Pare quasi che la Afc West del presente campionato non voglia essere vinta da nessuna delle quattro appartenenti: la division ha oramai vissuto dei cambiamenti costanti, settimanali, non ha mostrato conferme o tracce di affidabilità a lungo termine in un anno dove l’American Football Conference propone altri raggruppamenti dove molto è sostanzialmente già deciso da tempo, e si attende il solo responso della matematica – in inevitabile arrivo visto il countdown verso la fine della regular season – per scrivere nei libri di storia del football quanto già decretato dal campo e dai risultati del recente passato.

Non è il caso di questo raggruppamento di squadre: sabato 24 dicembre è già il turno della sedicesima settimana di gioco, e quando accaduto nell’ultimo mese ha permesso alle quattro componenti della Afc West in di mantenere intatte le rispettive speranze di giocare la postseason, a patto che accadano determinati eventi. Tutto ciò era impensabile se ci si ferma a riflettere sulla prima parte di un cammino dove la situazione era quasi contraria a quella attuale, ed ora che ci si ritrova con un calzino sostanzialmente rivoltato dentro al quale può ancora accadere di tutto.

Denver Broncos (8-6)

Tim Tebow (e la difesa) ha portato i Broncos dall'ultimo al primo posto della Afc West.

Sono loro la storia dell’anno di tutta la Nfl, o perlomeno lo sono stati fino a che New England non li hanno riportati sulla terra. L’avventura dei Broncos era cominciata così male da far presagire nuovi dolori già patiti l’anno passato, sensazione nata dall’ottenimento di 4 sconfitte nelle prime 5 partite, serie negativa che aveva messo a dura prova sia la pazienza dei tifosi che le speranze di poter assistere al ritorno di Denver ad una gara di post season.

Il resto è più o meno noto al mondo intero, tant’è stata la copertura mediatica riservata all’esplosione del fenomeno Tebow, coinciso con un’impressionante ed inattesa serie di successi la quale aveva avuto non solo un grande impatto sul morale di un’organizzazione che si trovava ad un centimetro dal baratro, ma che ha permesso un’eccitante rimonta che ha finito per portare i Broncos addirittura in vetta alla divisione dopo esserne stata il fanalino di coda, momento, quello, nel quale si stava già pensando a quali scelte effettuare una volta che il mese di aprile fosse tornato a fare visita.

John Fox, capo allenatore assunto per far tornare a respirare in città una tradizione vincente e non solo aria rarefatta, aveva preso una decisione logica ma molto discussa, togliendo i gradi di titolare a Kyle Orton ed inserendo a tempo pieno la seconda scelta di primo giro di un anno addietro, proprio quel Tim Tebow del quale si era dibattuto all’infinito in virtù delle caratteristiche fisiche, della grande capacità di correre il pallone, e della grande lacuna tecnica che avvinghiava i suoi progressi in fase di gioco aereo. I Denver Broncos avevano appena osato l’inenarrabile, dando ad un quarterback di ruolo ma non di fatto – non dimentichiamo che Tebow ed un vero pocket passer sono due concetti distanti come l’Europa e l’Australia – l’opportunità di giocare per capire più che altro quale potesse essere il suo valore in gare intere e non in situazioni saltuarie, decretando quindi che Brady Quinn era divenuto, contrariamente alle dichiarazioni in sede di training camp, l’ultimo quarterback della lista.

Pareva una mossa eseguita ad hoc, Tebow aveva esordito a Miami proprio nel giorno in cui si svolse, nell’intervallo, una sorta di ritrovo celebrativo – non esente da polemiche locali – della squadra di Florida che vinse il titolo nel 2008, simbolicamente sembrava che gli si volesse far recuperare quell’aura magica che aveva da sempre caratterizzato il personaggio e che ancora oggi lo definisce. Il resto è storia ben conosciuta, dal momento in cui Tebow è stato nominato starter la squadra ha registrato un bilancio di 7-2 cogliendo ben sei successi consecutivi, e si è portata a casa una lunga lista di partite terminate con un minimo punteggio di scarto.

Frutto, questo, di una grandissima difesa che ha vissuto soprattutto sul contributo di un rookie straordinario come Von Miller, e dell’attitudine di Tebow nell’infiammarsi nel quarto periodo perfezionando rimonte in cui probabilmente solo lui aveva creduto contagiando d’entusiasmo i compagni: i Broncos non hanno fatto altro che cambiare completamente abito nel periodo decisivo dopo che la difesa li ha tenuti in vita, e le evidenti imprecisioni in fase di lancio diventavano improvvisamente un ricordo. Fox aveva avuto il coraggio di cambiare tutti gli schemi offensivi giocati fino a che c’era Orton al timone, inserendo delle chiamate in option e tenendo al minimo indispensabile le occasioni in cui il pallone avrebbe preso vie aeree, occasioni isolate ma produttive, come avrebbero poi testimoniato i numerosi big plays confezionati da Eric Decker e dal rientrante Demaryus Thomas.

Il fatto più assurdo è che i Broncos, dopo aver superato le tre rivali in classifica, ha rimesso tutto in discussione dopo essere uscita notevolmente ridimensionata dal confronto casalingo con i Patriots, e per assurdo potrebbero perdere quanto ottenuto se dovessero ciccare entrambe le due gare finali. L’ultima delle quali potrebbe, in caso di arrivo di tutte le componenti a quota 8-8, addirittura regalare un’incredibile qualificazione ai Kansas City Chiefs, consentendo ad Orton di portare a termine una vendetta che nemmeno una pellicola hollywoodiana avrebbe potuto prevedere.

Oakland Raiders (7-7)

La porzione di stagione giocata da Palmer ad Oakland è stata caratterizzata da alti e bassi.

La stagione dei Raiders è cambiata in negativo in concomitanza all’infortunio al piede di Darren McFadden, su questo vi sono davvero pochi dubbi. Il fenomeno da Arkansas stava giocando il miglior football della sua pur breve carriera nei professionisti, il che andava ad asseverare ulteriormente il fatto che Oakland fosse stata correttamente ritenuta favorita per la vittoria divisionale, se non altro perchè proprio contro le dirette concorrenti la squadra aveva ottenuto un invidiabile 6-0 nel corso del 2010.

A tratti quello dei Raiders era stato un football ispirato, alimentato dalla volontà di rendere tributo al grande Al Davis, scomparso all’inizio del mese di ottobre, evento al quale Oakland aveva risposto con un’emozionale ed emozionante vittoria contro i Texans. Hue Jackson era parso essere l’uomo giusto al momento giusto, una figura con molto polso ma al tempo stesso una persona capace di mostrare anche il suo lato sensibile, sicuramente un miglioramento rispetto ai recenti disastri combinati da Tom Cable, Lane Kiffin, e dalla lunga lista di allenatori con cui il vecchio Al aveva litigato deteriorando ogni santo rapporto.

Dopo un inizio incoraggiante i Raiders hanno perso i pezzi.

Prima McFadden, che stava letteralmente dominando e che sarebbe dovuto rimanere assente per un paio di partite solamente, poi Jason Campbell, quarterback che era riuscito a ridurre il numero di errori cui è propenso proprio grazie alla presenza di un rushing game che proponeva una coppia di grande efficacia grazie anche alla presenza di Michael Bush, e che aveva goduto della possibilità di mostrare il braccione grazie alla presenza di numerosi giocatori in grado di fare la differenza sul profondo. Da qui la decisione di portare in California Carson Palmer, con il quale i risultati sono stati misti.

A metà strada tra l’inguardabile e l’essere l’esatto giocatore che serviva ai Raiders per non predere le speranze post season, Palmer ha comprensibilmente faticato a mettere in pratica un playbook offensivo nuovo soprattutto dopo averlo dovuto ingerire tutto d’un colpo e con pochissimo tempo a disposizione, ed ha alternato grandi gare a prestazioni insufficienti soprattutto a livello di turnovers. Altri infortuni hanno fatto un minimo di differenza, in quanto armi intriganti come Denarius Moore e Jacoby Ford sono rimasti fuori a lungo – ed attualmente lo sono ancora – per infortunio.

Sabato c’è una sfida senza domani contro i Kansas City Chiefs, che eliminerà una delle due franchigie dalla corsa ai playoffs, ed i Raiders vengono da tre sconfitte consecutive nelle quali sono stati strapazzati da Miami e Green Bay, e dove hanno concesso una rimonta suicida ai Lions.

San Diego Chargers (7-7)

Philip Rivers, a dicembre, è inarrestabile. Come sempre, d'altro canto...

Della serie guai a darli per spacciati. Squadra tanto irritante per l’incapacità di cominciare bene una stagione quanto entusiasmante per come si trasforma nel mese di dicembre. I Chargers sono tra i protagonisti più caldi di questo rush finale, e grazie ai risultati negativi ottenuti dalle rivali dirette sono inaspettatamente rientrati in gioco dopo essere stati dati per sepolti a seguito di sei passi falsi in fila, l’ultimo dei quali si era rivelato essere una beffarda sconfitta al supplementare contro Denver, in seguito ad un calcio mancato da Nick Novak. Se quel calcio fosse entrato e se il Monday Night contro i Chiefs non fosse stato gettato al vento da un clamoroso turnover in overtime con il pallone dentro al territorio favorevole, probabilmente la Afc West sarebbe già stata proprietà di San Diego.

Dal momento in cui la squadra si è ritrovata con un piede e tre quarti nella fossa, a quota 4-7, ma qualcosa è cambiato. Philip Rivers, che nella prima parte di campionato aveva accumulato un numero inedito di intercetti, è tornato a giocare come sa ed ha messo da parte i litigi sulla sideline con chiunque gli capitasse a tiro, sfruttando la sua competitività in maniera positiva. Norv Turner si è ricordato di avere a roster un running back, Ryan Mathews, per il quale i Chargers avevano sacrificato molto in sede di draft due anni fa e che andava utilizzato decisamente di più, quando invece il piano di gioco abbandonava le corse alla prima difficoltà. Inoltre, fatto assolutamente non di secondo piano, Antonio Gates è riuscito a giocare con continuità facendo vedere di non essere limitato dagli infortuni, tornando ad essere un bersaglio produttivo e indispensabile nelle ultime 20 yards e non solo. Il ritorno di Malcolm Floyd ha restituito un’arma importante sul profondo.

San Diego aveva cominciato il suo cammino apparentemente tranquillo verso la post season con un 4-1 che lasciava pochi spazi al dubbio, in quanto si credeva, visto l’inizio delle avversarie, che solo i Raiders potessero essere un elemento d’ostacolo. Tuttavia, la disastrosa parte centrale del campionato aveva nuovamente dimostrato tutta l’incostanza della squadra e rivelato buchi a roster che non erano ancora stati risolti dagli anni precedenti, su tutti una secondaria troppo sospetta. A questo si erano aggiunti numerosi infortuni per la linea offensiva, che avevano semplicemente dimostrato quanto poco ci fosse dietro ai titolari, mettendo Rivers in costante pericolo ed in stato di perenne fretta decisionale.

Oggi San Diego sembra una squadra rigenerata, come storicamente diventa nel mese di dicembre negli ultimi anni, ponendo in mostra un’altalena di prestazioni che si può individuare quale causa del mancato raggiungimento del Super Bowl nei tempi recenti. Sembra quasi impossibile che questa possa essere la stessa compagine che ha buttato via numerose gare, in special modo dopo lo scorso Sunday Night, dove i Baltimore Ravens sono tornati a casa con un altisonante 34-14 a loro sfavore, e nella quale la difesa dei Chargers, 21ma contro le corse, ha limitato niente meno che Ray Rice.

L’ultima spiaggia è rappresentata dall’ottenenimento di due vittorie consecutive per finire il campionato e vedere che combinano nel frattempo i Broncos, che hanno una gara di vantaggio. E’ obbligatorio portarsi a casa la sfida contro Detroit di questo sabato – impresa non facile quando ci sono Stafford e Megatron nei dintorni – e poi giocarsi il tutto per tutto contro i Raiders.

Kansas City Chiefs (6-8)

Kyle Orton desidererebbe l'opportunità di battere i Broncos, lasciandoli fuori dalla post season.

Ebbene sì, i Chiefs sono ancora vivi. Sono sopravvisuti ad un inizio disastroso, alla perdita del loro running back titolare, all’infortunio terminale del loro quarterback, ed al licenziamento del loro capo allenatore.

Di tutte le compagini i Chiefs sono quella che più delle altre devono sperare in una particolare combinazione di eventi per qualificarsi vincendo la division, e la speranza, come sempre è l’ultima a morire. Specialmente se sei diventata la prima squadra di quest’anno a sconfiggere i Green Bay Packers ponendo fine ad una striscia vincente che durava da una vita, mettendo a tacere tutte le discussioni riguardanti una perfect season.

Kansas City, piena dell’energia positiva derivata dall’aver messo fuori fase una macchina perfetta, potrebbe fare miracoli.

L’involuzione rispetto ad un 2010 terminato con la disputa della post season era stata chiara, ed aveva confermato le critiche mosse all’organizzazione, che per qualcuno aveva ottenuto quella qualificazione grazie ad un cammino troppo facile, fatto poi confermato dalla pesante sconfitta patita in casa contro i Ravens nella Wild Card.

La stagione attuale era cominciata nel peggiore dei modi, 89 punti presi nelle prime due partite e l’infortunio al miglior giocatore di tutta la squadra, Jamaal Charles, una tegola dolorosissima per la produzione dell’attacco. Il bilancio perdente dopo 7 gare non incuteva grande fiducia per il futuro, ed i Chiefs erano tranquillamente finiti tra le peggiori franchigie del campionato, affossandosi ulteriormente dopo i quattro stop consecutivi giunti in seguito.

I problemi parevano insormontabili in virtù anche della rinuncia forzata a Matt Cassel, inserito in injured reserve, evento che aveva lasciato spazio ad un Tyler Palko tecnicamente non adeguato alla Nfl, con risultati scontati. Kansas City aveva accumulato sconfitte di larga misura in quantità industriali, facendosi calpestare da Miami, New England e New York Jets combattendo valorosamente solo contro Pittsburgh (13-9 per gli Steelers), ottenendo nel frattempo solamente un’affermazione contro i Bears già privi di Cutler.

Todd Haley non era mai riuscito ad ottenere i risultati sperati, non tanto a livello statistico, piuttosto a livello di gestione del personale. Scontri a muso duro con i giocatori, incompatibilità con ogni offensive coordinator assunto in precedenza – l’unico produttivo, Charlie Weis, era fuggito nuovamente al college dopo un solo anno, guarda caso quello dei playoffs – e perenne propensione a fare sempre e comunque di testa sua alimentando un ego smisurato (ha quasi sempre fatto lui da offensive coordinator per mancanza di fiducia negli altri) e sgretolando un pò alla volta il rapporto con Scott Pioli, general manager con una storia molto vincente alle spalle ed architetto della grande dinastia dei Patriots, squadra sulla quale questi Chiefs sono stati appositamente modellati.

E proprio un ex Patriot, Romeo Crennel, era subentrato ad Haley per guidare la squadra fino alla fine della stagione, ed il suo esordio è stato bagnato dalla fantascientifica vittoria contro i Packers grazie ad una gara impostata in modo eccellente soprattutto dal lato difensivo, proprio quello di sua competenza. L’ex head coach dei Cleveland Browns è riuscito ad unire le motivazioni all’interno dello spogliatoio, ed ha  in gestione una squadra che desidera vincere per lui aiutandolo magari ad avere una seconda opportunità da head coach nella Nfl.

L’impresa è durissima, ma Kansas City ha il “vantaggio” di poter affrontare, e quindi battere, due concorrenti dirette nelle ultime due gare disponibili, Oakland e Denver. Servirebbero due sconfitte dei Broncos, una dei Raiders, ed una dei Chargers per portare tutte le compagini in parità a quota 8-8 e, come detto in precedenza, in tale caso per via dei tie-breaker la division sarebbe clamorosamente vinta dai Chiefs.

Non succede, ma se succede…

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