Geno Smith, Mvp dell'Orange Bowl, si diverte con... parte del trofeo appena vinto.

Per Dabo Swinney, head coach dei Clemson Tigers, questa stagione sarebbe potuta rimanere negli annali. La squadra, negli ultimi vent’anni, ha vissuto perennemente di speranze disattese, di roster colmi di talento che non riuscivano a tramutare in vittorie gli scontri decisivi, di edizioni di squadre che parevano poter contendere, ma non ce l’hanno mai fatta.

Swinney è entrato dalla porta di servizio, sostituendo Tommy Bowden e meritandosi di vedersi tolta l’etichetta interim tenendosi stretto il lavoro; dopo aver riportato l’ateneo alla finale di conference 2009 – persa contro Georgia Tech – lo scorso anno ha fatto registrare il primo bilancio perdente (6-7) dal 1998, ma nella presente stagione si è ampiamente rifatto. Ha vinto la Atlantic Coast Conference qualificandosi per l’Orange Bowl, ottenendo i traguardi che Bowden aveva promesso ma non aveva mai raggiunto. Ed in quel medesimo palcoscenico è uscito con le ossa rotte, assieme a tutta la sua organizzazione.

La West Virginia dei record ha posto un punto esclamativo grande come un condominio davanti a tutte le persone che hanno dubitato che la Big East di quest’anno potesse mettere in campo sul grande palcoscenico una squadra adatta a giocarvi, perlomeno giudicando l’eccessiva altalenanza di prestazioni all’interno di quel raggruppamento e valutando il fatto che, a conti fatti, dentro la conference i Mountaineers non erano stati meglio di Cincinnati e Louisville, compagini con la quale hanno condiviso la vetta divisionale e contro e quali sulla carta avrebbero dovuto prevalere.

70 punti, 10 mete, una delle più spettacolari giocate difensive di tutti i tempi e quasi 600 yards totali hanno invece fornito una risposta adeguata e stabilito la consistenza della squadra allenata da Dana Holgorsen, che nel suo anno d’esordio sulla linea laterale ha aiutato l’università a portare a 3-0 il computo riguardante le apparizioni BCS dei Mountaineers.

Tavon Austin, enigma irrisolvibile per la difesa di Clemson.

Holgorsen, alla fine, le sue promesse le ha mantenute. Ha portato con sè un nuovo sistema offensivo che i fatti dicono essere stato digerito a dovere dai giocatori, proponendo una spread offense differente dagli schemi classici precedentemente installati da Rich Rodriguez, utilizzando le tantissime armi a disposizione nel ruolo di wide receiver, proponendo il letale diamond backfield che tanti danni ha arrecato a Clemson, e puntellando infine il tutto con un running back molto fisico, quest’ultima una caratteristica stridente con chi ricorda le evoluzioni di Steve Slaton e Noel Devine.

Il quarterback Geno Smith è stato un direttore d’orchestra più che degno. Il meritato Mvp della competizione ha chiuso con 6 passaggi da touchdown, una meta personale su corsa, 401 yards e 31 completi su 42 tentativi, ma soprattutto ha tenuto costantemente alta l’efficienza di un reparto offensivo che ha giocato in maniera stellare.

Holgorsen ha impostato il piano di gioco su passaggi a corto raggio per sfruttare poi le opportunità di guadagno post-ricezione dei suoi atleti, miscelando il tutto con schieramenti sovraccaricati di ricevitori da un lato per confondere a più non posso le coperture a zona dei Tigers, centrando il risultato in diverse occasioni, ed ottenendo giochi a lunga gittata. Ma la colpevolezza più grande della difesa è stata quella di non aver trovato risposta allo schieramento con tre running backs in campo contemporaneamente, sfruttato per ben quattro delle dieci mete segnate, tutte peraltro firmate dallo stesso giocatore, un Tavon Austin che senza super-Geno sarebbe senza dubbio stato il miglior giocatore di un Orange Bowl che mai nella sua storia aveva testimoniato quattro entrate in endzone da parte del medesimo giocatore (solo tre altri giocatori vi riuscirono, in altre manifestazioni, tra i quali la leggenda Fred Biletnikoff).

Nel primo quarto sembrava essere una partita addirittura equilibrata, con le difese in reciproca difficoltà a fermare l’opposizione ed il pensiero di una gara ad alto contenuto offensivo già fervido nella mente degli spettatori. Swinney e Chad Morris, coordinatore offensivo al primo anno proveniente dalla spettacolare esperienza di Tulsa, avevano premuto da subito i tasti corretti per avere ragione della 3-3-5 dei Mountaineers, per natura adatta a contenere una spread offense per via della presenza contemporanea di tanti defensive backs. Il quarterback Taji Boyd ha subito messo in moto l’intesa con DeAndre Hopkins ed il super-freshman Sammy Watkins, due ricevitori letali nel prendere palla sul corto e sbilanciare gli avversari con finte e controfinte negli spazi brevi, e non a caso responsabili di 173 yards e 2 mete in combinata. A questo faceva da perfetto contraltare la capacità di colpire con le corse di Andre Ellington, che guadagnava generose yards mentre le secondarie restavano appiccicate ai tre o quattro ricevitori in campo girando la schiena al backfield, e permettendo il touchdown di apertura.

Darwin Cook riporta in meta il pallone che ha cambiato la storia della partita.

Poi, l’episodio che ha dato inizio al disastro più completo. Sul 21-17, con la possibilità di andare nuovamente in vantaggio, Ellington pareva essere ad un centimetro da una meta sicura quando ecco spuntare il cornerback Darwin Cook con il pallone in una scena surreale, che ancora vedeva membri dell’attacco di Clemson celebrare la segnatura con le braccia al cielo mentre il difensore avversario metteva in piedi un touchdown su ritorno di 99 yards, il più lungo di sempre nella storia della manifestazione.

Questo è stato solo l’inizio del collasso di un secondo quarto dove i Mountaineers hanno siglato 35 punti: dopo l’infausto episodio Boyd, fino a quel momento autore di una più che buona prestazione, ha lanciato un intercetto e perso un fumble nel suo territorio, alimentando i drive che avrebbero portato a ben 21 punti al passivo nel giro di due minuti e mezzo, con un parziale devastante di 49-20 in chiusura di primo tempo. Poi un’altra meta. Ed un’altra ancora. Ed infine l’ultima, arrivata tra un’inutile segnatura di Clemson e l’altra, firmata da Willie Milhouse  per il punto numero 70, contro il quale i non pochi 33 punti dei Tigers sono sembrati davvero poca cosa. In fondo, Austin, Bailey, Smith ed Alston avevano già prodotto abbondanti fuochi artificiali

Ed ora, persino gli screzi di inizio stagione che parevano far presagire dei disordini interni allo spogliatoio di West Virginia sono un pallido ricordo. Allora Bill Stewart, colui che era succeduto a Rodriguez, non aveva accettato il fatto di dover cedere il posto ad Holgorsen in maniera designata alla fine di questo campionato, l’aveva presa come una mancanza di rispetto, ed aveva deciso di informare alcuni giornalisti di aspetti riservati della vita del collega, creando una frattura mai più ricomposta.

Holgorsen, privo di esperienza da capo allenatore, ha dimostrato di saper gestire questo lavoro con la conoscenza tattica e psicologica che ci vuole, il suo attacco, denominato Mountain-Air Offense, è stato di non difficile digestione per i suoi ragazzi, ed oggi i Mountaineers possono sognare nuovi ed ambiti traguardi, con un quarterback cresciuto tantissimo tra un anno e l’altro (e fresco detentore del record universitario di yards passate in singola stagione), una linea offensiva salda, ed una fila di playmakers da far paura a chiunque, tanta è la capacità di fuoco in dote al potenziale dell’attacco.

Un potenziale che Swinney e la sua difesa hanno assaggiato di persona. Ed ecco che un’assenza di due decadi dai Bowl che contano, si è semplicemente trasformata in un altro crollo nel momento decisivo. I Tigers sono giunti all’appuntamento tatticamente impreparati, e di questo dovrà risponderne il loro coaching staff.

 

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