Shreveport, Louisiana, 1983, un giovane atleta multisport e pluridecorato della Southwood High School deve decidere quale strada scegliere per il proprio futuro, sportivo e accademico; da una parte c’è una guardia talentuosa di 191 centimetri che sul parquet ha attirato le attenzioni dei college di Division II e III, dall’altra un quarterback, sempre di 191 centimetri, con un laser al posto del braccio che ha tra le mani una proposta di borsa di studio da parte della prestigiosa Louisiana State University, “il basket è stato il mio primo amore, davvero, ma sapevo di avere maggiori possibilità di giocare a Football a livelli superiori quindi ho messo la pallacanestro da parte per un po’”.

Parole e musica di Stan Humphreis che a ridosso dei 18 anni, era nato il 14 Aprile 1965, si trovava di fronte alla prima scelta importante della sua vita, e decidendo di rimanere il più possibile vicino a casa optò per proseguire il suo cammino nel mondo della palla ovale accettando la corte dei Tigers; considerato una delle matricole più promettenti della sua classe di reclutamento, a Baton Rouge passa il biennio 1984-85 senza mai incidere, e dopo diversi dissidi con l’head coach Bill Ansparger si trasferisce a Northeast Louisiana, entrando nella storia del college che oggi conosciamo con il nome di Louisiana-Monroe, con cui vince il titolo nazionale della Division I-AA nel 1987.

Selezionato nel corso del sesto round del Draft 1988 dai Washington Redskins, resta nella capitale per 4 stagioni facendo da riserva a Mark Rypien e vincendo, sempre da backup, il Super Bowl XXVI, sua ultima apparizione con la divisa dei pellerossa prima della trade che a ridosso della regular season 1992 lo porta sulla costa opposta degli States, a San Diego, in cambio di una third-round pick, dove prenderà il posto dell’infortunato collega John Friesz.

Con i Chargers è amore a prima vista, e dopo una partenza a dir poco scottante, 0-4, riesce a risollevare le sorti di un team che l’anno precedente aveva chiuso 4-12 portandolo ai playoffs con 7 vittorie consecutive nel finale di stagione, arrendendosi solo nel Divisional Round di fronte ai Dolphins di Dan Marino; primo e, finora, unico caso nella storia della NFL di team qualificatosi per la postseason dopo aver iniziato con quattro sconfitte in campionato, i californiani ci riprovano due anni più tardi, nel 1994, quando Humphries si rende protagonista di due rimonte epocali entrate di diritto nelle pagine leggendarie di questo Sport.

La prima in un’inattesa rivincita contro Miami, superata 22 a 21 tra le mura amiche dopo aver chiuso in svantaggio, 6-21, all’halftime, la seconda una settimana più tardi nel Championship AFC andato in scena al Three Rivers Stadium di Pittsburgh, dove il numero 12 ha guidato due drive vincenti e la difesa ha respinto l’ultimo disperato attacco degli Steelers, ribaltando il risultato dal 3-13 di fine terzo quarto al 17-13 finale.

Laureatisi Campioni della American Football Conference i Chargers si guadagnarono l’accesso a quello che per ora rimane l’unico Super Bowl disputato nella loro storia, dal quale uscirono comunque sconfitti dai cugini dei San Francisco 49ers senza perdere l’amore e l’affetto dei loro tifosi, ancora inebriati dai festeggiamenti con cui li avevano accolti due settimane prima, al rientro dalla Pennsylvania; “Quando siamo tornati a San Diego, c’erano 10.000 persone schierate in autostrada e altre 65.000 circa nello stadio. Era come un grande raduno” raccontò qualche anno dopo, nel 1998, Humphries, mentre annunciava al mondo il suo ritiro dalle scene a trentadue primavere da poco compiute.

Una scelta difficile presa al termine della season ’97, saltata per metà a causa della sesta commozione celebrale subita nel corso della sua carriera decennale, decisiva per fargli prendere la decisione di appendere casco e paraspalle al chiodo, dedicandosi anima e corpo alla famiglia ed in particolare alla primogenita Brooke, operata al cuore due anni prima, nel 1996.

Proprio seguendo il percorso sportivo della figlia Steve riallaccia i contatti con il suo primo amore, il basket, e dopo che anche la secondogenita Chlesea inizia a mostrare un certo interesse per la pallacanestro il suo ritorno alle origini è ormai questione di tempo, giusto qualche mese, il tempo necessario per riflettere, lasciare quel ruolo da offensive coordinator ricoperto per UL Monroe fin dal 1998, e offrirsi volontario come football coach e assistente allenatore di basket alla Ouachita Christian High School nel dicembre del 2001.

Dal 2008 la passione per la palla a spicchi prende il sopravvento e dopo aver allenato per tre stagioni alla St.Mary’s HS di Natchitoches, servito per cinque anni come assistant coach alla West Monroe la HS, Humphries torna nel luogo che lo luogo che lo aveva consegnato alla storia, l’università di Monroe, per dare il proprio contributo alla squadra di pallacanestro femminile dei Warhawks; quella che sembra essere la fine ideale di un viaggio durato quasi trent’anni della sua vita è però solo un semplice inizio, quello di una nuova avventura che lo riporta nel punto esatto da dove il fuoco per il parquet e il canestro si era riacceso, la palestra della Ouachita Christian.

Dal 2017 Steve è diventato l’allenatore delle Lady Eagles e nel giro di pochissime stagioni le ha rese imbattibili mettendo in pratica le tante cose imparante sui campi da football, curando ogni partita e ogni stagione nei minimi particolari, dallo scouting delle avversarie alla collaborazione diretta con gli allenatori delle scuole medie locali per il reclutamento di nuove, potenziali campionesse, seguite con lo stesso affetto e dedizione con cui si era dedicato alle sue Brooke e Chelsea.

E così dopo aver vinto un Vince Lombardi Trophy e averne sfiorato un secondo, aver lanciato per 17,191 yards e 89 touchdowns, esser stato inserito nella San Diego Hall of Fame, nella San Diego Hall of Champions e nella Louisiana Sports Hall of Fame, Humphries ha capito che oltre alla famiglia non c’è stato un amore più intenso di quello provato da lui per il basket, “Quello che dico loro è che amo il gioco più di quanto io abbia mai amato il football. E quando mi guardano mentre le alleno, in allenamento o in partita, e vedono la passione e l’intensità che provo, che ci metto, tutto questo lo capiscono da sole”.

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