Se il football americano vi piace in maniera spropositata ed usate seguirne le vicende anche durante la pausa primaverile/estiva, siete sicuramente a conoscenza del fatto che almeno due o tre volte l’anno si parlava di prendere Jon Gruden e tirarlo fuori a forza dal booth della Espn, stuzzicandolo a sufficienza per fargli tornare la voglia di allenare. Ogni anno gli sono state fatte pervenire decine di proposte professionistiche e collegiali, prontamente rifiutate per evitare di ricadere nel profondo stress che il ruolo di head coach richiede, preferendo continuare ad usufruire di un lavoro che gli ha sempre permesso di seguire, seppure in altri modi, il football americano e lo studio delle sue tendenze e dei suoi protagonisti sul campo.

Jon Gruden ha ceduto al fascino dei Raiders, dei quali ha già vestito i colori in passato, comprensivi di quel semi-cappellino con visiera recante l’effigie del predone, una raffigurazione intimidatoria che ben si sposava con il leggendario grugno dell’allenatore ribattezzato come Chuckie, la bambola assassina con cui condivide una sinistra e divertente somiglianza facciale. Il Silver & Black cucito addosso, un soprannome da film horror, una grande passione per l’heavy metal, un trittico certamente in grado di deliziare la sete di sangue del temuto e famigerato Black Hole, ovvero la pittoresca schiera di tifosi locali. Il cuore di Gruden non ha mai lasciato i Raiders e viceversa, nemmeno dopo la storica trade con cui Al Davis lo spedì a Tampa in cambio di una molteplicità di scelte di primo e secondo giro e qualche milione di dollari, ottenendo in cambio un memorabile effetto-boomerang.

Il biondo allenatore avrebbe incontrato Oakland da nemico, facendo a pezzi i nero-argento nel palcoscenico più grande di tutti grazie all’enorme quantità di talento – soprattutto difensivo – mai assemblata in un unico campo dai Buccaneers, che vinsero uno dei Super Bowl meno equilibrati di tutta la storia seppellendo Rich Gannon e compagni sotto 48 punti. I Raiders, dopo quella partita, sarebbero rimasti assenti dalla postseason per ben quattordici stagioni, interrompendo il loro lungo digiuno solamente l’anno scorso grazie al 12-4 confezionato da Jack Del Rio, proprio l’allenatore che Mark Davis – il figlio di Al – ha deciso di licenziare una volta avuta l’ufficiosa certezza di aver fatto il colpo grosso.

Il cambio al timone arriva non certo senza sensazioni di sorpresa. Rispetto a tanti allenatori che hanno goduto di maggiori opportunità senza un curriculum vincente (pensate al record di Hue Jackson a Cleveland, o alle vicissitudini nei playoff di Marvin Lewis) Jack Del Rio ha pagato un prezzo molto, forse troppo salato per la regressione vista in un anno dove Oakland ha prodotto una scomoda immagine di sé, quella di delusione dell’anno, seppure la mossa possa essere a tutti gli effetti giustificata dal cattivo rendimento difensivo costato il posto a Ken Norton Jr., dall’incredibile involuzione di Derek Carr, dalla sgraziata decisione di licenziare Bill Musgrave al termine della stagione scorsa, privandosi di un offensive coordinator che da Carr aveva tirato fuori il meglio.

Due anni, di cui uno con successi in doppia cifra e la scusante dell’infortunio a Carr, sono insufficienti per stilare un giudizio definitivo sull’operato del precedente head coach, ma DNA non mente, i Davis sono persone da decisioni con il punto esclamativo, ed una volta fatto il filo a Gruden e compreso di aver aperto una breccia nel cuore di un pezzo grosso per Del Rio il destino era sostanzialmente già scritto.

La firma di Gruden, che sarà accompagnata da 100 milioni di dollari di stipendio ed un contratto decennale – cifre e modalità tipiche del modo di operare di famiglia – è un chiaro segnale di entusiasmo ed una prospettiva molto significativa in vista del futuro spostamento della franchigia a Las Vegas nel 2020, e porta con sé positività nella stessa identica misura con cui può generare dubbi, ammesso e non concesso che il futuro è abbastanza difficile da predire e che nessuno – in realtà – può sapere con esattezza quali conseguenze precise saranno portate da questa mossa.

Possiamo solamente ragionare su alcuni punti fissi. Se Gruden è stato così corteggiato dal 2009 ad oggi un motivo c’è sicuramente stato, e gli attestati di stima che il personaggio ha ricevuto negli anni da parte di tutti gli addetti ai lavori non dobbiamo certo sottolinearli noi. E’ un vincente? Per chi scrive sicuramente sì, al di là del Super Bowl conquistato con Tampa e dell’ottima esperienza trascorsa ad Oakland, semplicemente perché dal vincere il buon Jon è sempre stato ossessionato, ed è stato esattamente questo il meccanismo in grado di permettergli di attuare quella violenta psicologia applicata verso i suoi giocatori. Ci piace chiamarla violenta perché il soggetto non ha mezze misure e sulla sideline è costantemente una pentola in ebollizione, non le manda a dire a nessuno (Al Davis, pace all’anima sua, ne saprà sicuramente qualcosa), studia i filmati in maniera ossessiva cercando la minuzia da sfruttare a suo vantaggio e pretende il massimo da ogni singolo elemento del suo roster. Per carità, nulla di differente rispetto a ciò che esigono gli altri allenatori, ma il carisma, se permettete, è un tantino differente. E Gruden, di carisma, ne ha da vendere di più di qualsiasi altro allenatore che abbiamo visto recentemente all’opera, con la sola esclusione di Jim Harbaugh.

Ricercandone le origini, il nome di Gruden si intreccia a quello di leggendari protagonisti del gioco. Il suo primo incarico fu quello di assistente di Mike Holmgren quando questi rivestiva il ruolo di quarterback coach per i 49ers e Joe Montana si preparava a giocare la sua ultima stagione completa da titolare in California, iniziando una scalata che l’avrebbe portato a diventare coach dei ricevitori a Green Bay (sempre sotto le direttive di Holmgren) con la successiva promozione a offensive coordinator dei Philadelphia Eagles di Ray Rhodes – altra conoscenza di Holmgren – ottenendo la top five per yard guadagnate in due stagioni consecutive (1996 e 1997).

Sarebbe approdato ai Raiders l’anno successivo, prendendo una squadra ferma ad un bilancio di 4-12 e producendo quattro campionati consecutivi senza mai scendere il 50% di vittorie, con il massimo traguardo della qualificazione al Championship della Afc nella prima stagione del nuovo secolo, perso contro i Ravens in seguito campioni Nfl. A Tampa ha aiutato una squadra già forte (l’aveva costruita Tony Dungy) a superare l’ultimo ostacolo – quello di essere grande anche nei playoff – portando in Florida il primo Lombardi Trophy di sempre.

Quindi, in ogni luogo dove è stato, Gruden ha lasciato un marchio profondo e vincente, nonostante le ultime stagioni ai Buccaneers non siano state esattamente memorabili, conseguendo in un licenziamento causato soprattutto dall’impossibilità di riuscire a sollevare un attacco che non ha mai trovato un quarterback affidabile per il lungo termine.

La domanda che tutti si pongono è però un’altra: in quali condizioni tornerà sulla linea laterale un coach che si è sempre comportato da tale anche durante le telecronache (sempre ottimi e singolari i suoi spunti, anche se eccessivamente lodevoli), ma che da nove anni non subisce l’abnorme quantità di stress che un head coach si deve sobbarcare? Nonostante lo studio continuativo dei filmati, la conoscenza estrema dei giocatori e delle tendenze delle singole squadre, Gruden saprà colmare il vuoto filosofico di questi ultimi nove anni, in uno sport radicalmente cambiato anche solo rispetto a quattro anni fa?

Questa è la parte che non conosciamo, e dovremo attendere per saperne gli esiti. Le certezze che abbiamo oggi sono poche: sappiamo che i fans dei Raiders lo ameranno come hanno sempre fatto dopo aver restituito loro una squadra vincente dopo lunghi anni di attesa, sappiamo che Mark Davis, come suo padre, si è preso un rischio di dimensioni colossali e adeguate al contratto dell’allenatore (ma Bill Belichick quanto dovrebbe prendere allora, in proporzione?), sappiamo che i Raiders molto probabilmente hanno violato la Rooney Rule (quali candidati appartenenti a minoranze etniche avranno mai intervistato prima di Gruden?) ed hanno tenuto nascosto il segreto che tutti già conoscevano.

Come sempre, le probabilità di riuscita corrispondono al 50%, anche se Gruden e la sua fama, la sua preparazione, la sua mentalità, sulla carta aumentano esponenzialmente le possibilità di vincere. Vada come vada, ma il prossimo settembre, quando Chuckie tornerà farà il suo primo ingresso ufficiale presso lo stadio di casa, siamo più che sicuri che un profondo brivido di emozione riuscirà a scuoterci, pur non essendo fan del Silver & Black.

L’effetto della portata del suo carisma è anche questo.

2 thoughts on “Chuckie parte seconda: Jon Gruden torna sul luogo del (primo) delitto

  1. Con una squadra non in ricostruzione,tra il tenere Del Rio ancora un anno o prenderne uno fermo da nove,avrei tenuto il primo tutta la vita.
    Aldilà delle cifre ($$$),contratto da dieci anni ? e se tra due-tre siamo messi ancora così Davis che fa,se lo tiene forzatamente per ammortizzare l’esagerato esborso o ne chiama un altro ?

  2. Beh se si voleva restare nella mediocrità, allora andava bene Del Rio, se si vuole provare a vincere davvero, allora tutta la vita Gruden, annesso dei 9 anni di stop e il contratto oneroso..
    Davis si è preso un rischio alto, questo è fuori discussione, il primo della sua gestione alla maniera del rimpianto “Al” , ma a mio parere ha fatto la scelta giusta riportando in nero-grigio un HC di cui conosce a menadito la professionalità e l’intensità che può dare alla squadra ( guarda caso quello che è mancato in modo clamoroso quest’anno ), e che soprattutto può far fare il salto di qualità a Derek Carr, che “grazie” a Del Rio e alla sua scelta scellerata di quest’anno di affidargli un OC inesperto e inadeguato, lo ha fatto regredire paurosamente!
    Con Gruden non solo si è assicurato un HC di spessore e una mente offensiva di tutto rispetto, ma ha salvaguardato il suoi due investimenti più importanti ( o quantomeno ci sta provando nel modo più adeguato.. )

    Derek Carr ( e i suoi 125 milioni )

    E il trasloco a Las Vegas, dove ci sono da vendere biglietti, luxury box e contratti pubblicitari..

    Mark è andato All In, ma ci è andato con delle carte di tutto rispetto a mio modo di vedere!

    Go Raiders

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