Seguendo la scena sportiva capita spesso di notare giocatori che colpiscono in modo particolare noi stessi, ma inspiegabilmente non sembrano riscuotere grande successo presso “le masse”: se c’è un ambito in cui questo viene portato quasi all’esasperazione a mio parere è proprio il college basketball, immenso crogiolo di bipedi più o meno capaci, tutti pronti a passare nel giro di poco tempo dalle stelle alle stalle o, più spesso, viceversa.

Da questo presupposto nasce questo articolo, dal voler raccontare almeno in parte un certo numero di atleti (arbitrariamente fissato a quindici per ovvie ragioni) che a una mia rapida valutazione meriterebbero più considerazione, motivo per cui non si troveranno qui grandi nomi o grandi conference di provenienza.

Non starò a spiegare le logiche difficoltà nell’operare una scelta tra i vari nomi e nel cercare di fare per tutti una dignitosa presentazione, né proverò a limitare le frequenti infiltrazioni di soggettività che si potranno trovare; tengo solo a precisare che l’intento generale con cui scrivo è di raccontare giocatori NCAA importanti attualmente per le rispettive squadre, non futuri giocatori dalla sfolgorante carriera professionistica, che anzi non è neanche detto avranno tutti.

Fatte le dovute precisazioni, andiamo a incominciare.

Il nostro viaggio comincia a partire dalla East Coast – inflazionata in questa rassegna, come si avrà modo di vedere – nel North Carolina, più precisamente alla poco rinomata Campbell University; la fermata alla corte dei Fighting Camels ha lo scopo di conoscere meglio Eric Griffin: sconosciuto fino a poco tempo fa (io ho all’attivo solo una partita in cui l’ho visto giocare), in poco tempo è diventato, di quelli inseriti in questo articolo, probabilmente il nome di cui si parla di più presso gli “addetti ai lavori”.

E se ne parla per il semplice fatto che ci troviamo davanti a un’ala con centimetri, mobilità e un atletismo illegale, nonostante un fisico da grissino: questo già basterebbe per giustificare le attenzioni che sta catalizzando sempre più, anche (e anzi, principalmente) a casa NBA, ma il ragazzo aggiunge anche comprensione del gioco, buoni fondamentali di base e voglia di migliorarsi.

Il tutto in soli cinque anni di basket giocato in modo organizzato, dato che fino all’ultimo anno di high school non era riuscito a entrare nella squadra della scuola; da qui il suo biennio JUCO, dal quale lo ha reclutato un’università sconosciuta ai più e i cui atleti hanno un nome quantomeno bizzarro.

Alla luce di questo, risultano ancora più incredibili ad esempio l’affidabilità del jumper, il discreto trattamento di palla, la visione di gioco e consapevolezza del contesto di squadra, ma più in generale appunto il livello di maturità e relativa rifinitezza raggiunto in quello che è un tempo ristrettissimo. Il tutto quando deve ancora compiere ventidue anni pur essendo alla conclusione del suo quadriennio collegiale, rendendo particolarmente intrigante l’immenso potenziale dimostrato.

Rimaniamo all’interno della Big South Conference ma passiamo in Virginia, alla Liberty University. Qui, dove da freshman furoreggiava Seth Curry, troviamo un altro prodotto di quella classe di recruiting: parliamo della guardia Jesse Sanders, ora leader incontrastato di una squadra che guida in tutte le principali voci statistiche.

Come profilo generale e probabili prospettive future siamo uno/due gradini più in basso rispetto al Griffin di prima, ma le caratteristiche tecniche sono lo stesso altamente intriganti.

Il ragazzo del Texas è di fatto un playmaker che staziona intorno al metro e novanta, veloce e dotato di un buon ball-handing: tende a cercare sempre il compagno smarcato, unendo creatività e concretezza e mostrando una caratteristica velocità nell’eseguire il passaggio per il ribaltamento; per quanto concerne il mettere la palla nel cesto dimostra invece qualche lacuna, perché se è sì un buono slasher capace di assorbire benissimo i contatti, è anche un tiratore sotto standard.

Se però consideriamo la stazza, il senso della posizione e la propensione a seguire i tiri altrui e proprio, tutti elementi che ne fanno un ottimo rimbalzista, arriviamo ad avere un giocatore che può flirtare con la tripla doppia virtualmente ogni volta che scende in campo a questi livelli; e infatti le sue cifre stagionali parlano di un 12-8-8 circa di media (assolutamente notevoli pure in una conference non di prima grandezza) e la tripla doppia è puntualmente arrivata nella vittoria su High Point.

Piace anche per la voglia in difesa, nel lottare su ogni pallone e l’intensità in campo, nonché per la fama di bravo ragazzo profondamente religioso che aiuta sempre a riscuotere consensi.

Ci spostiamo al College of Charleston, in South Carolina: perso quello che probabilmente è stato il miglior giocatore della storia dell’università, l’Andrew Goudelock ora ai Los Angeles Lakers, la squadra si affida ora ad Antwaine Wiggins per cercare di rimanere ai vertici della conference.

Ala piccola mancina, ha beneficiato dell’addio dell’illustre compagno nel diventare l’uomo di riferimento dei Cougars: ha infatti raddoppiato tanto la sua media punti quanto la media di tiri presi a partita rispetto alla sua stagione da junior.

E’ piuttosto alto per il ruolo (ufficialmente a 6’7″, ma secondo me arriva a 6’8″ in scioltezza) e con braccia molto lunghe, cosa che nel tirare lo porta ad avere un punto di rilascio particolarmente difficile da contrastare; ed è tanto più importante in quanto Wiggins è principalmente un meraviglioso tiratore piazzato, specie dalla distanza.

Da tre punti lo si vede agire prevalentemente su scarichi dei compagni, ma nell’attaccare il canestro e tirare dal mid-range dimostra di sapersi anche creare la conclusione da solo, specie mettendo in mostra un buon floater: il primo passo non è affatto esplosivo (forse in parte eredità dell’infortunio al legamento crociato di due anni fa), ma riesce a sopperire grazie alle lunghe leve e al ball-handing di livello per un giocatore tanto alto, anche se un po’ innaturale e che a un primo impatto può sembrare inaffidabile.

Offensivamente ha però due lacune piuttosto notevoli: è sorprendentemente sotto standard dalla lunetta, dando poca parabola al tiro e non riuscendo a raggiungere il 60%; e non è inoltre un buon passatore, con la maggior parte delle sue palle perse che viene in conseguenza della scarsa visione di gioco.

Non male per impegno e letture in difesa dove, per quanto ancora da sgrezzare, sembra avere un alto potenziale grazie soprattutto all’ottima combinazione fisica per il suo ruolo.

Charleston inizialmente sembrava una squadra molto interessante e con alla portata un posto al torneo NCAA; ma l’inizio delle partite di conference ha visto calare il rendimento dei Cougars in modo repentino: hanno già sette sconfitte nella Southern, compreso lo scontro con una favoritissima Davidson che invece finora sta recitando la parte dello schiacciasassi.

Salendo nel nostro itinerario entriamo nei domini della prestigiosa Ivy League, con prima fermata al campus della University of Pennsylvania per parlare di un giocatore che il sottoscritto supporta incondizionatamente fin dalla stagione da freshman: trattasi di Zack Rosen, faro indiscusso della squadra.

Non ha fisico, non è veloce né tantomeno atletico, ma questo mancino del New Jersey ha tutto quanto vorreste nel vostro playmaker, specie per guidare un attacco a metà campo come quello di Penn. Sempre sotto controllo, con educato trattamento di palla e buona visione di gioco tale da fargli trovare il compagno smarcato anche con soluzioni che non sembrerebbero così immediate ad altri, dove eccelle è nel conservare lucidità e sangue freddo anche nei frangenti più difficili.

Inoltre, nonostante i limiti fisico-atletici già esposti, è uno scorer sorprendentemente efficace, tale da riuscire a guidare la Ivy League in punti a partita (oltre che in assist): è un ottimo tiratore, capace di creare dal palleggio così come di segnare in catch-and-shoot, e la mano è affidabile tanto da tre punti quanto dalla media distanza; tuttavia è anche inaspettatamente bravo nell’uno contro uno, grazie al saper attaccare spesso lo spazio giusto e al perfetto uso del repertorio di piede perno, finte, esitazioni e particolarmente di un esecuzione dello step-back che credo abbia pochi eguali in Division I.

Questa sorta di gioco tutto di intelligenza e tecnica lo porta a sopperire al povero primo passo e a battere il proprio uomo con relativa regolarità, anche se generalmente preferisce poi una conclusione dal mid-range piuttosto che andare fino in fondo.

La sensazione è che volendo possa dedicarsi senza problemi a una carriera professionistica nel basket, dopo aver chiuso quest’anno il quadriennio collegiale; a Pennsylvania sembrano comunque avere già in mano un possibile erede nel freshman Steve Rennard, che in alcuni flash mi ha riportato alla memoria il Rosen degli esordi.

Passiamo quindi a chi è prevedibilmente destinata a vincere la conference, quella Harvard che quest’anno è riuscita addirittura a comparire nel ranking. Lasciando da parte Keith Wright, il loro miglior giocatore, e Oliver McNally, l’altro senior imprescindibile per il team, ho deciso di concentrarmi sul sophomore canadese Laurent Rivard.

Guardia, è un tiratore sublime ma allo stesso tempo con una vena di follia: nell’anno da freshman tendeva a tirare qualunque cosa gli capitasse tra le mani e tutt’ora, per quanto più disciplinato, tenta quasi sei triple a partita su un totale di poco più di sette conclusioni, con risultati comunque a tratti soddisfacenti.

Buona mano, range esteso e stile bello da vedere, con rilascio fluido e veloce, la sua specialità è il letale tiro in sospensione: capace di crearselo da solo, tuttavia ha dimostrato le migliori cose su scarichi o in uscita dai blocchi, cosa a dirla tutta anche piuttosto scontata visto il gioco di Harvard e il ruolo che ha il nostro; all’occorrenza sa anche mettere palla a terra e attaccare a dovere il canestro, aiutato dall’appropriato primo passo e dall’atletismo non eccelso ma molto buono per il livello medio dei “secchioni” della Ivy League.

Ha comunque fatto vedere di essere più completo di quanto non sembri, adatto ma allo stesso tempo sprecato nella sua forzata reputazione di specialista tiratore: quest’anno è visibilmente più dedito anche ad altre fasi del gioco, e sotto la sapiente mano di coach Amaker sta pian piano crescendo e cercando di rifinire il suo potenziale (soprattutto difensivo, visto il buon fisico e i piedi veloci); cosa d’altra parte necessaria per diventare il riferimento che potrà essere in futuro per l’università.

Torniamo ora in Pennsylvania, per fare il giro di ben tre atenei della Atlantic 10. Il primo, situato a Pittsburgh, è la Duquesne University, le cui chiavi della squadra sono in mano a TJ McConnell.

Chiuso il quadriennio liceale con una stagione da medie allucinanti (34+8r.+9a.), è arrivato ai Dukes (che lo avevano reclutato già nella sua stagione da sophomore) come uno dei migliori prospetti dello stato, confermando il tutto con una solidissima stagione da freshman.

Con il passaggio al college il mettere punti a referto è passato in secondo piano, TJ si è focalizzato soprattutto sul diventare un playmaker affidabile e la cosa gli è riuscita piuttosto bene: poco sopra il metro e ottanta (venti centimetri più alto di quando entrò all’high school) e con una verticalità sotto standard, questa era giocoforza la strada da prendere, ma l’altissimo QI cestistico e l’altruismo del ragazzo l’hanno resa piuttosto facile.

McConnell infatti pensa prima di tutto a far girare il meccanismo e a passare la palla ai compagni, risultando decisivo nella buona riuscita del gioco: la squadra è piuttosto evidentemente più fluida con lui in campo, che gestisce sapientemente i ritmi con grande freddezza e allo stesso tempo trova i compagni con passaggi illuminanti grazie all’ottima visione di gioco.

Se come detto non è certo giocatore che pensa in modo esasperante alla conclusione personale, c’è da dire che pare non abbia dimenticato come si mette la palla nel cesto e anzi il suo sangue freddo lo porta a prendersi molti tiri importanti: ball-handing e un crossover efficacissimo gli facilitano il compito nel battere il proprio uomo, e per concludere può scegliere tra il jumper dalla media o l’andare fino in fondo (con più di qualche problema nell’assorbire i contatti); buona anche l’efficacia del suo tiro da tre, anche se la meccanica e il rilascio sarebbero da migliorare.

Dove però stupisce veramente è nell’aspetto difensivo: svolge diligentemente il compito sull’uomo, senza essere un mastino, ma è allucinante nel rubare palloni e non a caso in NCAA è ai vertici di questa statistica per la seconda stagione di fila.

Le mani sono infatti velocissime e comandate da un cervello che a tratti pare sapere in anticipo dove andrà il pallone, per recuperarlo tanto sul proprio uomo quanto in aiuto o sulle linee di passaggio; a questo va aggiunta la propensione all’hustle, al buttarsi su tutti i palloni vaganti o sporcati, cosa che d’altra parte è prerogativa generale dei Dukes.

Inoltre forse la cosa più apprezzabile e eccezionale è la capacità di subire uno sfondamento, perfetto per tempismo e posizionamento anche e soprattutto in aiuto, nonostante qualche volta esageri nel cercarlo; non va nel boxscore, ma per le partite in cui l’ho visto giocare credo abbia tenuto una media abbondantemente superiore a uno sfondamento subito per partita.

A Philadelphia il nostro focus parte dalla Saint Joseph’s University e più precisamente dal sophomore CJ Aiken.

Ha alle spalle una storia piuttosto impressionante, avendo sconfitto un tumore quando era bambino dopo una lotta durata cinque anni: un’esperienza che lo ha segnato anche nel carattere, portandolo a esasperare ulteriormente il suo essere già particolarmente timido e introverso; a tal punto che il suo accostarsi al basket cominciò quando la madre scelse di obbligarlo a giocare per cercare di aiutarne la socializzazione.

Questa power forward figura per il secondo anno di fila tra i leader nazionali in fatto di stoppate a partita: 4 attualmente, una media che non si spiega solamente con l’atletismo pazzesco del ragazzo. Aiken infatti non è di quei giocatori che si limitano a saltare senza costrutto per poi lanciare la palla al pubblico non appena riescono a intercettare una conclusione avversaria: al contrario, la sua verticalità è solo strumento secondario dell’ancora più straordinario tempismo nel saltare al momento giusto.

Va su in tempi infinitesimali, con controllo del corpo, uso di entrambe le  mani a seconda della situazione e una buona risposta alle finte avversarie, anche perché sa effettuare facilmente più salti ravvicinati; ed è ancora più particolare nel voler stoppare per recuperare la palla, una buona abitudine ormai difficile da riscontrare a questi livelli, dove la preferenza va al buttare la palla fuori dal campo nel modo più fragoroso possibile.

In perfetta linea con il suo carattere fuori dal campo, CJ è invece estraneo ai più comuni comportamenti di autocelebrazione dopo giocate particolarmente importanti, come appunto stoppate o schiacciate. Sul lato offensivo del campo si esibisce spesso in affondate al ferro di assoluto livello (che però sembrano esaltare più il pubblico e i compagni), ma ha anche un jumper di sicuro affidamento: lento, ma fluido ed efficace, anche da tre punti.

In generale un giocatore ancora da rifinire, dove deve migliorare particolarmente è nell’andare a rimbalzo: il fisico ancora molto magro lo penalizza, così come le mani non particolarmente forti; ma sembra avere qualche problema proprio a livello di intensità nel seguire le conclusioni sbagliate e buttarsi in area.

Continua…

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