Dopo anni e anni di richieste nel 1932 la città di Boston riuscì finalmente ad ottenere i diritti per la nascita di una nuova franchigia della National Football League, cosa resa possibile grazie all’improvvisa rinuncia dei Cleveland Indians, che concluso il lungo peregrinare della stagione 1931 disputata in sostituzione dei Newark Tornadoes, decisero di cedere diritti, oneri ed onori direttamente alla lega, pronta di rimando ad accontentare finalmente gli investitori del Massachussets.

A raccogliere l’eredità della franchigia attiva ancora oggi nella MLB fu un’altra squadra di baseball che da qualche lustro spopolava nei dintorni del Braves Field, i Boston Braves, che ai nastri di partenza della stagione sportiva 1932 si presentarono con una compagine pronta ad affrontare anche il campionato di football, sotto la guida di un gruppo dirigenziale che oltre ai tre proprietari storici del team Vincent Bendix, Jay O’Brien e Dorland Doyle contava anche la new entry George Preston Marshall.

Boston Redskins 1933

Quest’ultimo rimasto da solo al timone dopo una stagione inaugurale conclusasi con un bilancio in rosso che aveva allontanato dalla neonata franchigia tutti i suoi soci, si trovò dinnanzi ad una decisione epocale ed in concomitanza con il cambio di casa, passando dal Braves Field al Fenway Park, sede dei cugini Red Sox, scelse di operare un taglio netto con il passato, variando non solo la guida tecnica, ma anche nome e uniformi del team.

Il primo passo fu quello di ingaggiare uno degli allenatori più in voga del momento William Henry Dietz, divenuto famoso come Lone Star Dietz in virtù delle sue orgini indiane, il secondo quello di cercare un nome che mantenesse fede alla storia recente, ma comunque passata, della franchigia ma che allo stesso tempo permettesse alla squadra di football di prendere le dovute distanze, ed evitare altresì facili confusioni, con quella di baseball.

Marshall che era molto attento alle questioni di marketing e che, stando agli articoli dell’epoca, nutriva un profondo rispetto per la cultura dei Nativi Americani decise di mantenere un nome che non si discostasse più di tanto da quelli utilizzati nelle ultime due stagioni dalla franchigia, Indians e Braves, e che allo stesso tempo consentisse comunque ai tifosi di continuare ad identificarsi con essa.

In ultimo, come viene riportato anche su diversi giornali di quel periodo, decise di onorare la discendenza del suo nuovo head coach e di almeno 4 atleti presenti in quel momento nel roster del team di Boston optando per un nickname che celebrasse la loro appartenza alle popolazioni indigene del Nord America, per l’appunto Redskins.

Una scelta che da anni e soprattutto dal 2013, quando un gruppo di senatori accolse una protesta di una rappresentante della Navajo Nation, Amanda Blackhorse, ha dato vita ad una serie di controversie sfociate negli accadimenti di questi giorni e che hanno portato l’attuale proprietario del team Daniel Snyder a dare il via ad un processo per il cambiamento del nome.

Nel mezzo tante cause, tanti processi, tanti scontri, ed una miriade di articoli in cui si sono spese innumerevoli parole per sostenere i favorevoli o i contari alla cancellazione del termine Redskins a fianco del nome Washington e che qualche anno fa sono arrivati addirittura a mettere in dubbio la discendenza indiana dello stesso Lone Star Dietz, adducendo al fatto che tutta la storia su cui è stata costruita la nascita del nickname adottato dalla franchigia di Boston nel lontano 1933 sia fasulla.

Lone Star in abito Indiano

A portarla alla luce nella primavera di sette anni fa fu una studiosa indipendente, Linda M. Waggoner, che nel suo saggio “The Washington R*dskins Wily Mascot: Coach William “Lone Star” Dietz” raccontò di come quest’ultimo venne accusato di aver falsamente dichiarato origini indiane per sfuggire all’arruolamento durante la Prima Guerra Mondiale, analizzando le varie fasi di un processo avvenuto nel lontano 1919, quando davanti ai giudici e alla corte riunita a Spokane, nello stato di Washington, sfilarono diversi familiari veri o presunti di Dietz, raccontando ognuno di loro la propria versione.

L’accusa sosteneva che Dietz si fosse appropriato di un’identità fasulla facendosi passare per James One Star, un uomo di 12 anni più anziano, la difesa che invece lui fosse semplicemente un figlio concepito dal padre William Wallace Dietz con una donna indiana fuori dal matrimonio e successivamente portato a Rice Lake, sua città natale nel Wisconsin, per essere cresciuto dalla moglie Leanna dopo che il loro primogenito era nato morto.

Una storia con tanti lati oscuri dalla quale non emersero mai delle piene certezze, tanto che la giuria decise di non condannare, in prima istanza Lone Star perchè non riteneva sufficienti le prove dell’accusa, ma che erroneamente viene raccontata come principale motivazione alla base della condanna subita da Dietz qualche anno più tardi, quando fu costretto a passare 30 giorni nella prigione locale.

Una pena inflittagli nel 1920 dopo che Dietz dovette affrontare il fallimento della ditta di produzione cinematografica, la Washington Motion Pictures Company, e non ebbe la disponibilità economica per convocare sul banco dei testimoni gli ufficiali della Mare Island Marine, base presso la quale svolse l’addestramento militare nei primi anni della Grande Guerra e di cui divenne allenatore nel corso del conflitto, gli stessi che gli consigliarono come compilare il documento di esenzione dal servizio alla base del processo, come riporta nel suo studio il biografo Tom Benjey, da anni impegnatosi a lottare in difesa della storia di Lone Star e dei Redskins.

Dietz con la divisa della Carlisle Indian School

Quest’ultimo sul suo blog personale ha più volte contrastato gli articoli redatti dai giornalisti di varie testate statunitensi che prendono spunto dalla composizione della Waggoner per attaccare la franchigia, e con dati e prove concrete, citando fatti spesso completamente ignorati dalla controparte, è riuscito a portare alla luce nuovi elementi che evidenziano quanto sia stato effettivamente determinante Dietz nella scelta del nickname Redskins nel lontano 1933.

Probabile ideatore delle uniformi in rosso e oro antico che ricordavano quelle della Carlisle Indian School, college indiano che dominò nel football universitario di inizio XX Secolo, utilizzate dal team di Boston a partire da quell’anno, e disegnatore del logo raffigurante una testa indiana multicolore che adornava la parte frontale della divisa, nel corso delle sue ricerche Benjey trovò un avvocato che aveva rappresentato dei discendenti di One Star, lo zio indiano da cui Dietz aveva sempre dichiarato di discendere, interessati a ricevere un compenso per “l’opera d’arte” da lui composta.

Per assurdo quei dicendenti dei Nativi Americani, per nulla offesi dall’utilizzo del nickname, avrebbero accettato di buon grado diverso merchandise marchiato Redskins a riparo del danno, ma a causa di una normativa scaduta anni prima non ricevettero mai nulla; con il senno di poi forse già allora tutta questa polemica intorno al nome della franchigia di Washington si sarebbe potuta chiudere senza bisogno di spendere ulteriori pagine ed annesse parole.

 

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