L’undici di settembre, purtroppo, negli ultimi anni, è diventato famoso per qualcosa di veramente tragico, in parte legato al football, ma soprattutto per un fatto che ha colpito da vicino le nostre vite, eppure, nel mondo della palla ovale, questa data, ha ben altra importanza, soprattutto per chi ama la storia di questo fantastico sport, le imprese leggendarie, narrate da quelle immagine che piano piano, nel corso degli anni, sono passate, a piccoli passi, dal bianco e nero ai primi colori; un po’ sfocati, un po’ sgranati, ma è il decorso che ha fatto la tecnologia e che ha toccato anche la disciplina sportiva praticata con la palla lunga un piede.

Bryant e la sua inseparabile cartellina

Bryant e la sua inseparabile cartellina

Nella sua storia, in quelle pagine un po’ sbiadite, questo giorno è stato il primo, di una vita durata quasi settant’anni, di uno degli uomini che più di ogni altro ha contribuito a renderlo qualcosa di magico, di passionale, di incredibilmente fantastico, Paul William Bryant, conosciuto nel mondo del football e soprattutto di quello universitario semplicemente come Bear, colui che ha legato a doppio filo la propria vita e carriera sportiva con Alabama, rendendola famosa ben prima dell’avvento di Nick Saban.

Nativo di Fordyce, Arkansas, dove è venuto alla luce l’11 Settembre 1913, il piccolo Paul era l’undicesimo di dodici figli, e già a tredici anni si conquistò il nickname che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita, sfidando, nella promozione di un teatro itinerante, un orso cresciuto in cattività; così nacque la leggenda di Bear, che dopo aver giocato per la Fordyce High School, con la quale vinse il campionato statale del 1930, scelse di accettare la borsa di studio offertagli dall’università di Tuscaloosa, città nella quale attese due anni prima di esordire sul campo da football.

Correva infatti la stagione 1933 quando Bryant indossò per la prima volta la divisa dei Crimson Tide, posizionandosi nel ruolo di End, che fu suo fino al 1935, anno in cui decise di appendere caschetto e paraspalle al chiodo per diventare assistent coach di Union University, in Tennessee, nel 1936, non prima di aver vinto un titolo nazionale con Alabama nlel 1934 giocando sul lato opposto a Don Hutson, che sarebbe diventato NFL Hall of Famer dopo aver giocato per nove stagioni da professionista.

Un ruolo per il quale il buon vecchio Bear ha sempre amato definirsi l’altro end, così, era solito ripetere, quando ricordava quel periodo nel corso dei suoi lunghi racconti o interviste in cui rimembrava il breve tempo trascorso sul campo da football come giocatore; breve, perchè ad appena 23 anni decise di intraprendere la carriera da allenatore, sempre a spasso per gli States alla ricerca di un lavoro, da Union il primo ritorno ad Alabama, poi via a Vanderbilt prima e Georgia poi, con in mezzo una Guerra Mondiale, la Seconda, cui partecipò dopo il bombardamento di Pearl Harbor che sconvolse la sua patria.

Il Bryant-Denny Stadium

Il Bryant-Denny Stadium

Si arruolò in Marina, pur senza mai combattere, e trovò il tempo di salvare molti suoi commilitoni disobbidendo ad un ordine di abbandonare la nave su cui era in servizio, dopo che questa era stata speronata da una petroliera; un’azione che gli permise di ottenere il congedo con onore, e la possibilità di guidare Navy, dove allenò il futuro NFL Hall of Famer Otto Graham, prima di passare a Maryland, nella quale si fermò appena 12 mesi per poi salutare e trasferirsi in Kentucky.

Con i Wildcats la prima fermata lunga, otto stagioni intense e la vittoria della Southeast Conference nel 1950, apice massimo raggiunto da un team che sotto la sua guida presenziò a tre Bowl, arrivando addirittura ad occupare la sesta posizione nel Associated Press poll in quello stesso anno; un’esperienza importante, che gli aprì le porte per un’altra grande avventura, che potete trovare narrata nello splendido libro Football & Texas scritto dal giornalista e grande appasionato di football Roberto Gotta, nel capitolo dedicato proprio all’avvincente cavalcata di quei straordinari Aggies, partiti dal nulla per diventare campioni della Southwest Conference nel 1956.

Proprio quando guidava l’università di College Station, uno degli episodi più incredibili della sua carriera di allenatore, ovvero il camp di 10 giorni cui sottopose tutti i suoi giocatori, preannunciandogli che solo chi avrebbe superato quel periodo infernale si sarebbe meritato la divisa di Texas A&M; un tipo di allenamento che, fosse mai ripetuto oggi, aprirebbe una via diretta verso un licenziamento quantomai immediato.

Il Bryant Museum

Il Bryant Museum

Altro football, altri tempi, eppure tutti quei giocatori che hanno servito sotto Bryant, hanno un grandissimo ricordo e nutrono ancora un infinito rispetto per l’uomo prima che per il coach; quello stesso allenatore che tornato per la seconda volta a Tuscaloosa nel 1958, guardò negl’occhi le matricole, e i componenti di quella squadra che aveva vinto appena 4 partite negli ultimi tre anni, e gli promise che se avrebbero lavorato sodo, prima di lasciare l’ateneo, si sarebbero laureati campioni nazionali.

Una promessa che, come al solito, mantenne, portando i Crimson Tide nuovamente al titolo dopo vent’anni di magra, al termine di una stagione conclusa senza subire sconfitte, con un 11 vittorie infilate consecutivamente, compresa l’affermazione finale, al Sugar Bowl contro Arkansas; gli sfuggì il back-to-back l’anno successivo, ma vinse comunque l’Orange Bowl, e poi ancora il Sugar Bowl, prima di tornare a vincerlo, con Joe Namath al timone, nel 1964, quando concluse la stagione perdendo il match con Texas.

Un anno più tardi, si laureò nuovamente campione nazionale e si portò a casa un altro Orange Bowl, poi un digiuno di otto anni, fino alla nuova vittoria, targata 1973, quando un terzo dei componenti del suo roster era di colore; lui, figlio di un sud terribilmente razzista, dove la segregrazione era naturale quanto bersi un bicchier d’acqua, subì immeritatamente per anni accuse di razzismo, almeno fino a quando, nel 1970, riuscì a convincere l’università di Tuscaloosa a conferire una borsa di studio ad un nero.

La sua statua a Tuscaloosa

La sua statua a Tuscaloosa

Il primo di una lunghissima serie fu John Mitchell, trasferitosi da un Junior College, poi ne arrivarono man mano altri, e battuto, almeno sul terreno di gioco, il razzismo, riuscì anche ad aver nuovamente ragione degli avversari, portando a casa altri due titoli, nel 1978 e nel 1979, accompagnati da altrettanti Orange Bowl, vinti contro Penn State e Arkansas, che furono le sue ultime vittorie di peso nella NCAA, che lasciò 3 anni più tardi, non prima di aver realizzato un altro record nell’arco della sua lunga carriera, ovvero diventare l’allenatore più vincente di sempre con la trecentoquindicesima affermazione ottenuta contro Auburn, guidata dal suo ex assistente Pat Dye.

Era il 1982, il 29 Dicembre, il giorno in cui Bear guidò per l’ultima volta i suoi Tide dalla sideline, e arrivò un’altra vittoria, l’ultima nella sua lunga carriera di allenatore, che gli permise anche di lasciare il college football da vincente quale era stato, nonostante il passo falso di fine novembre, quando il team da lui guidato perse l’ultima di regular season al Legion Field di Auburn, 22 a 21, per un solo punto, chiudendo con un record all-time di 323 vittorie, 85 sconfitte, e 17 pareggi.

Poche settimane dopo, il 26 Gennaio 1983, mentre si era recato al Druid City Hospital di Tuscaloosa per un controllo di routine in seguito ad un dolore toracico riscontrato qualche giorno prima, fu colto da un massiccio attacco di cuore e si spense all’età di 69 anni, nemmeno ad un mese di distanza da quando aveva annunciato l’intenzione di lasciare Alabama e lasciare il football con le seguenti parole: “Questa è la mia scuola, la mia Alma Mater; La Amo e Amo i miei giocatori, ma a mio parere meritavano un allenatore migliore di quello che sono stato io quest’anno”.

Chi ha avuto la fortuna di averlo come coach durante la carriera collegiale lo ha descritto come un duro dal cuore d’oro, una persona capace di stimolarti come poche altre a dare il meglio di te stesso, sul campo, come nella vita; per molti dei suoi giocatori, per loro stessa ammissione, è stato come un padre, e forse per alcuni anche molto di più; lui, che padre lo fu davvero, e che custodiva gelosamente il rapporto che lo legava al suo Paul Jr., il figlio avuto dall’unico grande amore della sua vita, oltre il football, la moglie Mary, conosciuta, guarda caso, a Tuscaloosa.

Con Alabama, oltre alla vita sportiva Bryant ha legato anche la sua vita personale, ed ancora oggi, nel campus, la sua anima la si si percepisce ovunque, a partire dal Bryant-Denny Stadium fino ad arrivare al Paul W. Bryant Museum, dove vengono conservati molti dei suoi cimeli, tra i quali le cartelline cui era profondamente legato, dove appuntava tutti i nomi dei suoi ragazzi, per essere sicuro di mandarli in campo tutti prima del fischio finale.

Bear BryantUn signore, anche in queste situazioni, non ha mai dimenticato nessuno, concedendo a tutti la chanche di giocare a football per i suoi Tide, che lo ricordano prima di ogni partita casalinga, mandando la sua immagine sullo schermo gigante dello stadio a lui intitolato, come se da lassù, quasi come fosse un angelo custode, possa proteggere la squadra cui ha dedicato una vita intera, guidandola verso la vittoria.

Chissà, se anche quando si è presentato davanti alle porte del cielo, ha ripetuto la stessa frase pronunciata nel giorno del suo ritorno ad Alabama nel 1958, quando a precisa domanda di un giornalista “Perchè sei qui?”, rispose “Mamma ha chiamato, e quando Mamma chiama, bisogna venire di corsa.”

Link originale sul blog www.footballnation.it

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