“Se siamo arrivati qui, è stato esclusivamente merito della nostra difesa.”

19703137-mmmainAlla fine ha avuto ragione ancora Peyton Manning, attraverso una delle sue dichiarazioni pre-Super Bowl, mostrando un grato altruismo nei confronti di un reparto che ha fatto tantissimo per permettere nuovamente ai Denver Broncos di alzare il Vince Lombardi Trophy al cielo, perfettamente conscio dei suoi sopraggiunti limiti fisici e di un’età che nel football americano non concede sconti per come riduce ossa e giunture ben oltre i limiti del consentito. Una situazione ulteriormente aggravata se, come lui, si sono affrontate tre differenti operazioni chirurgiche al collo in poco più di un anno, causa di una stagione interamente passata sulla linea laterale a guardare gli altri giocare, per poi ricevere un sofferto taglio da parte della squadra che lui stesso aveva reso grande, gli Indianapolis Colts. Oltre a non sentire più la sensibilità nella punta delle dita, un fattore certamente determinante per un giocatore il cui compito principale è quello di lanciare la palla usando il tatto.

Sono passate due stagioni dal fantascientifico Manning dei 55 passaggi da touchdown e delle oltre 5.400 yard, un anno in cui i Broncos parevano in tutto e per tutto predestinati alla vittoria finale, salvo venir presi a calci nel sedere dai Seahawks e dalla loro Legion of Boom. Era stato uno smacco psicologico da cui pochi sarebbero riusciti a riprendersi, in particolar modo a seguito di un campionato offensivamente dominante che aveva dato un’impressione di supremazia assoluta, totalmente ridotta a brandelli nel giro di sessanta minuti effettivi. Tuttavia, la messa a punto della nuova identità della squadra era cominciata proprio in quel momento, nonostante quel morale ancora basso, ripartendo dal reparto che – come si suol dire – porta a casa l’argenteria che conta.

La difesa.

gettyimages-508981974-503e52fafbb29bcaa2951c770a34cbd5401346f7-s900-c85Il piano a breve termine del general manager John Elway è approdato a buon termine pur stravolgendo le carte in tavola. Letteralmente. Quando Elway convinse Manning a firmare per i Broncos, che dava alla squadra un quarterback di extra-lusso, la mossa era stata la primaria motivazione per cui ognuno degli addetti ai lavori aveva catapultato Denver tra le favorite alla vittoria finale, una tesi avvalorata dalle statistiche poi raccolte proprio in quella regular season del 2013. Quest’anno la storia si è svolta in maniera del tutto differente da come Elway stesso l’aveva immaginata, ma la franchigia non ha mancato di mostrare una forte risorsa interiore, quella di saper vincere anche con un Manning evidentemente non più in grado di lanciare passaggi in profondità, di rendere il gioco aereo dominante, di segnare punti a ripetizione. E’ successo di tutto quest’anno tra le montagne rocciose: abbiamo visto Peyton giocare la sua peggior partita di carriera (in casa contro i Chiefs) ritrovandosi fischiato e sostituito per la prima volta in carriera,  per poi assistere all’entrata in scena di Brock Osweiler riuscendo a traghettare in maniera idonea una squadra che non ha perso terreno nonostante la precaria situazione offensiva, terminando la regular season in cima alla AFC con un bilancio di 12-4. Un’impresa che non è certo stata garantita né da Osweiler, che aveva il compito di errare il meno possibile, né da un attacco asfittico, lontanissimo da quel reparto che due anni prima faceva felice ogni singolo ricevitore.

Tutti i meriti, sono difatti da ricondurre alla migliore difesa che la NFL ha visto scendere in campo quest’anno.

Difficilmente Elway, o chiunque altra persona esperta di football appartenente al pianeta terra, avrebbe potuto prevedere una vittoria al Super Bowl con un Manning sotto il 60% di completi, 141 yard ed un intercetto, anche se in realtà il copione della partita è stato lo stesso che i Broncos avevano seguito per tutti quei momenti della stagione in cui avevano ben compreso i loro limiti offensivi, sapendo fin troppo bene che la parte del leone l’avrebbe dovuta recitare il reparto così ben coordinato da Wade Phillips.

Citiamo il suo nome non esattamente a caso, perché se il premio di Most Valuable Player della partita, andato in ogni caso meritatamente a Von Miller, fosse “allargabile” pure al coaching staff, non ci sarebbe stato alcun dubbio circa il suo assegnamento. Phillips ha semplicemente fatto ciò che in carriera gli è sempre riuscito molto bene, ovunque egli sia andato a dirigere una difesa, al di là delle critiche ricevute a seguito delle sue esperienze di capo allenatore: se c’è un assistente in grado di allenare un reparto da Super Bowl, l’identikit corrisponde esattamente a quelle del figlio del leggendario Bum Phillips.

20160207__SP07PANTHERSBRONCOS1AO_5739x-p1Era ben noto che una delle chiavi principali della gara sarebbe stata quella di impedire la tradizionale vorticosa partenza dell’attacco dei Panthers, capace di creare distacchi sostanzialmente irraggiungibili nei primi trenta minuti di gioco, una qualità da loro esposta in molteplici circostanze e con una costanza micidiale. L’incidere di Phillips sullo svolgimento della partita è stato esattamente quello, proponendo allineamenti e schemi di blitz e coperture che Newton non aveva mai visto durante la stagione, assalendolo con grande pressione diminuendogli la comodità della tasca ed i secondi per analizzare la miglior situazione di lancio, arrivando a mettergli le mani addosso con grande determinazione, creando enormi difficoltà ad una linea offensiva che nel corso di tutto l’anno non aveva mai mostrato grossi segni di cedimento.

Laddove Newton era abituato a prendere un ritmo senza più mollarlo, Phillips l’ha ridotto a completare 18 passaggi sui 41 tentati, inducendo Ron Rivera ed il suo offensive coordinator Mike Shula a cambiare il piano di gioco abituale, togliendo ogni possibile spazio per le corse di un Jonathan Stewart fermo a 29 yard totali (nonché autore dell’unica meta di serata per Carolina) e limitando la pericolosità del quarterback nel creare primi down con le proprie gambe, una cosa che Newton è certamente riuscito a fare in alcune situazioni, ma senza incidere nel punteggio. Guardare le statistiche finali della gara potrebbe grossolanamente trarre in inganno dal momento che Carolina ha prodotto 315 yard totali contro la miseria delle 194 registrate dai Broncos oltre ad aver battuto i medesimi nei primi down conquistati quasi raddoppiandone la cifra (21-11), perché l’impresa magistrale che Phillips è riuscito a compiere è stata proprio quella di tenere al guinzaglio il tabellino delle segnature che Newton ha riempito a piacimento per tutto l’anno, lasciando i Panthers a sette punti per un’eternità concedendo loro solo un timido field goal nel quarto periodo.

Eppure, nonostante questo 24-10 conclusivo, la gara è stata in bilico proprio fino all’appena citato quarto periodo.

Denver non ha raccolto esattamente nulla a livello offensivo per tutto lo svolgersi della partita con la sola eccezione dei tre field goal del sempre ottimo Brandon McManus, ma ogni drive infruttifero è stato corrisposto da una difesa che ha fatto sentire la sua intimidatoria presenza mantenendo costantemente la situazione in bilico. Se i Broncos avessero commesso il benché minimo errore nei confronti di Newton, fresco MVP della Lega, staremmo certamente qui a parlare di un altro loro massacro al Super Bowl. La pressione apportata da Phillips ha generato i primi sette punti della manifestazione grazie al pallone strappato da Von Miller, poi ricoperto in endzone da Malik Jackson, impadronendosi dell’inerzia psicologica della gara e gestendo serie dopo serie il mantenimento di un vantaggio risicato, registrando fondamentali big play quali  l’intercetto comminato a Newton, il fumble provocato a Mike Tolbert, e strappando il possesso decisivo a quattro minuti dal termine dell’ultimo periodo, quando ancora l’indemoniato Miller ha fatto schizzare via quel pallone poi ricoperto da T.J. Ward sulla linea delle 4 yard a favore mentre uno sconsolato Cam osservava in ginocchio il triste epilogo della sua prima finale, creando i presupposti per un comodo touchdown risolutore firmato da un C.J. Anderson molto concreto nello svolgere egregiamente l’unico compito che aveva totalizzando 90 yard su corsa.

mike-remmers-von-miller-nfl-super-bowl-50-carolina-panthers-vs-denver-broncos-850x560Quindi, il cinquantesimo Super Bowl sarà ricordato per Von Miller e DeMarcus Ware, due vere forze della natura provenienti dagli estremi dell’allineamento 3-4 per creare ogni tipo di confusione, per una secondaria per allestire la quale Elway ha speso dollari sonanti per cancellare l’incubo di quella finalissima contro Seattle, costruendo una sua personale versione della Legion Of Doom – che tra le montagne rocciose è diventata la No Fly Zone – grazie ai contributi decisivi di T.J. Ward, di Chris Harris, Bradley Roby e Aqib Talib, nonostante quest’ultimo abbia macchiato la sua personale prestazione commettendo tre penalità davvero evitabili. Ed è il Super Bowl anche degli astri nascenti come Derek Wolfe, un giocatore cresciuto tantissimo e che si prepara ad ancorare per lunghi anni la front line arancione, e dei mestieranti come Malik Jackson, che entrano in situazioni particolari, ma che fanno sentire tutta la loro presenza.

Ma, a discapito delle cifre davvero modeste e nonostante l’incredulità di una regular season fatta di soli 9 passaggi da touchdown contro ben 17 intercetti, non può che essere il Super Bowl di Peyton Manning.

Per anni di lui si è parlato a vanvera, etichettandolo da perdente seppure avesse già un anello di campione NFL al dito, il punto più alto della sua esperienza ai Colts, si è continuato a sottolineare la differente caratura delle sue prestazioni tra regular season e playoff, criticandolo spesso senza costrutto alcuno. La carriera di Peyton si avvia al suo termine – le decisioni arriveranno a mente fredda, ma l’idea è quella che sia davvero finita qui – suggellata dal miglior finale che si potesse chiedere al destino,  chiudendo nel migliore dei modi il progetto a breve termine che John Elway aveva architettato quattro anni fa, nel mezzo del quale ha sempre trovato modo di adattarsi a tutti gli ostacoli che i Broncos hanno dovuto affrontare in questo cammino non facile. Ha avuto il coraggio di licenziare John Fox e di consegnare le chiavi della squadra a Gary Kubiak, che era a roster con Elway medesimo quando i Broncos vinsero i loro unici altri due titoli nel 1997 e 1998, di firmare Wade Phillips quando nessuno se lo filava più, di assemblare un coaching staff che seppure filosoficamente poco adatto a Manning ha saputo coesistere con le caratteristiche di uno dei quarterback più forti che abbiano mai calcato un campo di gioco.

E’ il finale di storia che avremmo desiderato per carriere illustri come quelle di Brett Favre, che al secondo anello solo era arrivato vicinissimo, o quella di Dan Marino, che invece l’ha sempre cercato invano. Fortunatamente, e meritatamente, a Peyton Manning è andata meglio, realizzando una sorta di giustizia poetica.

Tutto quello che ha realizzato durante la sua inimitabile carriera da ieri notte è avvalorato da due vittorie in quattro Super Bowl.

Se non è un vincente lui, allora non conosciamo l’esatta definizione del termine.

 

 

 

5 thoughts on “I Broncos ed una difesa da titolo

  1. Bell’articolo, come sempre. Però Manning vincente è un accostamento che non si può sentire.
    Essere vincente non vuole dire contare le vittorie, ma pesarle. Il vincente è colui che nei momenti che contano eleva ai massimi livelli la sua prestazione, esaltandosi più la partita diventa difficile. Poi il fatto di vincere o perdere in uno sport di squadra dipende da così tanti fattori che un singolo giocatore non potrà mai essere sicuro della vittoria, ma la prestazione resta.
    Io seguo il football dal 1998, quindi diciamo che sono cresciuto con Manning. Ho visto tutte le sue partite di playoff e posso affermare con assoluta sicurezza che se essere vincente vuole dire esaltarsi nelle partite senza domani… Manning NON è un vincente. Inspiegabilmente il Superman della regular season diventava il Clark Kent dei Playoff: Manning ai playoff ha alternato partite decenti a partite orribili ma mai, e dico e sottolineo mai, l’ho visto giocare una partita di PO allo stesso livello della regular season.
    4 SB giocati, 3 TD, 6 INT. Sono statistiche anche troppo gentili se si guarda come ha giocato in quelle 4 partite. Poi ne ha vinte 2? Nessuna per suo merito.
    Il più grande perdente di successo della storia dello sport professionistico americano.

    • Concordo, sul livello di gioco che Manning ha tenuto nei P.O. da sempre.
      La vittoria dei Broncos (merito cmq alla squadra e al coaching staff) passava unicamente per il SUIDICIO delle pantere, ed in effetti cosi e’ stato.

      • Appunto. Grazie ai Panthers per 5 o 6 turnover. Manning i suoi 3 li ha combinati, come al solito.

  2. Rimane comunque uno dei più grandi QB di sempre, però sono d’accordo con voi che nei playoff non abbia mai espresso un livello buono.
    Non per questo si può definire un perdente…
    Il SB è stato vinto da QB assurdi…
    Van Miller grandissimo MVP…una forza della natura…
    ma rimango dell’idea che sia stato uno dei più brutti SB che ho visto…
    Le difese hanno giocato bene ma gli attacchi…quali attacchi????

    • Mi è piaciuta solo l’umiltà di Manning, che ha riconosciuto (e penso pagato almeno la cena) a tutta la difesa, dominante ogni immaginazione. Più che un grande perdente lo definirei il peggiore dei vincenti, perchè comunque qualche merito l’ha sicuramente. Credo che solo chi ha giocato da Qb possa immaginare la pressione che subisce l’unico giocatore decisivo negli sport di squadra (non paragonabile ad un 10 del calcio o al palleggiatore del volley, ecc..) nelle partite, poi nel SB in particolare. Ma vedergli fare dei lanci sbagliati, anche tecnicamente (vedi l’intercetto subito), mi ha veramente deluso.
      Sono certo che chiuderà la carriera così, è persona troppo intelligente per non capire che già così gli è andata di lusso.

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