Con l’avvento dei playoff nel college football, datato 2014, i deputati a scegliere le 4 squadre che si contenderanno il titolo hanno introdotto un nuovo concetto, su cui fanno affidamento in modo deciso: la signature win. Di cosa stiamo parlando?

La signature win è la vittoria “di qualità”, vale a dire ottenuta contro un avversario, magari non all’interno della propria conference ma non è necessariamente un obbligo, che possa avere le stesse ambizioni e con cui l’eventuale vittoria possa avere un peso specifico maggiore in fase di valutazione.

Ovviamente nelle conference principali queste “signature wins” sono più facili da ottenere perché ogni singolo anno ci sono sfide come Ohio State-Michigan, Clemson-Florida State (con Louisville che sta entrando nel circolo), LSU-Alabama, USC-UCLA, Oregon-Stanford e via discorrendo.

È però interessante notare come si siano evolute le 3/4 partite non di conference (si va sempre più verso le 3, con molte conference che hanno portato a 9 le partite interne), che le grandi università non impiegano più in sfide contro avversarie di scarso peso specifico, di conference minori o anche di FCS, ma cercano le sfide di livello con grandi nomi di altre conference, che sono anche un buon veicolo economico e di visibilità, magari giocate pure in terze città che garantiscono un ottimo successo di pubblico.

Certamente ci sono squadre (Michigan, Washington, Baylor, per citare quelle attualmente tra le prime 15 che hanno percorso questa strada) che preferiscono (o hanno peferito finora) la certezza, o quasi, di non correre rischi ed avere solo vittorie off-conference, però per avere maggiori chance di essere notati dal comitato sono sempre più le università che scelgono la strada delle sfide complicate: nel 2017 infatti avremo, tra le altre, Florida State-Alabama, Ohio State-Oklahoma (di nuovo), Texas-Maryland, USC-Texas, Michigan-Florida, Oregon-Nebraska, Notre Dame-Georgia, UCLA-Texas A&M, quindi un buon numero di importanti showcase.

Certamente la cosa è rischiosa, in quanto le possibilità di sconfitta sono più alte: l’esempio più lampante è Oklahoma, che ha perso sia con Houston che con Ohio State ed ha abbandonato le velleità playoff quando nemmeno ottobre era scoccato.

Tutto questo panegirico è servito per introdurre quella che è stata, finora, la più grande signature win del 2016, quella ottenuta da Washington contro Stanford nella serata di venerdì, 44-6 il punteggio finale.

L’HC Chris Petersen non è uno sprovveduto  e già nella sua tenuta a Boise State lo aveva dimostrato, con un record di 92 vittorie e 12 sconfitte, tre titoli di WAC, uno di Mountain West e due Fiesta Bowl vinti contro Oklahoma e TCU.

Approdato in quel di Seattle, Petersen ha faticato nei primi due anni, patendo la forte concorrenza di una conference come la PAC 12 ma iniziando a mettere insieme talento e ottimi recruit che poi alla terza stagione sulla sideline degli Huskies stanno fruttando ottimi dividendi, e nella vittoria contro Stanford abbiamo avuto dimostrazione di tutto ciò.

Si parte dal QB, Jake Browning, sophomore californiano, che non è chiamato a un ruolo da protagonista assoluto ma che nella sua stagione da sophomore sta lavorando ottimamente: ha aumentato la sua percentuale di completi fino a oltre il 70%, ha già realizzato 17 TD pass (a fronte dei 16 dell’intera scorsa stagione) e subito solo due intercetti.

Browning non ha mai superato le 300 yards in stagione, né ha mai superato i 28 passaggi tentati e non si avventura praticamente mai fuori dal backfield, ma maneggia l’attacco con padronanza e si appoggia con criterio alle corse, che sono il punto forte dell’attacco, con l’ausilio di due RB di qualità come Myles Gaskin e Lavon Coleman, rispettivamente sophomore e junior.

Le luci della ribalta sono state prese, però, nella partita contro i Cardinal dalla difesa, che in stagione subisce solamente 12,8 punti di media (ottava della nazione). Ciò che salta più agli occhi sono stati gli 8 sacks, che portano il totale stagionale a 21, dato leader nella nazione insieme ad Ohio, unitamente agli 11 fumble recuperati, primi nella nazione con le seconde a quota 7.

Tra i principali elementi difensivi ci sono i DL Greg Gaines e Vita Vea (entrambi sophomore) e i LB Psalm Wooching e Joe Mathis, senior. Ciò che salta agli occhi con forza è che la squadra è fondamentalmente giovane, anche nei reparti non citati come i WR, la OL e le secondarie: si tratta quindi di una squadra che Petersen ha potuto forgiare alle basi secondo il suo credo e quindi i risultati si iniziano a vedere in questo anno, ma anche per il futuro questi Huskies sono assolutamente da temere.

La stagione particolare di molte squadre storicamente protagoniste della PAC 12 (le due Arizona, le due squadre di LA, Oregon, tutte alle prese con problemi più o meno gravi) apre porte che fino al 2014 erano chiuse per altre contendenti (si noti anche cosa sta facendo Colorado nella South) e gli Huskies sono stati bravi ad infilarsi: ma ora che hanno varcato la soglia potrebbero non avere più voglia di tornare indietro.

Il dubbio che però viene in mente è un altro: siamo sicuri che coach Petersen nel 2017 sarà ancora a Seattle? Con tante squadre di primissimo livello che potrebbero cercare un nuovo allenatore potrebbe essere un pezzo ambito e se università come LSU, Notre Dame, Texas o la stessa USC si presentassero alla sua porta, si potrebbe resistere?

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