Sto consapevolmente violando i miei unici due “principi giornalistici”, ovvero mai scrivere la domenica mattina e, soprattutto, mai scrivere in uno stato mentale poco lucido: negli anni ho espresso a più riprese il mio amore, stima ed ammirazione per Andrew Luck, quarterback eccezionale ma mai definibile come semplice giocatore di football americano.
Andrew Luck è un essere umano incredibilmente intelligente, profondo e contemplativo, e semplicemente pensando a ciò intendere i motivi dietro la sua clamorosa decisione diventa meno difficile: noi esseri umani necessitiamo disperatamente di certezze nel nostro cammino, e purtroppo negli ultimi anni della vita, e carriera, di Andrew Luck le certezze sono spesso venute a mancare, ma andiamo con ordine.

Tutto iniziò con l’infortunio dell’indiscusso volto di Indianapolis, anzi, dello sceriffo di Indianapolis, Peyton Manning: il nome di Andrew Luck è divenuto più o meno involontariamente parte di un grido di battaglia entrato immediatamente nell’immaginario collettivo di ogni fan NFL, ovvero Suck for Luck. Assicurarsi quel giovanotto da Stanford sacrificando una stagione è stato visto da chiunque come la mossa migliore, l’unica vera opzione disponibile per una franchigia pronta a salutare il proprio eroe, il proprio condottiero che già da allora era spessissimo associato alla sigla GOAT nonostante un “solo” Lombardi in bacheca: potete facilmente immaginare la magnitudine delle aspettative riposte in quel barbuto – ai tempi forse ancora poco – giovanotto, consapevole che un’organizzazione reduce da anni di successi e stabilità è stata disposta a schierare under center individui come Orlovski e Painter per vincere il meno possibile ed assicurarsi quello che agli occhi di tutti era un talento generazionale in grado di riscrivere la storia di suddetta franchigia e, perché no, della lega.

Andrew… perché?

Convivere con tali aspettative e non deluderle sarebbe in grado di schiacciare chiunque, figuriamoci un ventitreenne: pronti-via e subito 11-5 con annesso ingresso ai playoff. Certo, i 18 intercetti lanciati a fronte di 23 touchdown ci raccontavano di un quarterback incline all’errore, ma non devo sicuramente spiegarvelo io che per un rookie gettato immediatamente nella mischia sopravvivere alle difese NFL è già di per sé un enorme successo, figuriamoci condurre una squadra reduce da un 2-14 alla postseason.

La vera conseguenza di quella stagione? Ulteriori, ovvie, aspettative: come avrete modo di vedere, “aspettative” sarà una parola nella quale vi imbatterete almeno un’altra dozzina di volte prima che riesca a mettere il punto finale e pubblicare queste convulse righe.
Passa la seconda stagione e dopo altre undici vittorie, dopo altri 23 touchdown lanciati, dopo aver dimezzato gli intercetti arriva pure la prima vittoria ai playoff, e che vittoria: in una delle rimonte più epiche nella storia di uno sport che straborda di epica, Luck è riuscito a condurre i suoi Colts ad un folle 45 a 44 contro gli eterni incompiuti Chiefs, riuscendo a rimontare 28 punti in quella che per forza di cose fu la partita più esaltante alla quale avessi assistito in vita. Fa lo stesso se la settimana seguente i cattivoni per antonomasia di New England li abbiano ridimensionati con un sonoro 43 a 22, Luck è stato in grado di compiere il salto di qualità, è riuscito a non “deludere le aspettative”: migliorare ulteriormente non era facile, anzi, a mio avviso ai tempi era impossibile, perché parliamoci chiaro, cosa puoi pretendere di più da un quarterback al secondo anno?
Evidentemente tutto, poiché nel 2014, con altre undici vittorie in cascina e quaranta touchdown tondi tondi lanciati, Luck è riuscito a raddoppiare il successo riscosso a gennaio lo scorso anno portandosi a casa non una, ma due vittorie ai playoff: pure in questo caso, però, a sotterrare i loro sogni di gloria ci hanno pensato i New England Patriots che, guidati da un running game fenomenale, li seppellirono 45 a 7.

Poco male, il percorso oramai pareva ben definito e teoricamente il successivo, immancabile “miglioramento” coinvolgeva la parola “Lombardi”: da qui, purtroppo, tutto iniziò a crollare, in quanto nello sciagurato 2015 riuscì a giocare solamente sette partite a causa di ripetuti infortuni, fra cui una lacerazione ai reni che lo ha costretto a bordocampo per tutta la parte finale della stagione.
Per la prima volta in carriera, Andrew Luck non è stato in grado di rispettare le maledette aspettative riposte in lui, spingendo il tifoso medio a non dare il giusto peso all’incompetenza dell’allora GM Grigson, fenomeno da baraccone mai in grado di proteggere il proprio tesoro costruendoci attorno una linea d’attacco capace di salvaguardare la salute del loro presente e futuro: anche nella “disgrazia” comportata dall’essere continuamente atterrato da energumeni di centoventi-centotrenta chilogrammi, Luck ci ha dato ulteriori motivi per amarlo diventando il quarterback che si complimentava con gli appena menzionati energumeni dopo essere stato violentemente gettato al suolo come farebbe un macellaio con un oramai disumano pezzo di carne sul tagliere. Avete mai visto qualcosa del genere? Nella mia ancora breve vita, no.
Dove eravamo rimasti?
Al maledetto 2016: poche vittorie, solo otto, ancora una volta tanti infortuni e, nonostante la mancata qualificazione ai playoff, nei primi stadi dell’offseason succede qualcosa, un qualcosa che cambierà per sempre la storia sua, dei Colts e della trama di questo articolo.

Luck decide di sottoporsi ad un intervento alla spalla destra, spalla che lo ha tormentato per tutta la stagione portandolo addirittura a variare la meccanica della propria tecnica di lancio: come spesso durante i tempi di Grigson, manca chiarezza, e quello che avrebbe dovuto essere un intervento di “routine”, si trasforma in una serie di interminabili “si vedrà” e semplici “boh”.
Quando torna Luck?
Come sta Luck?
Sarà disponibile per il training camp?
Gioca week one, vero?
Scenderà mai in campo nel 2017?
Boh, boh, no, no ed ancora una volta no.
Immaginatevi l’agonia di un tifoso, costretto inerme ad assistere a tutto ciò senza mai aver neanche lontanamente presente quanto stesse accadendo: provate per un secondo ad immedesimarvi in questo ancor giovane quarterback, vero e proprio MVP material, mai forse pienamente cosciente di quanto stesse accadendo al suo corpo, e soprattutto dentro quella franchigia che da anni gli appartiene.
Silenzi interminabili, viaggi della speranza in Europa e tanti “si vedrà”, ma di parole uscite dalla bocca di Luck, come sempre in questa storia, pochissime: a parlare – troppo – ci pensava il front office, totalmente incapace di decifrare quanto stesse accadendo davanti ai propri occhi.
Una situazione del genere logorerebbe chiunque, getterebbe anche la mente più forte in uno stato di caos dal quale uscire è forse impossibile: chi sono? Da dove vengo? Quando tornerò in campo? Una volta in campo, come sarò?
Magnifico, come sempre, caro Andrew.

Passato momentaneamente il caos, Luck è tornato in campo ed ha firmato, a mio avviso, la propria opus magna: dopo essere stato costretto a non lanciare l’ovale per circa un anno e mezzo, Luck non solo è tornato a calcare il grid iron, ma ha pure firmato 39 touchdown e condotto ancora una volta i suoi Colts ai playoff.

Soprattutto, dato chiave, Luck ha subito solamente 18 sacks, ovviamente il minimo in carriera: cacciato Grigson, il futuro sembrava nuovamente roseo, anche perché l’intelligente Ballard ha immediatamente compreso l’importanza della salute del proprio fenomeno, differenza vivente fra un 4-12 ed una qualificazione ai playoff.
Protetto da quella che potrebbe già essere considerata la miglior linea d’attacco della lega, Luck non solo ha dimostrato di essere “quello di una volta”, ma per l’ennesima volta ha dato motivo a chiunque di rinnovare le aspettative: con una linea del genere ed una difesa in costante miglioramento, vuoi vedere che associare i Colts al Super Bowl ha nuovamente senso?
Ha decisamente senso, anche perché gli ultimi fortunati draft e la rinascita di un Luck non in scadenza contrattuale avevano dato ad Indy una flessibilità ed uno spazio salariale che ha portato moltissimi – me compreso – a vederli come squadra-del-futuro-barra-presente in grado di mandare in pensione Brady e la dinastia Patriots.

Tutto ciò, ovviamente, prima dell’ultimo clamoroso colpo di scena: Luck patisce un infortunio al polpaccio. Anzi, alla caviglia. O al polpaccio? Kevin Durant, mi leggi?
Pure qua, la chiarezza dov’è?
Fuori tutta la preseason. Forse. Anzi no, sicuramente.
Tornerà per week one? Certo. No beh, forse no. Anzi, non credo proprio.
Cos’ha? È grave come dicono? È per precauzione?
Tutto ciò in loop per le ultime settimane: ad un certo punto qualcosa nella mente della sfortunata vittima si rompe, ad un certo punto le domande senza risposta diventano troppe, si accumulano e, come mattoni in un muro uno sopra l’altro, crescono fino ad arrivare a coprire la vista, rendendo impossibile osservare l’orizzonte e fare mente locale.
Luck, povera anima, doveva essere arrivato ad un punto in cui ogni cosa relativa anche solo alla settimana successiva si trasformava in un gigantesco punto di domanda e per quanto sia affranto dalla sua decisione, vivere così non è possibile.
Stiamo parlando di un padre di famiglia, pieno di interessi, passioni e progetti: si dice voglia viaggiare, voglia far scoprire il mondo ai figli, voglia essere presente nella loro vita, voglia essere per loro quella certezza che lo ha eluso per gli ultimi anni.
Sono arrabbiato, perché spesso l’evolversi delle dinamiche in cui era coinvolto mi ha portato a chiedermi cosa ne sarebbe stato di lui, ed ora purtroppo abbiamo la risposta; devo puntare il dito contro qualcuno? Non credo abbia senso, ma se devo proprio addossare la colpa a qualcuno scelgo l’incompetente Grigson, ma ciò non servirà a restituirci Luck e la sua barba.

Tornerà? Magari, in un futuro non troppo lontano, sì: lo abbiamo già visto migliaia di volte nello sport, e stiamo comunque parlando di un ragazzo che deve ancora spegnere le trenta candeline, ma al momento non riesco ad essere ottimista, in quanto stiamo assistendo impotenti ad una vera e propria tragedia sportiva, stiamo assistendo a qualcosa di simile a Notre Dame che va a fuoco, un patrimonio per l’umanità che davanti ai nostri occhi sta svanendo nell’aria senza neanche averci dato l’opportunità di mettere insieme qualche memoria ed accettare il tutto.
Prevedevo una stagione da MVP, prevedevo dei Colts da Championship Game, prevedevo un Lombardi, prevedevo una giacca d’oro: nulla di tutto ciò, ora devo solamente accettare il fatto che durante gli ultimi snap della sua carriera – contro Kansas City al Divisional Round – stessi dormendo in quanto la partita era già decisa ed io parecchio stanco e edulcorato.

Andrew, dal profondo del cuore, grazie di tutto e scusaci: siamo anche noi responsabili del tuo assassinio, ma devi capire che le aspettative che ti hanno portato a dire basta ce le hai sempre giustificate essendo un giocatore ed uomo straordinario.
Mi/ci mancherai.

[Anche se so che prima o poi tornerai.]

4 thoughts on “Andrew, perché?

  1. All’epoca non mi capacitai della scelta dei Colts di preferire Luck a Manning.

    Adesso non voglio fare il sapientone, anzi: sono uno a cui piace il football, ma che di football ci capisce poco. Però stavolta ci avevo visto giusto! Manning, che qualcuno riteneva finito, a Denver è tornato più forte di prima e ha battuto tutti i primati possibili e immaginabili, mentre Luck (per cui provo comunque molta simpatia, anche umana) non ha combinato poi molto.

    • Nick, non ci conosciamo e pertanto ti chiedo scusa in anticipo se ritengo di contestare il tuo commento.
      Manning, di cui ero grande tifoso, ha giocato a Denver in un modo orrendo … il SB vinto dai Broncos è stata la più brutta partita che io gli abbia mai visto giocare … e ne ho viste tante … il fatto che abbia vinto è solo merito della difesa messa in campo dai suddetti Broncos …. era finito ed infatti dopo quel SB, giocato un anno dopo essere andato via da Indy si è – giustamente – ritirato.

      • Un tweet di Richard Sherman : “Questo è uno sport duro. Chi non ha mai giocato a questo livello non può rendersi conto di cosa passa il nostro corpo stagione dopo stagione. Non cerchiamo comprensione perché è una nostra scelta…
        In bocca al lupo andrew

  2. Ciao, Marco.

    Be’, Manning a Denver ha giocato quattro anni e fatto qualcosa di straordinario, specie nella seconda stagione in cui ha registrato numeri irreali (55 td pass), anche se poi non ha vinto il super bowl.

    Curioso che lo abbia poi vinto nella sua stagione peggiore, in cui, come hai detto tu, ha giocato un super bowl orrendo. Però io vorrei sempre ricordare i due turni di playoff precedenti, con Pittsburgh e New England, dove non avrà registrato numeri eclatanti ma ha giocato due partite solidissime, senza sbavature: io sono convinto che se Denver avesse giocato quelle due partite con Osweiler al posto di Manning, al super bowl non ci sarebbe mai arrivata, nonostante la super difesa :).

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