Oregon. Una macchina perfetta, costruita con minuziosa precisione, automatismi ben collaudati, ritmi vertiginosi ed innovazione tattica, si è imposta negli ultimi anni nel panorama del football collegiale come una delle realtà più consistenti e consolidate che si possano trovare, in perenne lotta per la corsa al titolo. E’ un’identità fornita da Chip Kelly, è un dato noto e conosciuto, ed ora gestito dal suo successore, Mark Helfrich, per il quale il ruolo di semplice persona che prende in mano un sistema creato da un’altra e lo porta avanti è sin troppo ristretto, perché bisogna tenere conto del fatto che non sempre si riesce egregiamente a portare avanti i progressi registrati da terzi con la stessa continuità, ed Oregon ci stava tuttavia riuscendo.

1383887653000-USP-NCAA-Football-Oregon-at-Stanford-010L’incubo è però tornato a galla, ha scoperto nuovamente il suo volto ed è sempre lo stesso, arriva puntuale come un orologio svizzero a rompere i programmi ed a cambiare le prospettive, proprio in quel preciso istante in cui tutto sembrava destinato ad andare per il verso giusto, una sensazione che i Ducks hanno provato sin troppo a lungo, senza mai riuscire a compiere il passo conclusivo verso il trofeo assoluto. Stanford si è nuovamente messa in mezzo ai sogni di gloria, ha trovato contromisure per l’assalto offensivo che Oregon ha costantemente prodotto negli ultimi anni attraverso l’operato di un altro allenatore che veniva osservato da vicino, quel David Shaw che doveva per forza di aspettative tenere alto il livello raggiunto prima di lui di Jim Harbaugh, un aspetto situazionale che crea un immediato paragone proprio con Herflich.

Un anno fa era successa la stessa identica cosa, il filotto di vittorie dei Ducks si era bruscamente interrotto in overtime con una beffarda sconfitta per tre punti nella seconda parte del campionato, quella conclusiva, quella dove il traguardo sembra sempre più vicino e dove le ambizioni, se arriva un passo falso, crollano come un castello di carte ed il National Championship si trasforma in un Fiesta Bowl. Il quale, per carità, è pur sempre un Bowl di queli maggiori e più prestigiosi, ma non assegna quel titolo nazionale cui Oregon continua ad avvicinarsi senza poterlo realmente toccare. E nel college football, da che mondo è mondo, la sconfitta si paga carissima, perché rovina istantaneamente gli sforzi di un anno polverizzando mesi di allenamenti e studi dei dvd degli avversari. Stanford lo sa bene. Utah docet.

Ed è ancora il pane e burro del football a farsi valere, che non accetta di cedere il passo alla spread, alla read option, alla no-huddle, ed a tutte quelle meraviglie offensive che esaltano le caratteristiche atletiche dei singoli mettendola sul piano della velocità dell’atleta e dell’esecuzione dello schema, tutte funzionalità che aiutano le squadre le quali adottano tali soluzioni ad illuminare lo scoreboard un maniera continuativa e distruttiva (per l’avversario).

I concetti basilari non mollano la presa e di tanto in tanto tirano il colpo di coda letale.

Questo è ciò che ha provato Stanford sul campo, in una serata perfetta dove non solo c’era una rivale divisionale fortissima da arginare, ma in palio c’era la risalita del ranking dopo l’inopinata sconfitta contro gli Utes. Ed ora i Cardinal godono di una nuova credibilità dinanzi ai votanti.

Marcus+Mariota+Oregon+v+Stanford+xmdT4EFnTL_lOregon si chiede se faccia più male perdere di un field goal dopo avercela quasi fatta in una partita vicinissima nel punteggio, oppure dopo essere stati sonoramente presi a sculacciate per tre quarti interi di una gara, e forse, vista la natura dei Ducks, è proprio quest’ultima a lasciare le ferite più dolorose. Essere limitati è una cosa. Essere annullati, un’altra. Non facendosi ingannare dal punteggio finale (26-20), frutto di due big play degli special team nell’ultimo periodo, Oregon è stata letteralmente rasa al suolo da una difesa che non ha perdonato nulla, coperto bene in marcatura ed annullato la combo composta da Byron Marshall e De’Anthony Thomas, nonché da un attacco che ha ancora una volta basato il proprio successo sull’imposizione del gioco di corse e la magistrale gestione del cronometro, in quanto l’unico modo per togliere effetto ad Oregon era tenere Marcus Mariota ed i talentuosi compagni a guardare dalla sideline il più a lungo possibile.

E così è stato puntualmente fatto. 42 minuti di controllo palla a favore di Stanford contro i 17 dei Ducks hanno fatto tutta la differenza del mondo, e se vi si aggiunge un 30% di inusuale insuccesso nelle conversioni di terzo down, allora il motivo per cui Oregon è rimasta inchiodata allo zero (sì, zero) per tutto lo svolgimento dei primi tre quarti di gioco è completamente spiegabile. I Cardinal sono stati l’antitesi dello spettacolo correndo per 241 yards ed affibbiando all’affidabile Tyler Gaffney ben 45 portate, un numero di chiamate che nemmeno il Toby Gerhart dei bei tempi si era visto assegnare, hanno confezionato una sola giocata importante su lancio grazie alla ricezione, l’unica di partita, di 47 yards di Michael Rector, e Ty Montgomery, normalmente il miglior ricevitore di squadra, non è stato un fattore. Le corse non hanno aperto la strada alla play-action, le chiamate sono state tanto prevedibili quanto funzionali alla situazione, piuttosto hanno spianato la via per un paio di sprint di Kevin Hogan, fermo a 103 yards su passaggio ma autore di una preziosa meta su corsa nel primo tempo e di una bootleg che ha permesso di guadagnare del terreno fondamentale nelle ultime battute del confronto.

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Ed ora, lassù, il caos è più controllato. Almeno, lo sarà fino a che non si saprà l’esito della supersfida tra Alabama e Lsu, la polpa del calendario Sec annuale, e pazienza se questa volta non sarà una sfida da Top Two, il sangue che corre tra queste due squadre non è buono, ed i Tigers, odorando l’upset a rivincita del passato, troveranno forze adrenaliniche anche dove non ne hanno realmente. Ma Oregon è caduta, e questo significa che Florida State è, salvo capitomboli, la contendente numero uno dei Crimson Tide, perché ora di conti non ce ne sono più molti da fare. I Seminoles sono imbattuti, i Ducks no.

Shaw molto probabilmente in finale non ci andrà, ma avrà sicuramente, a conti fatti, regalato un’altra annata di grande prestigio all’università di Palo Alto, giocando con una filosofia basilare ma efficace nei risultati, non eccitante né atletica, ma dannatamente concreta.

Stanford non vincerà il titolo assoluto, ma perlomeno ha fermato una delle più grandi macchine da guerra del college football degli ultimi tempi per la seconda volta consecutiva. I Ducks si leccano le ferite, ancora una volta letalmente dolorose. Potrebbe essere un buon motivo per vedere Mariota rinunciare ad una chiamata al prossimo draft.

 

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