadra della NFC East che, qualora riuscisse a risolvere anche solo un quarto dei problemi che attanagliano il reparto difensivo, ha tutte le carte in regola per strappare un biglietto per la postseason: credo fortemente, però, che in questi mesi anche il più convinto detrattore di Prescott avrà modo di rivalutare l’importanza del numero 4 nella claustrofobica scacchiera texana e che, nonostante il successo che credo Dalton possa raggiungere, il front office dei Cowboys capirà una volta per tutte che blindare Dak Prescott debba essere la loro più grande priorità.

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