Spesso le persone silenziose vengono considerate troppo piene di sé, scambiate per arroganti vista la loro poca propensione al dialogo che porta erroneamente a pensare che non abbiano voglia di ascoltare, e che pertanto credano di essere già edotti su qualsiasi materia, che non necessitino più di insegnamenti e consigli; invece nella maggior parte dei casi queste persone sono degli ottimi ascoltatori, semplicemente raccolgono tutte le informazioni necessarie prima di parlare perché gradiscono dire cose sensate, mai scontate, e allo stesso tempo, molto spesso, sono dotate di una forza interiore fuori dal comune.

La stessa cosa che successe a Mark Bavaro, nato il 28 Aprile del 1963 a Winthrop, Massachussets, che per l’intera carriera universitaria e collegiale venne definito antipatico da molti addetti ai lavori vista la sua scarsa loquacità durante le interviste e l’avversione verso qualsiasi forma di mondanità a partire dal modo di vestire, sempre molto semplice, in controtendenza alla maggior parte delle stelle dello sport, “il suo guardaroba è composto solamente da jeans e scarpe da ginnastica, è incredibilmente umile” scrisse in un articolo dell’epoca l’editorialista del New York Times David Litsky.

Ed umile Mark lo era davvero, merito degli insegnamenti trasmessigli dalla madre Christine, terapista matrimoniale e familiare, e dal padre Wally, un ex giocatore che dopo aver fallito l’entrata in NFL, ci provò con i 49ers a fine anni cinquanta al termine di una buonissima parentesi NCAA con Holy Cross, si riciclò come allenatore di football e atletica leggera al liceo, che lo accompagnarono per tutti gli anni delle medie e del liceo, quando era una delle stelle della Danvers High School con cui raggiunse la ribalta statale conquistandosi le attenzioni di diversi college di primo livello.

Contattato da Ohio State, Purdue, Michigan, Stanford, Oregon, decise di optare per la gloriosa Notre Dame e spostarsi a South Bend, in Indiana, alla corte di coach Gerry Faust, con il quale ebbe un rapporto di odio-amore per l’intera durata della carriera universitaria; in contrasto con la gestione del coach, “con lui non puoi permetterti di commettere un errore, se sbagli ti dice subito che sei un pessimo giocatore di football, non ti lascia giocare; con lui è impossibile migliorare”, dopo qualche apparizione da freshman e un secondo anno passato fuori dal football a causa di un infortunio alla mano, Bavaro torna a far parte degli Irish come redshirt sophomore, nel 1983, ed è tra i protagonisti nella vittoria del Liberty Bowl, 19-18, su Boston College.

L’anno successivo decide di tornare dopo un chiarimento con coach Faust e continua la sua crescita, anche se parte del coaching staff non gli perdona i contrasti avuti in precedenza e offre feedback negativi ad ogni scout che mostrano interesse in ottica futura per la NFL; Mark comunque completa 32 ricezioni per 395 yards totali e 1 touchdown, conquista la nomina nel First Team All-American e il suo nome inizia a circolare tra gli addetti ai lavori per la fisicità, unita alla concretezza, mostrata sul terreno di gioco, così rinuncia al suo ultimo anno in NCAA per passare tra i professionisti.

Tra i team più interessati ad accaparrarselo ci sono i Giants, ma come anticipato i resoconti sul ragazzo di origine italiana non sono favorevoli, “Avevamo avuto cattive notizie dai suoi allenatori” e così l’head coach Bill Parcells opta per mandare uno dei suoi uomini di fiducia, lo scout Jerry Angelo, a visionarlo in prima persona; quest’ultimo, senza tanti giri di parole, dopo averlo visto all’opera alza la cornetta del telefono ed esclama “prendi questo ragazzo, lo amerai”, ed alla richiesta dell’allenatore sul fatto se fosse in grado di reggere nel football professionistico rispose, “si, diavolo se è un duro. Lo è più di quanto tu lo possa immaginare”, così pochi mesi più tardi Bavaro entra in NFL, selezionato nel corso del quarto down, con la centesima scelta assoluta.

Quando il nonno materno Joe Lalli apprese la notizia da sua figlia Christine disse “un giocatore professionista? E’ carino, ma digli di trovare un lavoro in città, con una pensione regolare”, uomini di altri tempi, come l’altro nonno, Domenico Bavaro, con cui da piccolo passava interminabili ore nel piccolo vigneto di famiglia, ed una volta raccolta l’uva, Mark stava a casa da scuola per aiutarlo a pigiarla; convinzioni e tradizioni che i vecchi si erano portati dietro dall’Italia e che con il tempo, grazie al filtro dei genitori, avevano trasmesso anche a sua sorella Robin e suo fratello David, linebacker di Syracuse che avrebbe seguito il suo stesso percorso qualche anno più tardi.

Presentatosi al training camp dei Giants il prodotto di Notre Dame si mette subito in mostra, tanto che alla fine dei lunghi allenamenti estivi coach Parcells lo indica come quello che lo ha più colpito tra i nuovi arrivati, e alle sue parole segue la promozione in depth chart prima della partenza della regular season, quando Bavaro si trova ad essere il Tight End titolare dei blue newyorkesi; 37 ricezioni, 511 yds, 4 touchdowns, sono i biglietti da visita con cui si presenta in NFL aprendo la strada ad una nuova tipologia di TE, giocatori che fino a quel momento erano utilizzati quasi esclusivamente per bloccare ed effettivamente lo stesso numero 89 era entrato tra i Pro con la nomea di essere un ottimo blocker, ma come racconterà verso fine carriera il QB Phil Simms “Mark è stato un pioniere nel passing game, quel lancio sopra la testa dei difensori mentre loro stanno guardando, il salto a prendere la palla, proteggerla ed atterrare con il possesso anche se colpiti, beh, si può dire che l’abbiamo inventata noi grazie a lui. I Giants furono i primi a utilizzare e perfezionare quel tipo di giocate in NFL.

Ogni volta la stessa storia, snap, botta al difensore che si trovava dinnanzi, poi se l’azione prevedeva un pass, ecco il TE farsi strada nel traffico, cercare di posizionarsi bene con il corpo, volgere lo sguardo verso il cielo e poi elevarsi fino a raggiungere nel punto più alto possibile l’ovale, poi stringerla, rimettere i piedi per terra e combattere con tenacia per mantenerne saldamente il possesso; memorabile negl’occhi dei tifosi Giants fu l’occasione in cui ci vollero ben sette giocatori di San Francisco per cercare, inutilmente, di fermarlo, in una sfida del 1 Dicembre 1986, al suo secondo anno nella lega.

Vincitore di due Super Bowl con i Giants, il XXI al termine della stagione ’86 e il XXV a conclusione del torneo del 1990, Mark decide di fermarsi dopo quest’ultimo trionfo per cercare di recuperare dal terribile infortunio al ginocchio che gli era costato buona parte della season 1989 e che lo aveva costretto a stringere i denti, giocando pieno di acciacchi, un numero innumerevole di volte nei mesi passati; “Quando quel Super Bowl finì, pensai a tutti gli effetti, la mia carriera era finita” spiegò anni dopo il tight end, ma invece era solo un arrivederci, e passato ai margini il 1991 rientra in NFL per vestire la divisa dei Cleveland Browns nel 1992.

Sotto la guida di Bill Belichick Bavaro gioca titolare in tutte e 16 le partite collezionando 25 ricezioni per 315 yards e 2 touchdowns, ma a fine anno decide comunque di cambiare aria e giocare quelli che saranno i suoi ultimi due campionati NFL con i Philadelphia Eagles, accumulando 60 prese per 696 yds e 9 TD; convocato in due occasioni al Pro Bowl, 1986 e 1987, inserito nel Ring of Honor dei Giants nel 2011 e membro della National Italian American Sports Hall of Fame, è considerato uno dei migliori interpreti del ruolo di tight end ad aver calcato i campi della NFL.

Definito “Leggenda”, “Bestiale”, “Duro”, da molti tifosi dei Giants per aver giocato con mascella, naso, ossa di diverse parti del corpo rotte, il suo nickname era Rambo vista la sua somiglianza con l’attore Sylvester Stallone, soprannome che lui ha sempre detto di non amare particolarmente visto che gli ricordava i veterani della Guerra del Vietnam per cui provava un profondo rispetto; tra i più famosi attivisti anti-aborto statunitensi, dopo il ritiro dalle scene si è dedicato al trading azionario prima di diventare Vice Presidente della DesingCentrix, una casa di mostre d’arte di Chicago, e scrivere il suo primo romanzo, Rough & Tumble, ambientato nel mondo del football.

Sposato da più di trent’anni con Susan, si è lasciato alle spalle da tempo la sua nomea di “uncoachable”, alla cui perdita ha contribuito principalmente il suo rapporto con coach Parcells, che ha continuato ininterrottamente ad elogiarlo, anche ad anni di distanza dalla fine della carriera professionistica; “Credo che, per un periodo di tempo, per tre o quattro anni, sia stato il miglior TE della NFL. Il migliore in assoluto nel football. Mark era un potente bloccatore, una forza della natura. Non solo bloccava i linebacker, ma era anche uno di quei rari tipi di tight in grado di gestire pure i defensive end. Un ottimo ricevitore sicuro, bravo a correre con la palla una volta completata la ricezione, sempre determinante in endzone. Un giocatore completo, un compagno di squadra eccezionale, per anni ha personificato ciò che significava essere un Giants”.

E nei Giants trovò anche quello che sarebbe divenuto il suo miglior amico per il resto del cammino, Phil McCoskey, wide receiver prima e suo socio in affari per anni poi “spesso mi chiedono ancora oggi di Mark – ma è davvero così duro? – ma è davvero così cattivo? – ma davvero non parla con nessuno? – ed io sorrido, rispondo – Guarda, è una persona gentile e sincera, anche simpatica – e loro mi prendono per pazzo. Non hanno mai capito che il suo silenzio, è sempre stata la sua vera forza.”

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