Tra gli anni sessanta e settanta il Football era fatto di formazioni assolutamente bilanciate, un ricevitore, massimo due sul terreno di gioco, pochi tight end in grado di ricevere, tanti giocatori abili a bloccare, principalmente per i runningback, in parte anche per i quarterback; e il gioco era abbastanza lineare, handoff a destra, corsa del runner, handoff a sinistra, altra corsa del RB, ogni tanto qualche pitch, qualche lancio del QB, poi, se proprio la difesa si addensava troppo a ridosso della linea di scrimmage, ecco partire la cannonata sul profondo che molto spesso si traduceva in un touchdown.

Cose semplici, poco articolate, d’altronde fino a quando uno schema funziona e ti permette di ottenere buoni risultati non serve a nulla cambiare e percorrere strade tanto sconosciute quanto rischiose, e così facevano anche dalle parti di Shreveport, Louisiana, dove nella Woodlawn High School guidata fino a pochi mesi prima dal futuro Hall of Famer Terry Bradshaw stava muovendo i primi passi nel football liceale il giovane Joseph C. Ferguson, promosso dal junior varsity team per fare da backup ad un quarterback giunto all’ultimo anno di eleggibilità.

Correva l’anno 1966 e quel ragazzo che aveva da poco compiuto sedici anni, era nato il 23 Aprile 1950, stava prendendo ancora confidenza con il sistema quando il titolare improvvisamente iniziò ad avere problemi fisici e il coach che lo aveva seguito fin dai tempi in cui era una promettente matricola, AL Williams, successivamente diventato con il passare degli anni un suo caro amico di famiglia, decise di puntare subito su di lui, affidandogli le chiavi dell’attacco degli Knights.

Una situazione non facile da gestire per un giovane appena promosso dalla junior, ma passate le prime partite in cui un’attenta gestione del coaching staff gli ha garantito una buona protezione consentendogli di prendere confidenza con il gioco e i compagni di squadra, Joe fa il suo e il team perde solo una partita, alla prima di playoffs contro Bogalusa, dopo aver concluso con un 10-0 la stagione regolare; l’anno successivo con un roster quasi interamente rinnovato in cui il QB è uno dei pochi superstiti arrivano solo 2 vittorie e le premesse per chiudere in maniera pessima la carriera liceale nel senior year ormai alle porte ci sono tutte.

Invece succede quello che tutti, accaniti fans compresi, meno si aspettano, ovvero che coach Williams ha l’intuizione che cambia il corso degli eventi e la vita di Ferguson optando per una formazione che a quei tempi era decisamente particolare, presentando Woodlawn con 3 o 4 WR sul campo ad ogni down; “lanciamo, lanciamo fino a quando non ci fermano” dice a sorpresa al suo quarterback prima del match d’apertura della regular season, e da quel momento gli Knights prendono il volo, inanellando successi su successi con l’ovale messa in aria 30 o 40 volte a partita, un’enormità per quei tempi.

Joe, in possesso di un braccio che ha pochi eguali, viene esaltato dal nuovo sistema e il talento si rivela in tutto il suo splendore con prestazioni memorabili che lo fanno ben presto diventare il prospetto numero 1 del Paese, rivelando anche un carattere combattivo, sempre pronto a lottare e mai disposto a mollare una singola yard; un carattere da vero leader con cui sprona i teammate a dare il meglio, guadagnandosi il loro rispetto ed assicurandosi una protezione che fa nascere la leggenda del “The White Knight” dopo che in tutte le partite in cui Woodlawn indossa l’uniforme bianca, lui arriva al fischio finale puntualmente immacolato, senza i segni dell’erba o del fango su jersey e pantaloni.

Laureatosi campione AAA della Louisiana High School Athletic Association viene inseguito da diverse Università di prima divisione compresa la locale LSU, ma con sommo rammarico di tutti i fans che speravano di vederlo all’opera con i colori dei Tigers in NCAA, decide di accettare la corte dei rivali di Arkansas, convinto che possa essere la destinazione migliore per il suo stile di gioco e la sua crescita; le cose invece non vanno proprio così e dopo un buon inizio che lo porta a vincere il titolo di miglior giocatore offensivo della Southwest Conference nel 1971 finisce per essere addirittura panchinato nella parte finale della sua senior season, il 1972.

Nonostante questo per anni i record fatti registrare con la divisa dei Razorbacks, 4,431 yards lanciate in carriera, 2,203 delle quali solo nel ’71, rimarranno imbattuti e saranno necessari 36 anni prima che un altro quarterback, Clint Stoerner, riesca ad abbatterli sfruttando le conoscenze e l’esperienza del suo allenatore, Ferguson, QB coach di Arkansas proprio tra il 1997 e il 2000.

Ma questa, ovviamente, è un’altra storia, che appartiene ad un momento proiettato nel futuro, perché dopo la fine del percorso universitario Joe entra nel mondo del football professionistico, selezionato nel terzo round del Draft 1973 dai Buffalo Bills che non esitano a consegnargli lo starting spot già nel corso della rookie season, quando in punta di piedi e con un po’ di sorpresa da parte degli addetti ai lavori diventa il primo quarterback della storia a conquistare 3 vittorie nelle prime 4 partite giocate da titolare in carriera; oltre a lui ci riuscirà solo un certo Matt Ryan con gli Atlanta Falcons nel 2008.

Con la franchigia dello stato di New York Joe gioca ben dodici stagioni in un momento storico in cui il team, nonostante la presenza di alcune stelle, non gode affatto di buona salute, tanto che riesce a centrare la qualificazione alla postseason solo in tre occasioni, nel 1974, nel 1980 e nel 1981; inizialmente chiamato a fare da “sparring partner” allo stellare O.J. Simpson, di cui dirà qualche anno più tardi, in seguito all’episodio tristemente famoso, “ Immagino che debba essere cambiato dopo aver lasciato Buffalo perché il ragazzo che conoscevo non avrebbe fatto una cosa del genere. Non poteva. Era troppo intelligente”, prende le redini dell’attacco nel 1975, quando l’head coach Lou Saban si decide finalmente a sfruttare le sue ottime doti di passer.

Coinvolto in un sistema di gioco più adatto alle sue caratteristiche Ferguson emerge e proprio in quel ’75 chiude la stagione in testa alla NFL per numero di TD pass lanciati, 25, lega che guiderà anche due anni più tardi con le passing yards raggiungendo quota 2,803 al termine della regular season; una crescita costante che lo porta ad aver il miglior anno da professionista nel 1981 quando sfonda per la seconda volta la barriera delle 3,000 yards completando passaggi per 3,652 yds, 24 TD pass e 20 intercetti.

Quarterback controverso, che alternava periodi pessimi a momenti di forma eccelsa e che spesso rimediava ad inizi partita terribili con roboanti rimonte finali, nel 1983 risulterà il giocatore ad aver realizzato più comeback nell’ultimo quarto, è stato amato e allo stesso tempo odiato da molti tifosi dei Bills nei dodici anni in cui ha indossato la divisa di Buffalo, ma indubbiamente rimane secondo, come storia, numeri, imprese, solo al suo successore Jim Kelly, che per molti ha raccolto tanti successi anche grazie al sentiero tracciato in precedenza da Joe “Mi sarebbe piaciuto lasciare un biglietto vincente, questo è il mio più grande rimpianto. I fan si chiederanno sempre se sono stato il quarterback giusto per questa squadra negli ultimi anni. Voglio essere ricordato come un ragazzo che ci ha provato.

Passato a Detroit nel 1985 gioca un biennio nei Lions prima di trasferirsi nei Buccaneers nel 1987, per fare da backup a Vinny Testaverde e tornare in quella Florida che aveva fatto da sfondo ad una delle sue grandi imprese da professionista, quando in una sera d’autunno del 1981, il 12 Ottobre, nel Monday Night Football della sesta settimana riuscì finalmente a battere i Miami Dolphins, “bestia nera” dei Bills in quegl’anni, completando 20 passaggi su 29 tentati per 338 yards e 3 touchdowns; una notte incredibile, un match indimenticabile al termine del quale Joe pronunciò queste parole “Mi ci sono voluti 11 anni per vincere qui a Miami ed è una grande vittoria per noi. Questo è qualcosa che volevo davvero fare prima di smettere. In realtà non riesco ancora a capacitarmi di quello che abbiamo fatto contro i Dolphins perché semplicemente.. non lo fai, non lo puoi fare. È stata la partita più emozionante in cui abbia mai giocato. Sono felice per tutti, specialmente per Joe Ferguson.”

Da Tampa passa ad Indianapolis per quello che resterà il suo ultimo anno di carriera, 1987, fino alla stagione 1995, quando incredibilmente decide di rindossare casco e shoulder per aiutare il suo vecchio coach Kevin Stephenson, che nel frattempo aveva preso le redini dei San Antonio Texans, franchigia iscrittasi alla Canadian Football League quando quest’ultima ha cercato di espandersi sul suolo statunitense; quarantacinque anni suonati e zero snap giocati sono gli ultimi numeri di una carriera ricca di emozioni prima di iniziarne una nuova da coach, dai Razorbacks ai Bulldogs di Louisiana Tech come allenatore dei QB, poi come HC alla Ruston HS e, infine, alla Captain Shreve HS di Shreveport, dove giunge al capolinea il suo lungo peregrinare sui campi di football.

Tornato in Arkansas apre un’azienda che si occupa di investimenti nel campo immobiliare mentre continua a dedicarsi alla sua vera passione, la pesca, dedicandosi all’amata palla ovale solo davanti al teleschermo, “adoro guardare il College Football, meno la NFL”, fino a quando nel 2005 deve affrontare una nuova battaglia, quella contro il cancro, specificatamente il Linfoma di Burkitt; vinta anche questa lotta scoprirà tre anni più tardi, nel 2008, che si trattava solo dei primi due quarti, gli ultimi, quelli decisivi, li giocherà contro un nuovo male, la leucemia, sconfitta definitivamente grazie alle cure cui è stato sottoposto presso l’Anderson Cancer Center dell’Università del Texas di Houston.

E così, ancora una volta, il “Cavaliere Bianco” ne esce immacolato, non da un terreno fangoso che ha appena ospitato una partita di Football, ma dal match più importante della sua esistenza, quello per la sua stessa vita.

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