A due settimane dalla Finale e smaltita l’abbuffata di partite, è il momento di fare alcuni ragionamenti sul Tournament e sulla stagione nel suo complesso.

Gli One man team non fanno più tanta strada nel Tournament

Anche quest’anno le squadre con un attacco sbilanciato su un giocatore si fermano prima delle Final Four.

Purdue con Zach Edey da 22ppg ha perso al primo turno contro una #16 poi Kansas, un’altra #1, con un Jalen Wilson da 20ppg ha perso al secondo turno, Arizona aveva Azuolas Tubelis a 20ppg e da #2 ha perso al primo turno contro Princeton ma anche Gonzaga, Indiana ed Iowa sono cadute vittime di upset nonostante Drew Timme, Trayce Jackson-Davis e Kris Murray fossero tutti sopra i 20ppg.

Delle squadre arrivate alle Final Four ben tre avevano almeno 3 giocatori oltre i 10ppg di media mentre San Diego State ne aveva solo uno ma altri 5 erano sopra i 7 punti di media.

Nelle partite da dentro-o-fuori se il tuo giocatore di riferimento offensivo ha problemi di falli o una giornata storta al tiro i suoi compagni, non abituati a dover guidare la squadra, difficilmente riescono a compensare.

L’esempio lampante si è avuto nella partita di Elite8 Gonzaga-UConn quando, all’inizio del secondo tempo a Drew Timme è stato fischiato prima un dubbio terzo fallo a rimbalzo e poi un evidente sfondamento, sul -10 la squadra si è spenta. In questo caso anche coach Few è parso rassegnato, non ha cercato di prendere un tecnico per stimolare i suoi, ha solo abbozzato per qualche azione una difesa a tutto campo che, facilmente battuta, è stata sostituita da una triste zona 3-2 che si è trascinata fino alla fine.

Gli one-and-done non fanno più la differenza 

Le classifiche dei recruit, come ad esempio la ESPN 100, devono essere per quelle che sono: una classifica basata sulle potenzialità di giocatori che sono sempre meno decisivi nell’NCAA e poi nell’NBA.

Senza andare troppo indietro la ESPN100 del 2021 aveva ai primi 4 posti Chet Holmgren, Jaden Hardy, Emoni Bates e Paolo Banchero; di questi Hardy, draftato al secondo giro è ora in G League, Bates si è trasferito da Memphis a Eastern Washington (che ha avuto una stagione da 8-23) Holmgren seconda scelta assoluta si è infortunato in preseason mentre Banchero e Jabari Smith, un altro freshman scelto come terzo nel draft, non sono riusciti a portare Orlando e Houston ai play-off.

Tornando alla stagione appena conclusa se guardiamo l’ultima ESPN100 dei primi 8 giocatori (Dereck Lively, DariqWhitehead, Nick Smith, Dillon Mitchell, Amari Bailey, Keyonte George, Kyle Filipowski, Kel’el Ware) solo in due sono arrivati alle Sweet16 dove però si sono fermati.

I centimetri non sono un fattore

La classica formazione del basket prevede play, guardia, ala piccola, ala grande e centro ma quest’anno il Tournament ha confermato che a livello collegiale (ed in parte anche l’NBA) la struttura tipo non è necessaria per arrivare fino in fondo.

Delle finaliste solo FAU aveva con Vladislav Goldin (7’1”) un vero centro titolare mentre le altre squadre avevano al n.5 delle ali grandi a volte anche undersized come Norchad Omier (6’7”) piuttosto che Adama Sanogo (6’8”).

E nemmeno l’NBA sembra interessata ai centimetri dal momento che al primo giro del prossimo draft, oltre a un lungo anomalo come Wembanyama, probabilmente l’unico 7 piedi che verrà chiamato sarà Derek Lively III, un’assoluta scommessa basata sul fatto che era al n.1 della ESP100 visto quello che ha prodotto in questa stagione con Duke.

Le partite del Tournament non seguono la logica

Difficile pensare che a novembre o dicembre Purdue non avrebbe battuto facilmente Fairleigh Dickinson (NET 301 – RPI 243) ed Arizona non avrebbe superato in scioltezza Princeton (NET 111 – RPI 64), ma allora perchè ad aprile hanno perso?

Gli appassionati del basket college direbbero che dipende dalla magia che ammanta il Tournament ed in parte è proprio così, ma più che la magia quello che fa la differenza è la capacità di gestire la pressione di partite da dentro-o-fuori da parte di ragazzi poco più che ventenni.

Quando non hai l’esperienza e soprattutto se sai di essere superiore all’avversario ma non riesci a fare il break, la paura di perdere prende il sopravvento, i palloni pesano tonnellate e se sbagli un paio di cose facili, per evitare che la partita ti sfugga di mano, devi riuscire a fare qualcosa di difficile con tutti i rischi annessi e connessi.

Gli allenatori sono sempre importanti?

Ovviamente la risposta è SI, ma guardando il lignaggio di quelli arrivati alle Final Four verrebbero dei dubbi: Dusty May è capo allenatore da 4 anni, Brian Dutcher da 5 anche se dopo una lunga carriera da assistente (ha avuto un ruolo importante nel reclutamento dei Fab Fivea Michigan: Chris Webber, Jalen Rose, Juwan Howard, Jimmy King e Ray Jackson), Dan Hurley è figlio di un allenatore nella Hall of Fame (per quanto fatto nelle high school) ma prima di andare a UConn aveva allenato un paio di college minori e solo Jim Larranaga era già arrivato al secondo week-end di un Tournament, in realtà per ben 4 volte compresa una Final Four nel 2005 con George Mason.

Se misuriamo poi la rilevanza degli allenatori in base ai loro stipendi, abbiamo un’altra conferma visto che il più pagato dei 4 era Hurley con 2,9mln ma ben oltre la 30^ posizione della relativa classifica.

L’impressione è che a parità di lettura tattica della partita, più che la somma del talento della squadra, nel Tournament è importante che un coach entri sotto pelle ai suoi ragazzi riuscendo ad ottenere da loro più di quello che normalmente potrebbero dare in campo.

Viste le 4 finaliste, si può dire che il Committee abbia fatto un buon lavoro costruendo i Regionals?

La risposta è assolutamente si!

E’ vero che le #1 ed anche le #2 sono uscite prematuramente rispetto alle attese ma il ruolo del Committee non è quello di creare un tabellone perfetto, bensì quello di usare bene gli at-large-bid creando Regionals i più equilibrati possibili.

E definito l’obiettivo, nessuno può dire che quest’anno non sia stato raggiunto.

Cosa si può dire degli arbitraggi

In un Tournament bello, combattuto ed avvincente gli arbitri sono stati quelli meno convincenti; sicuramente non negativi ma in assoluto la nota meno positiva (e chi lo dice è un ex-arbitro).

L’instant replay, obbligatorio negli ultimi minuti, ha permesso di evitare che in determinate situazioni un fischio sbagliato potesse decidere il risultato, ma se l’errore arbitrale sta nel chiamare o non chiamare un fallo, può rivelarsi decisivo in qualunque momento della partita.

La stoppata pulitissima di Vladislav Goldin che gli è costata il 4° fallo nella semifinale nazionale quando FAU era sul +3 con meno di 5′ sul cronometro è l’esempio di una chiamata formalmente non decisiva ma che ha comunque fortemente influenzato il prosieguo della partita.

E’ impossibile sapere come sarebbe andata una partita con un fischio o un non-fischio ma gli allenatori sanno che gli arbitri fanno parte del gioco come un tiro sbagliato ed anche quando non condividono una loro decisione normalmente la rispettano; i più esperti provano col dialogo a crearsi un credito da incassare nel prosieguo del match oppure cercano il fallo tecnico per dare la scossa alla loro squadra e non per una sterile quanto inutile polemica.

La stagione NCAA è finita ma è proprio adesso che gli allenatori pongono le basi per la prossima visto che le cosidette “letter of intent” firmate in stagione dai ragazzi in uscita dalle high school devono essere trasformare nell’iscrizione al college e devono rapidamente accaparrarsi i migliori giocatori entrati nel “transfer portal”.

Ma di questo ne parleremo nelle prossime settimane.

 

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