La più bella descrizione di quanto ottenuto da Clemson è anche la più semplice, e campeggiava in primo piano stampata sulle magliette celebrative della leggendaria vittoria contro Alabama. Una sola parola, profondamente significativa per chi sa che cosa aveva passato questo programma di football nelle ultime decadi: proven.

Ha senza dubbio ragione Ben Boulaware, la vittoria del titolo nazionale si deve anche ai protagonisti del passato ed è solo il passaggio finale di un percorso intrapreso tanto tempo fa, un percorso costruito su speranze puntualmente disattese, su una cultura da cambiare per togliersi da un limbo vincente ma non a sufficienza, su un livello di talento reclutato colossale se rapportato al differente appeal delle potenze della Sec, un processo che aveva portato presso il campus locato nel Sud della Carolina tanti ottimi giocatori di abilità atletiche eccellenti, ma nessun titolo in grado di contare davvero. Eppure, guardandosi indietro oggi, quelle erano esattamente le premesse per ciò che è stato finalizzato lunedì notte, il coronamento della visione di coach Dabo Swinney, un allenatore che ha saputo resistere alle avversità, facendo finta di non sentire le critiche, convinto di possedere una macchina da titolo.

Non restava che convincere anche i suoi ragazzi, e tutto il mondo di fuori. Ci ha pensato l’ultimo secondo di una partita straordinaria. Proven, per l’appunto.

Negli ultimi vent’anni i Tigers sembravano dei gattini intimoriti dal grande palcoscenico. Si è perennemente parlato di ogni sacrosanta edizione di questa squadra accostandola all’incompiutezza dei suoi tentativi di grande impresa, forti sulla carta, roboanti in pre-stagione, ma puntualmente fallimentari quando si doveva giocare sul serio. Per anni, quando ancora la sideline era occupata da Tommy Bowden, si è parlato del cosiddetto tabù della decima vittoria, equivalente al traguardo del salto di qualità che poteva aprire ai Tigers nuovi panorami rivelatisi poi irraggiungibili.

Questo fino a che Bowden medesimo non ci ha rimesso il posto di persona, proprio per il mancato approccio vincente al cambio culturale del programma. Questo tenendo pure conto di un fattore interessante, ovvero il fatto che Bowden non avesse mai prodotto una stagione perdente durante la sua quasi decennale permanenza a Clemson, una situazione idilliaca per una squadra di football intenzionata ad accontentarsi di sopravvivere e vincere qualche Bowl secondario a fine stagione, nulla più, ma non era questa la direzione che la direzione atletica dell’università intendeva perseguire, in special modo dopo che ogni stagione disattesa aveva aggiunto ancora maggiore pressione su una possibile ripetizione di quel titolo ottenuto nel 1981. Infine, una coincidenza assai poco felice: Florida State, una super-potenza che aveva dominato la fase di transizione del college football tra un secolo e l’altro, aveva vissuto parecchi anni non conformi alle aspettative, e mai i Tigers erano riusciti ad approfittare di questa golosa situazione inciampando sempre sul più bello, perdendo quella partita o due che mai avrebbero dovuto per essere presi seriamente in considerazione.

Dabo Swinney quella cultura l’ha cambiata, con forza, determinazione e perseveranza, attirando a sé talenti provenienti da altri stati che secondo la teoria avrebbero dovuto preferire le ben più blasonate università locali ai poveri Tigers, andando invece a vincere contro i pronostici. Proprio come ha fatto sul campo lunedì notte. Swinney ha convinto chiunque gli sia capitato per le mani che Clemson avrebbe vinto un titolo, non ha mai avuto un solo dubbio. L’unico quesito che si poneva era il quando questo sarebbe accaduto.

Il suo percorso è stato allestito compiendo un passo per volta. Il tabù delle dieci vittorie stagionali? Sfatato per sei stagioni consecutive, e la striscia è aperta, signori. Dalla stagione 2011 ad oggi nei libri di storia sono scritte 70 vittorie complessive. Questi sì che sono numeri da programma di alta caratura. Le vittorie importanti? Stagione 2013, palcoscenico dell’Orange Bowl, affermazione contro niente meno che Ohio State in versione Urban Meyer, la prima prova che i Tigers potevano fare a pugni con quelli grossi, e che potevano programmare di togliere l’egemonia della Acc alla temporaneamente resuscitata Florida State, che con Jameis Winston ai comandi aveva giusto ottenuto il più prestigioso dei trofei relegando ancora una volta Clemson in seconda fila.

Ancora per poco.

Battere Alabama al National Championship è stato come sconfiggere i Patriots al Super Bowl. Dentro sé Swinney si sentirà un po’ Tom Coughlin, a dimostrazione del fatto che tutti hanno un punto debole, anche una squadra collegiale così potente che potrebbe rischiare di vincere la Afc South odierna. La difesa dei Tide era già stata scardinata dodici mesi fa dalle quasi 500 yard di total offense prodotte da Deshaun Watson condite da quattro passaggi da touchdown, statistiche tanto incredibili quanto insufficienti per spezzare il dominio di ‘Bama. Ma quella difesa piena di futuri primi giri Nfl si è dovuta piegare una volta per tutte dinanzi ad un altro spettacolo inscenato da uno dei giocatori più sensazionali dell’ultimo periodo di college football, che ha scelto ancora una volta lo scenario più importante per mettere a segno la sua gara migliore, approfittando delle continue occasioni che il poco produttivo attacco di Saban ha continuato ad elargire fino a quell’ultimo, fatale secondo di partita.

Si chiude per sempre il capitolo degli underachievers, quelli sempre inferiori alle attese, quelli dei tabù, quelli mai puntuali agli appuntamenti galanti. E questo colpo di spugna è di quelli grossi, di quelli in grado di riscrivere la storia e mutare la percezione di una squadra, di un programma, di un luogo specifico. Per capire la portata dell’impresa tinta di arancione basta pensare a quante decadi potrebbero passare prima che qualcuno possa pensare anche solo di avvicinare ciò che ha fatto Watson in questi ultimi due anni, traghettando la squadra a due Championship consecutivi, l’ultimo dei quali chiuso nel modo più positivamente drammatico possibile, consegnandosi per sempre nelle braccia della leggenda.

Il prossimo passo che Swinney dovrà compiere riguarderà la sostituzione naturale di tutto il talento che sta per approdare al professionismo, ma quanto fatto fino a questo momento non dovrebbe lasciare grossi dubbi sulla bontà del suo futuro operato. Questa cultura l’ha cambiata lui dopo anni di sofferenza tenace, dove non ha mai smesso di credere al titolo anche quando le circostanze sembravano beffarlo continuamente.

Il prestigio con cui potrà presentare il programma di Clemson alle future leve è un biglietto da visita di spessore ancora superiore rispetto ad un recente passato di comunque grande successo. E quel proven suona ideale quale motto del futuro.

 

 

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