Well, I won’t back down. No, I won’t back down. You can stand me up at the gates of hell, but I won’t back down“, era il 1989, era Tom Petty e l’album era il famosissimo Full Moon Fever.

Catastrofismo ed euforia, demonizzazione e beatificazione soprattutto nello sport camminano mano nella mano, girando di bocca in bocca, uscendo di penna in penna di un qualsivoglia cronista. I confini sono sempre più labili, liquidi, mai definiti: mettere in discussione tutto, sempre, con un grado di velocità di gran lunga superiore alla normalità della pazienza.

Il tempo dell’attesa, l’hype, le previsioni, il kick off, lo sgretolamento delle premesse, la resurrezione. Sostanzialmente si canonizza così l’operato dei media sportivi.

La NFL non si sottrae a tutto ciò, anzi, sulle proprie storie ricama, crea il proprio successo fondando le basi di marketing e vendita del prodotto.

Nemmeno mettendo assieme 2000 produttori di Hollywood potresti creare un copione avvincente come gli intrecci emotivi da soap opera che ti dà la NFL” scolpita nella pietra questa frase di Dan Burke, già presidente del network ABC, sintetizza il tutto.

Prendete tutto ciò e trasferitelo in Texas, in quello spazio geografico di oltre 690.000 chilometri quadrati che sono più del doppio della nostra Italia, dove la popolazione è la metà di quella presente sul nostro suolo.

Prendete tutto e traslatelo in quella terra che il mondo televisivo ha fortemente e volutamente – tra mandrie al pascolo, cowboys, petrolieri e JRs qualunque – stereotipato e addensato di luoghi comuni un pò per ignoranza ma molto più plausibilmente per spirito di sintesi.

In Texas il football è fondamentale e il riferimento alla NFL è quasi superficiale, c’è molto di più. Ci sono le high school del venerdì sera, il semi-professionismo del college, l’idolatria di giovani studenti che magari non ce la faranno mai ma, quanto meno, ci avranno provato e, per pochi anni, godranno di quella fama che la vita non riserverà loro mai più.

Nessuno guarda l’anello al dito del cassiere o del macellaio, ma tanti – specialmente in Texas- farebbero di tutto perché lo possa portare.

Football e Texas, Texas e Football un intreccio vitale, quasi endemico, economico, legato a doppio nodo al boom petrolifero nonché a situazioni storiche forse irripetibili. Il Dust Bowl – fenomeno geologico-metereologico che aveva trasformato una buona parte del continente americano in una scodella di sabbia trasportata dal vento – si inseriva nel contesto della Grande Depressione del ’29 andando a plasmare generazioni e generazioni di uomini, ragazzi e bambini che crebbero fortificati e bramanti di trasportare sul campo l’esperienza vissuta, la volontà di rivalsa e la spinta a creare qualcosa di importante.

Jerry Jones, il rivoluzionario boss dei Dallas Cowboys, è di quella generazione lì.

Bob McNair, proprietario degli Houston Texans, è di quella generazione lì.

Background diversi, campi di business non perfettamente sovrapponibili, ma spiriti – indomiti- similari.

Houston, città cosmopolita, la quarta d’America in termini di popolazione, moderna e all’avanguardia sede di numerose università, importanti industrie energetiche – leggi petrolifere- e aerospaziali, casa della NASA.

Terra di contraddizioni, scelta come città simbolo dell’obesità. Fate un pò voi.

Sarebbe troppo facile e scontato riprendere il celeberrimo Houston, abbiamo un problema introducendo una fresca analisi alla stagione dei Texani prossima al giro di boa.

Molto più suggestivo e originale è scegliere lo spazio per citare l’Astrodome il primo stadio coperto del mondo. Esplosivo il suo impatto nell’immaginario comune, popolare, che spinse gli allora Colts 45s – la squadra MLB di Houston- a cambiare il nome in Astros. Astrodome, case degli Oilers e dell’AstroTurf il manto sintetico che per anni ha spopolato in NFL.

Ma non siamo chiamati a parlare di architettura quanto di football, giocato o no, comunque leggendario come l’epopea dei già citati Oilers di Bum Philips e Earl Campbell che alla fine degli anni Settanta parevano destinati a dominare il mondo, arrivando invece solo a sfiorare la gloria.

Gloria riservata ai tifosi, che per due stagioni consecutive celebrarono la sconfitta – si, inimmaginabile per la nostra cultura sportiva- riempiendo in ogni ordine di posto lo scintillante stadio.

La storia insegna e, come un Pollicino qualunque, lascia le briciole al suo passaggio così che il futuro non si perda. Possa tornare a casa.

I tempi sono cambiati, quarant’anni almeno, i giorni nostri ci spingono alle porte del maestoso NRG Stadium di Reliant Park. Gli Oilers restano sulle magliette vintage, in campo ci vanno i Texans, franchigia relativamente giovane, casa di talenti inespressi e promesse non mantenute.

Domenica con la vittoria sui Jacksonville Jaguars, diretti concorrenti nella AFC South, per la squadra di Houston è iniziata la terza parte di questa stagione 2018 che ha visto il suo avvio nel 2017, precisamente nel novembre scorso, nel momento in cui il talento – o meglio il ginocchio- di Deshaun Watson, giovane quarterback dodicesima scelta assoluta al draft, ha fatto crack.

Più dei risultati, poterono l’hype e la montatura giornalistica: Watson lasciò la squadra con un record negativo, 3-4, illusa dalle sue prestazioni fiabesche. Con il senno di poi, senza remore, sentenzio: quei Texans non avrebbero  fatto la postseason in qualsiasi caso.

Arrivò la fine della stagione con i vittoriosi Eagles sui Patriots, una storia che poteva abitare solo a Philadelphia – casa di Rocky e degli eterni sognatori nonché dell’amore fraterno – la offseason, il programma riabilitativo condiviso insieme a JJ Watt e Whitney Mercilus, le stories su Instagram, l’entusiasmo dei cronisti di NFL Network, la preseason non troppo partecipata.

Fine della prima parte.

La seconda è l’inizio della Regular Season, parte male, con tre sconfitte, batoste più che altro che disturbano, urtano l’umore della tifoseria. Luv Ya Blue cantavano sul finire degli anni settanta, indomiti anche di fronte alle tragedie sportive già citate, i fans degli Oilers, padri, quasi certamente, di questi supporters costretti ad amare ora un blue che è più profondo cromaticamente parlando ma molto più superficiale emotivamente.

Nell’ordine: Patriots, Titans e Giants. Il cuore è violato, l’amore per la squadra è messo a dura prova benché realisticamente, almeno contro la dinastia di New England, le speranze erano poche. Dolorosi, invece, i fendenti arrivati da Tennessee e New York, squadre in palese difficoltà, capaci di diventare corsare, dominanti contro i poveri Texani.

Tutto il mondo è paese, la piazza reclama la rifondazione, l’abbattimento dell’establishment, la testa dell’Head Coach Bill O’Brien. Gli si imputa tutto, blogger e testate giornalistiche autorevoli – ESPN Houston su tutti- sferzano furiosamente il discepolo di Bill Belichick: incapacità di gestione del tempo, chiamate troppo prudenti, scarsa protezione del quarterback, linea offensiva inefficace e playbook offensivo inadeguato.

Bill pare spacciato. Ultima chiamata, quindi.

Si lascia l’NRG Stadium volando ad Indianapolis in quel Lucas Oil Stadium che fu terra mitologica per il primo Peyton Manning, con le speranze di rivalsa ridotte al lumicino: Andrew Luck, signal caller di Indy, è tornato ad essere efficace dopo un lungo stop.

Kick off, sulle tribune giornalisti in atteggiamenti cagneschi con tanto di bava alla bocca, pronti a sbranare il povero Bill. La partita prende una piega inaspettata, i Texans pur inefficaci in endzone prendono il largo fino al terzo quarto. Black out improvviso, i Colts tornano sotto, acciuffano il pareggio a 45 secondi dalla fine, overtime. Cuore batticuore, la fortuna aiuta gli audaci, arriva la vittoria numero uno grazie ad un calcio del kicker hawaiano Ka’imi Fairbairn.

Non si respira entusiasmo, al massimo liberazione. Via veloci si arriva alla battaglia del Texas contro i cugini dell’America’s Team, quei Cowboys che non godono di chissà quale fortuna ma che, comunque, sono da temere. Le tribune del nido di casa sono piene, la difesa di Romeo Crennel comincia ad ingranare, Watson è più confident e JJ Watt sembra tornato a quella forma da Difensive Player Of The Year che gli appartiene. Il gioco è concreto, in controllo ma si arriva comunque all’overtime: back to back, si dice. Altra scelta errata del coach avversario, Jason Garrett, la fortuna in soccorso, field goal perfetto, vittoria.

Timidi sorrisi, il record è ancora negativo ma le avversarie per la vetta dell’AFC South non stanno facendo bene: tutto è possibile.

Arrivano i Bills di Buffalo – di quella città in cui si celebra ancora la messa cattolica in italiano- squadra materasso con continui problemi in tutti i reparti: il risultato pare scontato.

No, invece no, fino a pochi istanti dalla fine: questa volta è l’intercetto di Jonathan Joseph, cornerback d’esperienza ed allenatore in campo, che viene ritornato in meta. Pick Six. Vittoria 20-13.

Sudata.

Fine della seconda parte.

La terza è iniziata domenica scorsa, ha un sapore dolce ma non convincente, accattivante ma non seducente. Tante volte più che la paura stessa è il suo coraggio a intimorire i tifosi.

Volo verso Jacksonville, tutti o quasi in aria. Qualcuno sceglie la gomma, bus speciale per Deshaun Watson che ha qualche problemino alla parte superiore e la compressione del volo potrebbe far peggiorare.

I Jaguars spaventano, il ricordo della difesa dominante dello scorso anno mette i brividi. In Week 2 hanno battuto i Patriots ma quest’anno niente è scontato: i gladiatori della Florida paiono rotti emotivamente, incapaci di reagire a minime difficoltà.

Houston dopo due vittorie all’overtime e una fortemente sudata arriva con il morale alto: ha bisogno della partita perfetta o comunque smooth, liscia e accomodante.

La difesa domina, l’attacco aereo stenta ma in terra torna a dominare un certo Lamar Miller che dopo due anni si concede una prestazione da oltre 100 yards e un touchdown. Watson, confidente nella tasca, preciso nei lanci brevi con un tasso di completi superiore di tre punti a quello dello scorso anno, sembra incerto sulle giocate spettacolari. Ma tant’è, arriva la vittoria, 20-7.

Smooth, appunto.

Settimana corta, giovedì arrivano i Dolphins in record positivo guidati da una vecchia conoscenza. Quel Brock Osweiler che illuse, disilluse, si fece amare e odiare dai tifosi di Houston.

Arrivano i Fins con uno dei peggiori attacchi della lega ed una linea difensiva che sulle corse fa acqua da tutte le parti.

La vittoria pare essere necessaria – sebbene si stia parlando di AFC South dove una wild card la guadagni anche con un 9-7 – anche e soprattutto per affrontare al meglio i match successivi entrambe on the road contro Broncos e Redskins.

C’è la volontà di scrivere una quarta parta che potrebbe essere dolce, almeno quanto la scena finale di questo primo episodio della terza, almeno come il ritorno di Andre Hal, cornerback, che dopo la diagnosi primaverile del linfoma di Hodgkin, domenica è tornato a calcare il prato, mettendo a segno un tackle, ringraziando Dio e il papà scomparso qualche giorno prima.

E’ proprio vero, il Texas è eccessivo in tutto. Ma dopo tutto, non lo è anche la vita?

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.