I Colts rappresentano un caso più unico che raro nel panorama NFL; sono infatti tra le poche franchigie ad aver potuto disporre di un franchise quarterback successivo all’altro, riuscendo pertanto a mantenere approssimativamente intatte le proprie speranze di vertice per quasi due decadi: l’impatto della combo Peyton Manning/Luck poco dista dunque da quella dei vari Montana/Young o Favre/Rodgers. Ancor più singolare il fatto che ad un anno dallo shockante ritiro del prodigio da Stanford, il team oggi allenato da Frank Reich si ritrovi con quattro reparti assolutamente competitivi e pronti al salto verso vette infinite, sfruttando pure la “tanto attesa” dipartita del GOAT bostoniano che aumenta l’equilibrio al vertice AFC, ma che, incredibilmente, manca appunto di upgrade nella regia under center, o forse no?

Ottimo e incoraggiante era il record ottobrino di 5-2 nella vecchia tornata e Jacoby Brissett dava a vedere segnali luminosi coi quali la fine di un ciclo non pareva essere tale, giustificando per di più il biennale da 30 milioni, e la sua lungimiranza e pazienza nell’attendere chiamate dal playbook, unite perché no pure a un discreto coraggio ereditato magari dal più attempato precedente titolare, facevano presagire l’assicurato ingresso alla postseason, anche per un calendario residuo tutto tranne che impossibile (Steelers, Dolphins, Titans, Buccaneers, Panthers e due volte Jacksonville).

Invece penose prestazioni offensive avversarie compensate però da difese storicamente aggressive e feroci hanno messo in mostra i difetti mentali del ragazzo, incapace – come ovvio che sia – di tirar fuori dalla tensione giocate ad effetto che eludessero un game plan a quel punto sotto scacco, peggiorando perciò le decorose medie sui completi iniziali (64,7%) con veri e propri epic fail (56,5), dovuti a collassamenti della linea e ad una dropback pressure organizzata logicamente proprio per metterlo alla stregua, e contribuendo fra l’altro a tre sconfitte clutch devastanti per le speranze playoff.

Cosa fare a quel punto era chiaro a tutti, regredire nuovamente a buon backup il 27enne da North Carolina State e andare all in in questa tornata su un nuovo uomo di spessore, con la piccola differenza che un profilo così non esisteva; inoltre senza la first round pick Indianapolis non poteva competere per i vari Burrow, Tua o Herbert. Quel che andava comunque fatto era provare a premiare i tre pregevoli settori superstiti, dando loro la possibilità di rientrare in postseason senza crolli improvvisi.

Se era scontato che Brady cambiasse sponda e conference per ottenere l’ultima (?) grande motivazione di un’inarrivabile epopea, gli unici “liberi” sulla carta erano Cam Newton, Andy Dalton e Philip Rivers. La decisione conclusiva, per molti stramba e inspiegabile, a nostro avviso ha valenza. Per età, acciacchi e costanza al vertice difatti, la scelta ci sembra azzeccata: scommettere sull’ex Carolina avrebbe rigenerato eccome vigore nella fanbase ma rappresentava un terno al lotto, il Red Rifle da Cincinnati si sarebbe accordato probabilmente solo per più anni rischiando un Cousins 2.0 mentre sulla 38enne bandiera Chargers investire per una stagione ben 25 milioni (leader di gruppo) ha un senso compiuto.

Il roster oggi ha di fatto due affidabili quarterback per dirigere un attacco peculiare e variopinto e tornare al tabellone di gennaio; in caso di altro fallimento la coppia di direttori d’orchestra saluterà da UFA il 2021 togliendo quasi 50M dal monte ingaggi, utili poi per bussare a qualche porta delusa pronta ad una rebuilding, imbastire trade, corteggiare amori al capolinea (Rodgers/Packers?) oppure ancora attendere il prossimo primo giro al Draft e mettersi in fila per i pronosticati uomini franchigia futuristici (Lawrence e Fields), anziché cercare ricevitori già in voga quali Rondale Moore o DeVonta Smith.

Il salary cap tra i più gonfi NFL (241,5M) e secondo solo ai campioni in carica Chiefs, frutto di un mercato all’assalto e colmo di big splash, non solo però conserva ancora uno spazio di 23 milioni su cui poter agire verso qualche free agent tuttora libero e lascia a Reich una compagine da vetta sostanzialmente giovane (25.36 età media), ma annovera per l’ultimo anno il salasso Rivers/Brissett: un Super Bowl, quello dirigenziale, è stato perciò già vinto da Chris Ballard e tutto il front office.

Se c’è uno settore sportivo dove è pressochè inutile guardare le statistiche è quello sulle percentuali al lancio nella NFL. Diciamo questo perché Rivers nella sua longeva epoca si è sempre contrassegnato con numeri top, dove in quasi 10 stagioni ha gravitato attorno alle 4500 yards generando big play costantemente ed elevandosi a condottiero motivazionale per i suoi uomini. Quello su cui però bisogna riflettere nel contesto storico attuale ad Indianapolis è sulla carente se non proprio assente mobilità del giocatore, caratteristica negativa che lo ha contraddistinto spesso persino negli anni d’oro a San Diego e che ora, alle porte delle 39 primavere, non potrà che peggiorare.

Il post Manning inoltre, ha abituato i vari coaching staff alle scorribande fuori dalla tasca sia di Brissett ma soprattutto dell’idolo Luck, la cui generosità a non mollare l’ovale gli è dopo certamente valsa la fine anticipata della carriera. Adesso non sarà per nulla facile riadattare le chiamate ad un rilascio veloce, ponendo il backfield e le prese out wide quali nuove prerogative per andare profondi.

Per intendersi se si analizzano i campionati peggiori a livello di sack subìti e iardaggio perso dalla pressione altrui, si nota come Philip abbia lanciato la bellezza di 94 intercetti in 5 campionati, lasciando all’interno del rettangolo addirittura 246 iarde di media a torneo (222 l’anno passato). La sua apprezzabile grinta poi, spesso e volentieri si trasforma in frustrazione interiore da riversare verso arbitri o compagni di linea e ricezione, che però molte volte è stata causa di una sua “uscita mentale anticipata” da match playoff e motivo di acerrimi scontri con colleghi di pari esperienza (Gates e Tomlinson) e relative implosioni da locker room. Accettiamo e applaudiamo perciò l’accordo annuale con Rivers per i motivi ampiamente analizzati, fra i quali aggiungere la conoscenza tecnica col capo allenatore e l’OC Nick Sirianni, ma come detto non possiamo esimerci dal constatare le enormi difficoltà storiche a mantenere sangue freddo nel periodo close di una stagione e nell’adattarsi a un gioco da tempo qui affidato alla celerità del regista, che, ripetiamo, dovrà ora virare di 360°.

Una difesa potenziata e numerosi playmaker offensivi con ancora molto da offrire hanno distinto l’offseason di Jim Irsay, che ha ceduto a Ballard le chiavi (e i soldi) per assaltare la free agency e rattoppare più spot nel Draft 2020.

In avanti, per aiutare Rivers a restare “integro” è stato confermato Anthony Castonzo, left tackle di una linea settima nelle rushing yards e ininterrottamente presente, mentre nel secondo round pescati Michael Pittman Jr, wr d’impatto e funambolo a Wisconsin, e Jonathan Taylor. Il primo riporta stazza sull’ampio dai tempi di Reggie Wayne e la robustezza del secondo nelle intenzioni dovrà appaiarsi alla velocità delle corse di Mack, con inoltre il fullback former Steelers Roosvelt Nix in predicato ad aprire corsie al duo. Tutto dipenderà, oltre che dalla verve del qb, pure dai problemi fisici in ricezione, sia di Hilton, indiscutibile campione sfiancato però nel fisico, senza il quale il record Colts è 1-9, ma anche dell’ex rookie Parris Campbell, rapido e versatile.

Il pezzo pregiato ricoperto d’oro in offseason arriva dalla difesa – costato una prima scelta – e prende il nome di DeForest Buckner, tackle dominante di cui è superfluo parlare, che si addiziona a Justin Houston e al due volte All-Pro Darius Leonard. A caccia di rivincite in una secondaria priva di certezze, giunti a un anno Xavier Rhodes e TJ Carrie; atteso invece alla prova del nove il sophomore Rock Ya-Sin, in un reparto dove le zone di Hooker e Khari Willis sono tutto fuorchè assegnate. Idem per Sheard, oggi veterano free agent, ragion per cui Kemoko Turay, Tyquan Lewis e Ben Banogu, tutte pick da secondo giro, verranno coordinate da Matt Eberflus.

La leggenda Vinantieri, libero dopo la penosa ultima campagna (14 su 15 kick sbagliati, inclusi 6 extra point), sarà sostituito dal debuttante rookie Chase McLaughlin, in competizione con l’undrafted rookie Rodrigo Blankenship. Chiudono l’ottimo special team il punter Sanchez, il long snapper Luke Rhodes, il rb Nyheim Hines, strepitoso nei due td su ritorno da punt lo scorso anno, e le aggiunte da Draft Isaiah Rodgers (CB/ritornatore) e Jordan Glasgow, middle linebacker di Michigan.

Veramente una bella franchigia Indianapolis, costruita da Ballard anno dopo anno per riempire ogni buco e difetto, ma che, ironia della sorte, si ritrova forse ancora dietro ai Chiefs, Ravens, Patriots o Texans di turno, proprio per l’assenza di quel tassello principale che per più di venti anni (dal 1998) ha avuto in organico e venuto a mancare nello start 2019! Con un profilo alla Manning o Luck a dirigere le operazioni non avremmo dubbi su chi indicare in AFC quale favorita per il grande ballo; così invece non resta che attendere e vedere se una stagione tormentata dalla pandemia e dunque priva di sicurezze, possa perciò regalare ai Colts qualche chance in più e a Rivers l’ultima possibilità per far ricredere scettici e detrattori, noi in primis.

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.