La recente apertura della finestra primaverile del mercato Nfl ha sancito che l’ennesima fermata di una carriera da girovago come quella sinora vissuta da Nick Foles, una delle storie più bizzarre di tutta la Nfl, sarà Chicago. E’ senz’altro raro veder cambiare così tante uniformi ad un giocatore che in determinati sprazzi della sua esperienza professionistica ha disputato partite eccellenti, di caratura senz’altro superiore rispetto a quello che la sua storia stessa dimostra, nonché assai differente in relazione ai giudizi emanati dagli esperti in occasione della sua ormai non più fresca uscita dal college, quando per lui si profilava un’esistenza ai margini del suo identikit tecnico, un buon quarterback in grado di subentrare a partita in corso senza mettere in pericolo il rendimento della propria squadra, magari buono per essere titolare in una compagine senza particolari ambizioni.

Eppure il prodotto proveniente dall’università di Arizona di detrazioni esterne ne ha sconfitte tante più di quante ci si potesse immaginare nonostante l’altalenante rendimento mostrato in questi otto anni nelle sue varie incarnazioni di starter e backup, perché stiamo pur sempre parlando di un ragazzo che, nella doppia opportunità vissuta a Philadelphia, ha dapprima compilato uno dei migliori rapporti tra touchdown ed intercetti della storia (27 a 2 nell’annata 2013, nella quale gli Eagles uscirono dai playoff solamente per un field goal allo scadere messo a segno dai Saints) e quindi iscritto la propria effigie agli annali del football in quell’istantanea che ritrae il mitico “Philly Special” – un trick play attraverso il quale il quarterback ricevette un touchdown determinante per l’esito della gara – assieme all’enorme contributo per il Super Bowl vinto nel febbraio del 2018 dagli Eagles sconfiggendo i mostri sacri di New England, scrivendo sul tabellino finale 28 passaggi completi su 43, 373 yard, 3 passaggi da touchdown, uno per l’appunto ricevuto, ed un intercetto. Sembravano cifre da Tom Brady, contro il quale Foles aveva duellato da vero e proprio campione nonostante il divario d’inesperienza nell’intimidatorio palcoscenico del Super Bowl, ma appartenevano invece ad uno dei protagonisti più improbabili di sempre per una finalissima, se non altro perché un paio di anni prima il principale pensiero del buon Nick aveva addirittura riguardato il ritiro dal professionismo.

Ottenere il meritatissimo premio di Mvp del Super Bowl LII ha difatti richiesto una congrua dose di coraggio, carattere e fede, un tratto spiccatamente distintivo, quest’ultimo, della sua personalità, e Foles ha sviluppato un’evidente attitudine al superamento degli ostacoli che la carriera gli ha messo davanti. Sbarcato nella lega quale scelta di terzo giro di Philadelphia quando ancora vi allenava Andy Reid, ha trascorso una stagione da rookie molto difficoltosa dovendo scendere in campo prima del previsto a causa degli infortuni di Michael Vick senza granché  impressionare, l’anno seguente ha approfittato delle medesime circostanze per mettersi a giocare come un automa posseduto da una forza misteriosa distribuendo passaggi da touchdown ovunque (ne mise a segno ben sette contro i Raiders in quel magico 2013) solo per ritrovarsi impacchettato in direzione St. Louis in cambio di quel mezzo rottame che si dimostrò essere Sam Bradford (ci perdonerete la poca delicatezza, ma a volte le cose vanno dette così come stanno…), proseguendo un cammino al buio già cominciato nell’ultima stagione a Philadelphia – il 2014 – che si sarebbe prolungato assumendo le sembianze di quell’inferno rassegnato alla terrificante pochezza offensiva dei Rams di Jeff Fisher e la visione anticipata della fine dell’esperienza nel Missouri, ulteriormente deteriorata dalla selezione di Jared Goff nella primavera del 2016, un chiaro segnale che presto le valigie si sarebbero dovute riempire nuovamente.

Il Missouri a dire il vero non l’avrebbe lasciato ma si sarebbe solo spostato di località per merito di Andy Reid, che lo convinse a non appendere il casco al chiodo e gli offrì il posto di riserva di Alex Smith, che se non altro gli avrebbe aperto una nuova prospettiva di carriera. Così fu, perché seppur trovandosi a doverlo rilasciare dopo solo un anno a Kansas City Reid l’avrebbe in seguito raccomandato al discepolo Doug Pederson nella seconda chance a Philadelphia, ed il resto è storia ben conosciuta. Anche se Foles, quella strada per la gloria, l’ha dovuta percorrere ancora tra mille difficoltà, entrando in campo solamente a causa del grave infortunio al crociato patito da Carson Wentz proprio nel miglior momento della regular season degli Eagles. E, alla fine dei conti, nonostante premi di Mvp e parate cittadine con il Lombardi Trophy per le mani, non si era creata tutta questa controversia sulle prospettive del ruolo, perché era fin troppo chiaro a tutti – per quanto Espn e insider vari volessero far credere – che Philadelphia non avrebbe certo rinunciato ad un talento come Wentz neppure senza la sua perfetta forma fisica, e due quarterback con contratti onerosi non servivano certo alla causa degli allora campioni Nfl.

Per Foles si è sempre trattato di arrivare dietro agli altri, non importa quanto fosse riuscito ad ottenere: esito non differente nemmeno una volta giunto il trasferimento nell’umida Jacksonville, pronto per condurre i Jaguars da titolare indiscusso dopo le disgrazie combinate da Blake Bortles con la complicità della dirigenza allora capeggiata da Tom Coughlin, una possibile svolta definitiva fermata ancora una volta da un evento avverso, la frattura della clavicola riportata nella prima gara stagionale contro – guarda caso – i Chiefs del baffo. L’occorrenza l’avrebbe poi tenuto ai box fino ai primi giorni di novembre, quando sarebbe rientrato in campo infilando una serie di gare mediocri accumulando turnover e sconfitte, trovandosi soffocato dal declino generale dei Jaguars e relegato in panchina a favore del pittoresco Gardner Minshew, che seppur non avesse giocato proprio benissimo aveva fatto intuire alla dirigenza di Jacksonville che quel contratto quadriennale buono per 88 milioni di dollari forse non era così indispensabile per le casse del team posseduto dall’istrionico Shahid Khan.

La trade che ha portato Foles ai Bears possiede tutti i tratti somatici caratteristici della carriera di Nick Foles. Prima scambiato per Bradford, poi per un pugno di noccioline, che sarebbe l’equivalente della quarta scelta compensatoria che Chicago ha concesso ai Jaguars in cambio del pesante contratto del quarterback, preso per accendere il motore competitivo di Mitch Trubisky e fargli capire che il suo tempo nella Windy City si sta rapidamente esaurendo a meno di una svolta decisa della sua esperienza a Chicago, una sensazione di pericolo con cui Foles ha invece convissuto per anni nel suo ruolo di ragazzo costretto ad oltrepassare una cospicua quantità di ostacoli.

La mossa, per l’ennesima volta, è ancora da correlarsi alla disperazione di qualcun altro invece che al merito riconducibile a Nick, forse un’ingiustizia troppo grossa, ma che racconta molto bene la storia di una carriera trascorsa tra troppi alti e bassi. In fondo, per quanto questa possa ritenersi titolata, la fama di un quarterback non dev’essere proprio al top quando con un contratto di quegli importi ci si trova a perdere il posto a discapito di un Minshew del tutto sconosciuto, scelto al sesto round, che con la sola eccezione di qualche singola giocata eccitante o qualche partita disputata in maniera diligente, non ha certo offerto un rendimento tale da ritenerlo uno starter affidabile per l’immediato futuro.

Ai Bears Foles troverà una situazione in piena crisi, ed il suo compito nella risoluzione di questa lo scoprirà solo strada facendo, quando comprenderà se potrà essere lui il salvatore della storica patria locale o se sarà semplicemente servito per svegliare definitivamente una delle peggiori scelte che la franchigia abbia mai effettuato nella sua lunga e rispettata esistenza. Conta ancora una volta la conoscenza personale e la professionalità dimostrata da Nick nelle sue varie tappe, ed ecco un’altra porta aprirsi per merito di Matt Nagy, un nome riconducibile sia a Pederson che a Reid, un concetto che non va confuso però per nepotismo ma per l’agio che porta la conoscenza di un determinato giocatore e la sua conseguente velocità nell’apprendere un sistema offensivo per l’80% già ben conosciuto per l’esperienza passata, una caratteristica determinante per una offseason che potrebbe non permettere così tanto tempo per allenarsi.

Chicago ha un’ottima squadra azzoppata da un attacco inefficace, tutto ciò che serve è un quarterback efficiente nell’innescare le varie armi che i Bears possono mettere in campo grazie al tasso atletico dei suoi ricevitori, magari minuti nel fisico, ma certamente sfuggenti in accelerazione dopo una ricezione corta. E questo Foles lo sa fare benissimo, perché la sua precisione nel raggio breve è sempre stata la sua peculiarità principale in termini di affidabilità sin dai tempi del college.

Mentre il mondo attende di tornare alla normale quotidianità la prossima fase dell’inconsueta carriera di Nick Foles, il miglior giocatore del Super Bowl LII, sta prendendo una nuova forma. Una volta in più o in meno, per chi è abituato al cambiamento come lui, non farà poi tutta questa differenza.

4 thoughts on “Il lungo viaggio di Nick Foles: la prossima tappa è Chicago

  1. Io la mossa dei Jaguars non l’ho capita tantissimo.. Ti affidi ciecamente ad un QB al secondo anno che l’anno scorso, soprattutto nella seconda metà della stagione, quando le responsabilità iniziavano ad essere più importanti, ha mostrato una certa tendenza al panico e al conseguente turnover. E lasci andare, rimettendoci una vagonata di soldi, un QB che ha dalla sua potenzialità enormi e che la scorsa stagione ha sì giocato male, ma anche x aver forzato un recupero dalla rottura di una clavicola, infortunio non proprio simpatico x chi deve lanciare e da cui riprendersi non è immediato. Secondo me è già scritto che dopo 3 partite Foles sarà titolare a Chicago e x il resto della stagione Trubisky terrà la bottiglia del Gatorade ai compagni quando torneranno in panchina

    • Ma non è un Campbell o un Ramsey di turno, da anni all’interno dell’organizzazione. E l’anno scorso non ha giocato nemmeno 10 partite: quindi quest’anno sarebbe stata una sorta di nuovo inizio. La cosa sconvolgente è, secondo me, la quantità di soldi che hanno perso con questa mossa. Boh..

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.