Gli Eagles sono sempre rimasti là fuori, pazienti, ad attendere di veder passare il cadavere del loro nemico nel fiume che osservavano seduti su quella sponda, un pò arrabbiati per le numerose dicerie, ma anche silenziosamente consci dei propri mezzi. Hanno preso la loro motivazione convogliandola a proprio favore dopo essersi sentiti clamorosamente mancare di rispetto da chiunque li abbia criticati pensando che la loro sorte dipendesse da un solo uomo, da un solo destino, dimenticandosi in maniera del tutto gratuita di mettere in conto il resto di ciò che questa squadra ha offerto tutto l’anno. Non esattamente poco.

Certo, per passare il notevole ostacolo Vikings serviva di certo un Nick Foles in palla, ma non solo. Philadelphia non vedeva l’ora di dimostrare, per l’ennesima volta, che la validità di un sistema si testa anche grazie all’intercambiabilità di chi lo gestisce e che il valore di una squadra non è costituito dalla sommatoria del talento dei suoi elementi, ma dalla funzionalità delle caratteristiche degli stessi nei confronti della filosofia praticata da un determinato coaching staff. Tutti avevano eseguito i propri minuziosi conteggi con il Foles visto nelle cattive esperienze con le uniformi di Chiefs e Rams, ovvero un backup tornato sulla terra dopo una sola stagione nello spazio generato da Chip Kelly, oppure ancora con il giocatore costretto dalle circostanze a tornare d’attualità in tutta fretta, che nelle tre gare e mezzo disputate al posto del suo titolare non aveva affatto convinto.

Che gli Eagles potessero essere da Super Bowl con Carson Wentz a dirigere la sezione offensiva era opinione più che diffusa e certamente corretta. Che non potessero più esserlo d’improvviso, mortificando il valore degli altri ventuno impiegati in pianta più o meno stabile tra attacco e difesa, doveva comunque essere provato sul campo e non risultare da una sentenza già emanata considerando criteri non conclusivi, un qualcosa che gli Eagles stessi si sono divertiti molto a trasformare in un qualcosa di molto lontano dal vero.

La risposta di Philadelphia è stata forte, emblematica. I Vikings si sono visti ridurre in polvere i loro sogni di Super Bowl casalingo non riuscendo mai ad entrare in gara, probabilmente già esauriti a livello emozionale dopo l’autentico miracolo confezionato non più di una settimana fa, vedendosi crollare addosso tutte le certezze costruite in sedici consistenti partite di stagione regolare, dove avevano dimostrato di poter dominare anche senza Sam Bradford e Dalvin Cook, due addendi che nelle intenzioni della scorsa offseason costituivano i tasselli corretti per eseguire il salto di qualità offensivo richiesto ad una franchigia già forte in difesa al fine di puntare davvero in alto.

Il Championship Nfc in versione 2018 può essere così ridotto ad una spiegazione meramente numerica. Una difesa che aveva in precedenza sottomesso chiunque è stata sommersa da 456 yard e 27 primi down, concedendo il 71% di conversioni in fase di terzo down contro il 25% che il reparto aveva fatto registrare durante il normale campionato, oltre all’aver regalato agli Eagles il 100% di realizzazioni in meta all’interno della redzone, quando in precedenza l’impresa era riuscita solo nel 41% delle casistiche, terzo miglior dato della Nfl.

Le cifre vengono altresì in aiuto nello spiegare una gara durata sostanzialmente un quarto di gioco, il primo, l’unico momento in cui Minnesota ha illuminato il tabellone delle segnature a proprio favore prima di sparire completamente dal campo. Troppe, difatti, le coincidenze negative occorse nella stessa serata per poter pensare di rimettere in piedi una partita a senso unico, il cui secondo tempo è più che altro servito per far ulteriormente divertire il pubblico locale e far trascorrere i minuti che separavano le due squadre da un esito già certo: mai, quest’anno, i Vikings avevano concesso 24 punti in un solo tempo, si erano permessi un turnover nelle ultime 20 yard (strip-sack di Derek Barnett sul 14-7 sulla linea delle 16), un touchdown difensivo al passivo (pick-six di Case Keenum), una meta offensiva di tale lunghezza (53 yard, segnatura siglata da Alshon Jeffery), una sommatoria di errori che racconta in maniera ben definita i motivi dell’impensabile 38-7 finale.

Ci mancava solo che Nick Foles tornasse ad essere – perlomeno in questa occasione – il quarterback non fermabile che fu nel 2013, stagione nella quale Chip Kelly aveva illuso tutta Philadelphia facendole credere di aver creato la prima macchina offensiva perfetta della storia del gioco, e le redini venivano tirate esattamente dal buon Nick, che di lì a poco avrebbe invece visto la propria carriera picchiare verso il basso. Il piano offensivo costruito da Pederson e Reich ha visto una consona fetta di read option fornendo piacevoli reminiscenze di quel passato copioso, impostando la fase aerea sul liberarsi del pallone in un nanosecondo annullando l’esplosiva pass rush porpora, con la graziosa aggiunta di quell’elemento che pareva non appartenere a questo arsenale, il lancio esteso in profondità.

La conseguenza è che ora nessuno sa – forse il solo Bill Belichick, perchè ha sempre una marcia in più di tutti – quale razza di bestia sia Philadelphia, e di come vada trattata. Gli Eagles di Foles hanno dimostrato di essere una squadra offensivamente non meno completa rispetto a quella condotta da Wentz, arrivandoci per gradi. Prima togliendo la polvere di dosso ad un backup che non assaporava da tempo il gusto della competizione vera, quindi trovando un sistema di corse efficace per proteggerlo da errori troppo costosi, ed infine aprendo il playbook proprio contro una difesa che per tutto l’anno era risultata imbattibile quasi per chiunque, e che comunque mai aveva fornito segni di cedimento strutturale come quelli visti ieri notte presso il Lincoln Financial FIeld.

Dire che i Vikings non ci hanno capito niente potrebbe non bastare, gli Eagles hanno dimostrato di poter pungere letalmente con opzioni differenti. Quando vogliono correre pesante c’è LeGarrette Blount. Per applicare a dovere i concetti della zone-read offense è sufficiente affidarsi al grazioso regalo fornito dai Dolphins prima della trade deadline, Jay Ajiay. Per la velocità pura e la vittoria matematica nell’uno contro uno c’è Corey Clement. Sommando tocchi e statistiche magari non verranno fuori grosse cifre, ma individuando le resa della singola giocata in rapporto al momento della partita, il peso del risultato cambia drasticamente. Foles ha giocato la partita perfetta, eseguendo schemi ad alta percentuale di realizzazione ed a guadagno limitato ma sistematico, colpendo a morte quando doveva. E nel farlo, ha dimostrato una presenza di spirito ed una concentrazione che pareva essere dote esclusiva di Wentz, sorprendendo con una gestione della tasca impressionante per calma e maturità, ottenendo quelle giocate ad alto voltaggio che parevano essersi irrimediabilmente assentate dal playbook di Frank Reich.

Per questo crediamo che il touchdown della staffa possa essere stato quello del 21-7, verso la fine del primo tempo, un’azione simbolica per come Foles ha mantenuto nervi di ghiaccio mentre i pesanti difensori di linea dei Vikings – peraltro resi inefficaci da una grandissima prestazione della linea offensiva di casa – gli passavano pericolosamente accanto con la possibilità di poter combinare disastri inenarrabili, risalendo la corrente del fiume ed aprendosi nuovi orizzonti trasformatisi nelle sicure mani di Alshon Jeffery, proprio quel ricevitore che qui era arrivato in prova con un contratto annuale e adeguatamente ricompensato una volta capito che Alshon può essere materiale da grande palcoscenico, un fattore che la sua esperienza a Chicago aveva reso dubbio nonostante l’innegabile talento. Questa azione, più d’ogni altra, ha assestato un colpo da cui Minnesota non si sarebbe più ripresa, al di là della possibilità di effettuare consoni aggiustamenti tattici durante l’imminente intervallo.

Le molteplici segnature hanno creato lo scenario ideale per gli Eagles, costringendo gli avversari a snaturarsi cercando di rincorrere vanamente un risultato mettendo tutta la pressione su Case Keenum, autore dell’intercetto che ha spostato l’inerzia a favore di Philadelphia nel primo quarto e costretto a lanciare per un numero eccessivo di tentativi – 48! – per quelle che risultano essere le sue qualità. E poi c’è pur sempre la difesa, quel reparto che in due gare di playoff ha concesso rispettivamente 10 e 7 punti ad Atlanta e Minnesota, togliendo i punti di riferimento essenziali ad entrambe. La settimana scorsa era significato concedere yard in tripla cifra a Julio Jones tenendolo però fuori dall’area di meta, stavolta ha voluto dire togliere completamente di mezzo Adam Thielen e Latavius Murray, due delle armi più rilevanti dei Vikings, scegliendo di concedere a Stefon Diggs le 70 yard più inutili della sua carriera professionistica.

Ora, dopo il dominio, è necessario scendere a patti con la realtà. Gli Eagles sono da Super Bowl, il rematch con i Patriots è realtà, e sono già pronte nuove ed interessanti storie da intrecciare per tessere la nuova possibile trama del futuro. Nick Foles, nei panni di un novello Jeff Hostetler, tenterà nell’impresa che Carson Wentz potrà solo guardare sostenendosi con le stampelle, ma anche quella che sfuggì a Donovan McNabb nel Super Bowl XXXIX, una partita lontana nel tempo di tredici anni, il cui dolore per la sconfitta è però ancora vivo. Doug Pederson tenterà di compiere quel fatidico ultimo passo in grado di regalare il Vince Lombardi Trophy agli Eagles cercando di superare il suo stesso maestro, Andy Reid, affrontando proprio la stessa nemesi di quel 2005, non più giovane come allora, ma – come argenteria dimostra – tutt’oggi letale.

Sarà dunque un Super Bowl dalla potenziale doppia rivalsa, nel quale gli Eagles tenteranno di rifarsi su Brady e Belichick, ma anche di sfatare una volta per tutte il mito secondo il quale non valevano il Grande Ballo, un pensiero che Nick Foles ha per il momento cancellato con un rating di 141.4 punti nella partita più importante della sua carriera.

3 thoughts on “Nick Foles è incontenibile, gli Eagles volano al Super Bowl

  1. Una squadra che ha unA difesa forte e in attacco puo contare su ertz, dopo gronk uno dei migliori tight end in giro, Jeffrey , smith, ajayi blount, lang, lane johnson solo x citarne alcuni può considerarsi underdogs??
    La dimostrazione che nel fball contano gli uomini e nn solo il qb

    • Difatti se Brady non avesse una buona protezione dalla O-Line prenderebbe un sacco di legnate. E invece prende i 22milioni all’anno, sponsor esclusi.

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