WEAK BOLTS

Contro i Broncos l’attacco di Philip Rivers ha giocato una rara brutta partita.

Più di qualcosa non va nei Chargers, fermi a 2-3 in un momento nel quale i pronostici li avrebbero proiettati quantomeno con un bilancio inverso, ma il football matematica non è e l’esecuzione viene sempre prima di tutto il resto. Da ormai due settimane la squadra non riesce a risultare efficace tanto in attacco quanto in difesa, mancando di creare quelle giocate elettrizzanti che Philip Rivers e compagni detengono nel proprio arsenale, offrendo nel contempo un reparto difensivo barcollante, troppo discontinuo nelle differenze di resa tra una metà e l’altra di ogni partita.

Il sunto di quella che si è rivelata poi essere la prima vittoria in campionato per i rivali Broncos è rappresentato da entrambe le sezioni appena menzionate. Rivers è stato protagonista di una delle peggiori uscite di carriera, Los Angeles non ha difatti segnato alcun touchdown offensivo per la prima volta in quasi quattro anni portando a 0-8 il record di carriera del quarterback in coincidenza di tale evento statistico. Vic Fangio ha decodificato le abitudini di Rivers, Allen, ed i pericolosi running back dei Chargers, compreso il rientrante Melvin Gordon schierando costantemente due defensive back sul profondo per evitare guadagni o mete a lunga gittata togliendo una grossa fetta di possibili big play, limitando l’efficacia di un Keenan Allen frustrato dalle misere 4 ricezioni per 18 yard accumulate al termine di una gara dove Rivers – pur senza subire sack – è stato sotto enorme pressione. La mossa tattica più efficace tra quelle pensate da Vic Fangio, che al di là del record dei Broncos rimane una mente difensiva più che competente, è stata quella di eliminare la fonte vitale, i cosiddetti checkdown, quei lanci semi-orizzontali verso i running back che portano normalmente tra le 10 e le 20 yard di guadagno quando eseguiti correttamente, un principio schiantatosi contro la prontezza reattiva dei difensori in arancione.

A Los Angeles, come prima a San Diego, si viveva esattamente di questo, ed è arduo ritenere la squadra competitiva se tenuta in queste condizioni offensive. Prima dell’ultimo drive, ininfluente perché giocato dai Broncos con una copertura meno serrata, Gordon ed Ekeler hanno totalizzato 3.3 yard per ricezione in una gara dove il gioco di corse non è stato un fattore per motivi prettamente legati alla necessità di dover rimontare due touchdown già nel primo quarto, ma la statistica più impressionante è il 4.4 medio di yard per completo registrato da Rivers, uno dei cinque dati più bassi compilati in carriera e peggior risultato degli ultimi dodici anni di onorate presenze in campo. Il  numero 17 ha operato in condizioni precarie per tutto il pomeriggio lanciando due intercetti determinanti – uno dei quali con il possesso sulle 7 yard a favore – commesso un intentional grounding che ha allontanato la distanza di un field goal poi sbagliato dal rookie Chase McLaughin, e rischiato di commettere altri turnover facendosi graziare da qualche drop dei difensori. Per fortuna, giornate così capitano solamente una volta ogni tanto.

La difesa non è meno preoccupante, perché pare non giocare un’intera gara con la stessa intensità. Confermando problematiche già ben evidenti nelle precedenti esibizioni i Chargers hanno concesso 187 yard nel solo primo quarto ad un attacco sinora non esattamente produttivo, cominciando il primo snap con un totale abboccamento verso una playaction andata a generare 26 yard di guadagno, seguita da altre 21 generate da un Philip Lindsay risultato incontenibile per la maggior parte della gara. Non è la prima partenza lenta di una difesa molto incerta nella posizione di linebacker, nella quale Denzel Perryman viene costantemente messo in difficoltà da un blocco o da una copertura mancata, e dove sussiste una rotazione pressoché continua che suggerisce il mancato reperimento della giusta combinazione di giocatori, tra i quali si sta gradualmente inserendo il rookie Drew Tranquil. Contro avversari di minor spessore come i Dolphins concedere un touchdown nel drive di apertura può essere riparabile, trovarsi invece  sotto di 14 punti e dover rimescolare il piano di gioco originario togliendosi dei chiari punti di forza – le corse – presenta un conto diverso quando la difesa che si fronteggia è così attiva.

Giocando così diventa difficile compiere il primo passo della missione, quello di stare dietro a dei Chiefs che raramente compiono un passo falso. Se poi anche i Raiders si propongono in una versione decisamente progredita rispetto ad un anno fa, la questione si fa lunga.

COLTS, BACK TO THE BASICS

Marlon Mack è stato il fulcro offensivo dell’upset propinato ai Chiefs.

Lo stato di shock, nonostante sia mercoledì, è ancora forte e vivo. I Chiefs hanno perso la prima partita stagionale, non un evento, sono invece le modalità della sconfitta a lasciare ancora quella sensazione di incredulità destinata a rimanere a lungo sulle espressioni di tutti coloro che hanno assistito alle funamboliche esibizioni di Patrick Mahomes e della sua compagnia sotto la speciale direzione del Maestro Andy Reid. Chris Ballard e Frank Reich, rispettivamente general manager e head coach attualmente in carica ad Indianapolis, non solo hanno sconfitto una squadra che ha dimostrato strapotere offensivo da quando Mahomes dirige l’orchestra, ma hanno addirittura scritto delle linee guida particolarmente interessanti per riuscire nel compito apparentemente impossibile di annientare l’attacco stellare per definizione, dimostrando che per battere Kansas City non è strettamente necessario mettere 40 o 50 punti.

I Colts hanno vinto con la formula più classica del football americano, vincendo la lotta in trincea sia in attacco che in difesa, malmenando il fronte opposto attraverso la potenza di una linea offensiva compatta e fisicamente sovrastante, e fornendo a Mahomes una quantità di pressione alla quale non è certo abituato, colpendolo a ripetizione senza permettergli quella tranquillità altrimenti preziosa per attendere la sistematica vittoria nell’uno-contro-uno di un qualsiasi ricevitore della folta batteria. Il piano-partita preparato da Reich dimostra quindi che si può vincere contro una nave da guerra anche con il proprio quarterback fermo ad un 61.1 di rating e lasciato all’asciutto in termini di passaggi da touchdown se il bilanciamento della questione viene dato da un Marlon Mack assolutamente abile nel danzare all’interno della confusione regnante nella tasca per cercare quel varco che i cinque davanti costruiscono con così tanta manovalanza, ma pure che la difesa può giocare una partita dominante anche senza infortunati eccellenti come Darius Leonard, Malik Hooker e Clifton Geathers, tre pilastri determinanti per il funzionamento dei concetti difensivi predicati dal coordinator Matt Eberflus, in ogni caso non pregiudicati dalla presenza di sostituti dimostratisi pienamente all’altezza del compito. Merito anche di una fronte difensivo che ha caldamente sconsigliato le corse lasciando i Chiefs a 2.6 yard  per portata con il conseguente abbandono dello script originario, sancendo che Mahomes può tranquillamente produrre 321 yard se poi il numero che interessa maggiormente è il 13 abbinato allo score.

Stiamo d’altro canto parlando di un’organizzazione che non ha battuto ciglio nell’adattare i propri piani nonostante lo scarso preavviso con cui Andrew Luck ha salutato la compagnia, ragione per la quale un roster attualmente non profondissimo e pieno di acciacchi fisici (Pierre Desir e Kenny Moore non erano al meglio della condizione, ma hanno giocato molto bene) non era affatto una possibile fonte di preoccupazione per uno staff altamente preparato a gestire le emergenze. Reich non è nuovo ad imprese generate da un tipo di mentalità senz’altro derivante dall’esperienza passata a Philadelphia con Doug Perderson, quando la vittoria del Super Bowl è risultata scioccante per tutti eccetto che per gli autori stessi. La direzione intrapresa da questi Colts è quanto mai intrigante, la squadra ha senza dubbio mostrato alcuni punti deboli su cui lavorare ed è di natura completamente differente rispetto a quegli Eagles, tuttavia possedere una cultura di spogliatoio ed una fiducia nelle proprie capacità non condizionata dalle idee provenienti dall’esterno è un fattore che può portare a risultati non prevedibili nemmeno dal più preciso dei bookmaker. E’ presto per sostenere con certezza che Indianapolis possa giungere più in là rispetto al passato, inconfutabile invece risulta essere il fatto che questa squadra avrà un ruolo nella corsa al titolo della Afc, frutto della comprovata capacità dell’organizzazione di non cercare scuse per se stessa nemmeno di fronte all’improvviso ritiro del suo giocatore-franchigia.

Nessuno era mai nemmeno arrivato vicino a risolvere in questo modo il rebus proposto dai Chiefs, facendo dell’affermazione ottenuta dinanzi al caldissimo pubblico dell’Arrowhead Stadium un’impresa eccellente e distintiva di questa nuova era basata ad Indianapolis.

Giù il cappello.

RESILIENT RAIDERS 

Josh Jacobs sta pienamente rispettando le attese.

Dopo un mese abbondante di gioco ci sono oramai pochi dubbi, quella attuale è una versione dei Raiders nettamente riveduta e corretta rispetto a quella a tratti scoraggiante messa in campo da Jon Gruden dodici mesi fa. Oakland possiede margini di miglioramento ed è lontana dalla perfezione richiesta ad una vera contender, tuttavia è una squadra caratterialmente più grintosa, capace di riparare a ferite auto-inflitte dimostrando di saper trovare un modo per vincere in differenti condizioni psicologiche, un tratto somatico che torna sempre molto utile quando si comincia a fare sul serio.

Detentori della seconda posizione della Afc West quando avrebbero dovuto avere almeno i Chargers davanti a sé i Raiders hanno portato a casa una partita difficilissima dinanzi al palcoscenico londinese, dominando una squadra tosta come i Bears per tutto il primo tempo solo per lasciarsi rimontare, fortunatamente senza conseguenze pesanti per il risultato finale. Sono dei predoni di tutt’altra consistenza, poco da dire, la produzione offensiva è più continua che in precedenza e ciò è attestato dalle quasi 54 yard di media fatte registrare nei primi drive di ogni gara con un tempo di possesso superiore ai quattro minuti medi, primo dato di tutta la Nfl. Oakland non ha segnato nel primo drive offensivo posto in atto al Tottenham Stadium ma ha comunque tenuto l’ovale per oltre cinque minuti, e senza l’inutile penalità sanzionata a Richie Incognito – uno dei problemi è proprio quello di diminuire i fazzoletti gialli in situazioni del genere – la serie avrebbe potuto produrre un field goal invece sconsigliato dall’arretramento di terreno.

Il reparto ha comunque segnato poco dopo mettendo assieme dieci giochi per 90 yard complessive, frutto di un mix tra corse e passaggi che sembra stare alla base della rinnovata produttività californiana, nonché di giocate difensive passate dall’intercetto di Chase Daniel con conseguente un accorciamento del campo per fissare il provvisorio 17-0, che hanno limitato i Bears a 43 yard complessive prima del parziale rientro in spogliatoio. Chiaro, restano da aggiustare alcuni aspetti che troveranno opportuna soluzione in allenamento, uno su tutti il pitch che Carr ha spedito verso le mani di Josh Jacobs dopo aver chiamato un audible non compreso dal running back che si è fatto trovare completamente fuori posizione, consentendo a Chicago di segnare solamente due giochi dopo, ed il terzo quarto ha pure proposto un generoso ritorno di Tarik Cohen sfociato nel drive del sorpasso, durato esattamente venticinque secondi, non un bel modo di sprecare quanto di positivo mostrato nei quarti precedenti.

Poi però è necessario dimostrare di poter sopravvivere anche ad un periodo sgraziato, e la difesa ha ripreso a giocare bene proprio in chiusura di gara, quando un fumble di Trevor Davis sulla linea della yarda ha tolto la possibilità di una segnatura quasi sicura. Bravi i Raiders a reagire, forzando un punt ed architettando un drive di ben 97 yard terminato direttamente in enzdone, e bravo Gareon Conley a ricordarsi di essere stato una prima scelta e di essere stato selezionato proprio per confezionare giocate di chiusura partita come l’intercetto decisivo propinato a Daniel, con i Bears pericolosamente posizionati per vincere la contesa. Gruden li ha chiamati peaks and valleys, un’ottima descrizione sintetica di un’esibizione fatta di molti alti e bassi, ma pure di un temperamento che Chuckie sembra finalmente essere riuscito a trasmettere ad una squadra che fino a poco tempo fa pareva essere senza direzione, e che rischiava di implodere dopo le grane generosamente piantate in loco da Antonio Brown.

Un 3-2 in queste seppur aggiustabili condizioni ci sembra proprio un affare colossale.

I SAINTS SONO LA SQUADRA DEL MOMENTO

La difesa dei Saints è tornata a livelli eccellenti.

La scuola di sopravvivenza waiting-for-Drew produce succosi dividendi, ma per come risulti leggibile la faccenda non è solamente tutto riconducibile alla sottrazione/aggiunta che vede protagonisti un quarterback titolare ed uno di riserva. I Saints stanno dimostrando di essere uno squadrone vero, e pure favorito per rifarsi della beffa degli ultimi due anni, con il memorandum delle istantanee della ricezione di Stephon Diggs e la mancata pass interference di Robey-Coleman fissate sul frigorifero con la classica calamita. Vero, è tutto più facile se i numeri di Teddy Bridgewater sono così superlativi da essere comparabili ad una normale giornata amministrativa del titolare attualmente fermo sulla sideline, perché un 131.3 di rating rappresenta il massimo che un attacco possa desiderare in assenza del proprio regista titolare – a maggior ragione se questo possiede un’intesa oramai eterea con il suo head coach – frutto anche delle cinque conclusioni portate a termine dall’acclamato Teddy (la performance degli occupanti del Superdome è risultata essere da pelle d’oca…) superiori alle 20 yard, un ottenimento senza dubbio notevole per un quarterback mai realmente messo alla prova con un playbook così aperto, nemmeno ai tempi di Minneapolis.

Vero anche che poi ci sono le altre fasi del gioco, e New Orleans è risultata dominante sotto tutti i punti di vista, proprio come accade alle squadre poi destinate a fare tanta strada nei playoff. La difesa si è espressa ancora una volta in maniera superlativa, a partire da una linea offensiva che ha ridicolizzato la trincea dei Buccaneers soffocando Jameis Winston sotto quintali di pressione, forzando a lui ed a tutto l’attacco di Tampa delle cifre distanti anni luce da quanto ammassato solo sette giorni prima contro i Rams. Il quarterback dei Bucs ha difatti messo piede nel quarto periodo senza nemmeno aver raggiunto le 100 yard a causa di una pass rush fatale che ha forzato un fumble, atterrato in sei circostanze il regista colpendolo a ripetizione, e le situazioni in cui la decisione è stata affrettata o forzata sono andate largamente in doppia cifra. Larghi meriti dunque ad una linea debordante di talento e che annovera finalmente otto giocatori tutti in salute, ma se Winston ha vissuto un pomeriggio complesso lo si deve anche alla magistrale marcatura di Marshon Lattimore su Mike Evans, il quale ha visto la prima delle sue ultime 65 apparizioni terminare senza nemmeno l’ombra di una ricezione.

Poi ci sono sempre i soliti noti, la cui presenza non guasta mai. Michael Thomas ha cucinato ai ferri delle secondarie del tutto spaesate ricevendo tutto ciò che c’era da prendere, vale a dire 11 dei 13 ovali a lui destinati, ed Alvin Kamara può incidere anche senza fare ingresso in endzone – fatto salvo per un intercetto causato da un pallone da lui alzato – garantendo una produzione a tutto tondo, una capacità di portarsi dietro gli aspiranti placcatori e di tagliare al momento giusto che evidenzia una rara combinazione tra forza ed istinto, non esattamente male per un ragazzo che ha visto altri 66 colleghi ricevere una telefonata di benvenuto nei giorni del Draft 2017 e che oggi è invece una delle armi di distruzione di massa maggiormente efficaci di una delle migliori rappresentanze Nfl.

E’ una lega pur sempre costruita su un’imprevedibilità pronta a sbucare da dietro l’angolo per mettere paura a chiunque, ma questa edizione dei Saints sta dimostrando con i fatti di non essere dipendente dal suo futuro Hall Of Famer e di poter presentare un roster ad alto tasso di talento, completo nei ruoli fondamentali. Senza altri infortuni gravi di mezzo attendiamoci una squadra competitiva, che sa vincere in più modi dominando l’uno o l’altro lato del campo, quando non addirittura entrambi. 3-0 di parziale contro Seattle, Dallas, e dei Buccaneers provenienti dai 55 punti registrati a Los Angeles non era un’impresa di certo preventivabile, ragione per la quale nulla vieta di decretare i Saints quale squadra attualmente da battere nel complesso quadro della Nfc.

REDSKINS, L’EPITOME DI UN DISASTRO ANNUNCIATO

Jay Gruden chiude la sua carriera a Washington con un inizio di campionato disastroso.

Il titolo del paragrafo non vuol essere difensiva nei confronti di Jay Gruden, il quale non ha comunque dato l’impressione di poter agire con efficacia nelle vesti di head coach nei cinque anni e mezzo di esperienza a Washington, ma vuol rappresentare un pensiero più a larga scala, che va dritto in cima all’organizzazione pellerossa. Il vero problema dei Redskins è Dan Snyder, lo sosteniamo oramai senza speranze per l’ennesima volta con il morale sotto i tacchi (ci scuserete, ma tifare per questa squadra è un dolore rettale non indifferente, il sottoscritto ne sa più di qualcosa…) ed è ormai comprovato dal successo di molte alte franchigie il fatto che tutto quanto di positivo accada a livello Nfl parte dall’alto, e dalla capacità del proprietario di non mettere il becco nelle faccende riguardanti il roster. Si chiama potere di delega, e per Snyder è un concetto del tutto sconosciuto.

Gruden ha le sue colpe, le ottantacinque partite allenate hanno portato ad un record complessivo di 35-49-1 con una sola partecipazione ai playoff, coincisa con una sconfitta contro i Packers assai facile da ricordare proprio per l’unicità dell’evento nel suo genere. L’era di Jay parla di un attacco mai sviluppatosi secondo le intenzioni, non si è difatti mai visto nulla di particolarmente vicino rispetto a quanto promesso o che ricordasse l’anno di grazia 2013, quando il medesimo fu offensive coordinator di una Cincinnati tutto sommato produttiva al contrario del biennio precedente, e non ha mai assunto un coordinatore difensivo in grado di incidere sulla crescita di un reparto assai lontano dall’essere dominante. Voci insistenti sostengono che non sia mai stato un sergente di ferro nel pretendere il massimo dai suoi giocatori, anche fuori dal campo.

Ma non è Gruden ad aver ammazzato le ambizioni capitoline in ogni disgraziato anno della ownership di Snyder, che ha vissuto gli anni d’oro della franchigia da facoltoso tifoso esterno ed ha realizzato il sogno della sua vita acquistando la squadra dagli eredi di Jack Kent Cooke. La caduta verticale della reputazione di un pezzo di storia della Nfl passa difatti da peccaminosa struttura organizzativa e spreco delle risorse, un capitolo più volte scritto e riscritto all’interno dello stesso libro marcito senza che nessuno tragga mai le opportune conclusioni. L’unica persona vicina ad assemblare un roster di talento era stato Scot McCloughan, liquidato assai poco cerimoniosamente si dice per i vizi del passato, ma chissà quale contrasto avrà mai avuto luogo con l’esagerato ego del proprietario, che ha sempre preferito agire da burattinaio (Vinnie Cerrato e Bruce Allen ne sono chiari esempi) invece che trovare dentro sé l’umiltà di assegnare determinati compiti a persone più competenti di lui in materia di salary cap e giudizio del talento da estrarre dal college e da firmare in free agency.

La storia è infinita, lo stadio è sempre riempito dai tifosi avversari ed il senso di disorientamento è più concreto che mai. Purtroppo comanda chi ha i soldi in mano, e Snyder non ha capito che il denaro è solo una parte delle risorse che servono a rendere grande una franchigia. Non sono che trascorse cinque settimane dall’inizio del campionato e già tutti e tre i quarterback di casa hanno messo piede in campo. Case Keenum è un giocatore di valore nel contesto opportuno e lo ha già dimostrato in passato, ma probabilmente l’aria del District Of Columbia deve fare parecchio male a chiunque vi si avventuri. Dwayne Haskins non è pronto, come attestato dalla tragicomica prova contro i Giants. Colt McCoy beh, è Colt McCoy, e con il dovuto rispetto non stiamo parlando di un giocatore che possa ritenersi starter in questa lega. La difesa non riesce a fermare nessuno. Punto a capo. Di nuovo.

La stagione dei pellerossa è già finita, dando luogo ad una ancor più precoce frustrazione derivante da una fan base che sta cercando in tutti i modi di non mollare, impresa divenuta oramai impossibile. Non sono i Browns di Hue Jackson, ma almeno Jimmy Haslam una lezione o due le ha imparate. Il licenziamento di Gruden, ironia della sorte, è seguito alla larga sconfitta contro i Patriots, la miglior rappresentazione terrena di come va condotta una squadra professionistica di football americano. A Washington i sogni di gloria non vanno i frantumi, oramai non ci si pensa nemmeno più. E’ un vicolo cieco, a senso unico, nel le stagioni con vittorie in doppia cifra sono un ricordo sempre più distante. A meno di clamorosi ravvedimenti del responsabile, sarà così ancora per lunghi anni.

Peace.

GAME REWIND: Rams @ Seahawks

Scontro fondamentale per i destini della Nfc West, la partita è certamente candidata ad essere ricordata come il Thursday Night più avvincente di questa stagione. Russell Wilson prosegue la sua inarrestabile marcia infilando un rating quasi perfetto di 151.8 proseguendo la sua assenza di intercetti nel presente campionato, da gustare il touchdown per Lockett, con l’ovale posizionato in maniera perfetta in una copertura serrata ai limiti della endzone, una meta da autentici visionari del gioco. Lotta molto divertente nella sempre piacevole atmosfera del CenturyLink Field, grazie ad un secondo tempo ricco di cambi nella conduzione del punteggio ed i Rams che riescono a riaprire una contesa apparentemente già chiusa grazie anche a qualche chiamata sospetta di Pete Carroll, fino all’epilogo finale dettato dall’esito del field goal di Greg Zeurlein.

STAT LINE OF THE WEEK: 19 carries, 107 yds, 5.6 yds/carry, 4 TD

Nel Wisconsin hanno dimostrato di aver ben compreso parte delle lezioni delle prime settimane di gioco, quando si chiedeva a gran voce di utilizzare più spesso le qualità di Aaron Jones, che oltre a quanto sopra esposto ha pure collezionato sette ricezioni per 75 yard. Una prestazione totale in una partita delicatissima, fuori casa, nel sempre ostile stadio con il mega-schermo, contro una delle squadre più in forma di tutto il torneo. Giusto per non dimenticare che un attacco è sempre grande quando c’è Rodgers a dirigere, ma che la bi-dimensionalità offensiva non va mai lasciata da parte perché aumenta esponenzialmente le probabilità di vittoria contro quelle forti per davvero, tutto quello che serve a Green Bay per cancellare un campionato scorso da dimenticare.

ONE LINERS OF THE WEEK:

  • Il passaggio da touchdown lanciato da Mahomes a Byron Pringle è l’ennesimo capolavoro di contorsionismo operato dal quarterback dei Chiefs in condizioni contrarie al bilanciamento fisico.
  • Seattle è 4-1 e Russell Wilson è alla miglior partenza stagionale di sempre, ma certe chiamate offensive nei momenti decisivi della partita (a.k.a. il pericolosissimo pitch verso Lockett con mezza difesa addosso) vanno accuratamente evitate.
  • Christian McCaffrey è l’attuale candidato principale al premio di Mvp stagionale, nessuno è più determinante di lui per sorreggere le sorti dei Panthers.
  • Questa settimana è toccato ai bad Titans entrare in campo, probabilmente la settimana prossima ne metteranno a referto una trentina.
  • I tagli di Philip Lindsay e la fisicità con cui corre sono uno spettacolo per chi ama i dettagli del gioco.
  • Adam Thielen deve lamentarsi più spesso di Kirk Cousins se poi fioccano i passaggi da touchdown.
  • Se cercate un motivo per il quale i Niners hanno investito una scelta così alta su Nick Bosa, rivedere la partita contro i Browns potrà fornirne più d’uno.
  • La scelta cromatica delle uniformi di Eagles e Jets era da mal di testa, specialmente se anche il campo di gioco è verde.

A LOOK AHEAD:

  • Miami vs Washington, ere geologiche fa questo è stato anche un Super Bowl, oggi vale solo la prima scelta assoluta.
  • Kansas City vs Houston, Mahomes contro Deshaun Watson, due attacchi che possono provocare scintille, ottimo piatto per cominciare la giornata di football nella prima serata italiana.
  • Minnesota vs Philadelphia, scontro-chiave per la Nfc con due squadre di identico bilancio, entrambe con molto da dimostrare.
  • Rams vs Niners: chi avrebbe mai detto che sarebbero stati i ragazzi di McVay a dover dimostrare qualcosa?
  • Green Bay contro Detroit nella nottata di lunedì, con i Lions freschi dal turno di riposo ed una rinnovata efficienza difensiva, un raro Monday Night di interesse con relative conseguenze per una division assai incerta.

See ya!

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